"L’•I•V•A
r•e•c•u•p•e•r•a•b•i•l•e
d•a•l•l•e
•
p•r•o•c•e•d•u•r•e
c•o•n•c•o•r•s•u•a•l•i:
p•r•o•b•l•e•m•i
•
i•n•s•o•l•u•t•i"
di Massimo Mastrogiacomo
1.
Recupero del credito di rivalsa e del credito dell’Erario.
La possibilità di procedere all’autoriduzione
dell’IVA a fronte del mancato pagamento del credito di rivalsa sancito
da procedure concorsuali o esecutive a distanza di alcuni mesi dall’introduzione,
sta suscitando un acceso dibattito tra gli operatori economici e gli uffici
fallimentari. Va registrata infatti una certa difficoltà nell’armonizzare
la lettura della norma a seguito della correzione apportata dal legislatore
con la L. 140 del 28 maggio 1997[1],
di conversione del D.L. n.79/97, che ha eliminato dalla prima stesura il
termine “dell’avvio”, inteso quale momento iniziale del processo esecutivo.
Questo secondo intervento ha avuto un effetto sostanzialmente abrogativo
dell’originario presupposto e si è reso necessario non avendo il
redattore della norma inizialmente valutato l’impatto sulle casse dell’erario.
Tale diversa prospettiva comporta ovvie difficoltà nel dare interpretazioni
che abbiano un requisito minimale di coerenza logica.
Allo stato delle cose i commentatori sono quasi
unanimemente concordi nel ritenere che il termine iniziale per procedere
all’autoriduzione sia stato “spostato” alla conclusione della procedura
concorsuale. Recita infatti la nuova formulazione dell’ipotesi integrativa
dell’art. 26 D.P.R. 633/72 : “o per mancato pagamento in tutto o in parte
a causa di procedure concorsuali o di procedure esecutive rimaste infruttuose”.
Le isolate tesi che sostengono continui ad essere l’inizio della procedura
concorsuale il momento dal quale si possano emettere le note di variazione
in quanto “l’infruttuosità” sarebbe riferita alle sole procedure
esecutive (da intendersi “individuali”)[2],
a nostro giudizio, oltre a non essere sorrette dal dato letterale, non
spiegano per quale ragione il legislatore avrebbe imposto al creditore
di un imprenditore agricolo (non soggetto alle procedure collettive) di
attendere ad esempio l’esito di esecuzioni immobiliari (che sappiamo avere
tempi anche più lunghi del fallimento), mentre il creditore dell’imprenditore
fallito godrebbe della possibilità di detrazione dell’imposta impagata
già dalla fase iniziale del processo concorsuale.
Riteniamo invece che l’eliminazione del termine
“avvio” di per sé dimostri che il legislatore abbia voluto correlare
il risultato finale del procedimento di esecuzione e recupero dell’imposta,
con l’intento, mal celato, di evitare una valanga di note di variazione
relative a fallimenti in corso che sarebbero piovute per il solo fatto
di essere stati avviati, con effetti a cascata sulle finanze pubbliche.
Tale soluzione normativa non ha avuto tuttavia
solo giudizi negativi poiché ha reso superfluo il dibattito sulle
questioni che si erano intraviste al momento dell’introduzione della norma
agevolativa: riferire il presupposto alla chiusura della procedura significa
eliminare qualsiasi questione circa la necessità o meno che il creditore
concorsuale rinunci formalmente all’intero credito, essendo risultato ormai
definitivamente insoddisfatto; inoltre i dubbi circa gli obblighi fiscali
del curatore che riceve la nota di variazione vengono di colpo cancellati
poiché l’emissione del documento sarà possibile solo quando
il fallimento è chiuso ed il curatore ha cessato le sue funzioni.
Tutte considerazioni ineccepibili e probabilmente in linea con l’obiettivo
che voleva raggiungere il legislatore ossia di autorizzare il recupero
dell’imposta definitivamente non riscossa “a valle”, senza ulteriori conseguenze
almeno sul piano formale.
Tuttavia non si sono fatti i conti con le norme
processuali che presidiano la tutela del credito dell’erario per l’IVA
dovuta secondo la relativa legislazione.
Ricordiamo brevemente che il meccanismo impositivo
prevede che in presenza di una nota di variazione ex art. 26 D.P.R. 633/72
al recupero dell’imposta, da attuarsi con l’annotazione nei registri IVA,
deve corrispondere un’analoga variazione da parte del cessionario o committente
in senso contrario, che rende tale soggetto sostanzialmente debitore verso
l’erario. Ovviamente tale debito non sorge in forza di una sostituzione,
né tantomeno (come è stato ipotizzato)[3]
si è in presenza di una surrogazione, ma l’ufficio IVA assume una
autonoma posizione creditoria rispetto al credito di rivalsa. Tale autonomia
è accompagnata da una diversa tutela: infatti le norme del codice
civile attribuiscono all’erario un privilegio generale sui mobili ed una
collocazione sussidiaria sugli immobili ex art. 2776 cod. civ. Si potrebbe
definire un presidio “forte” soprattutto rispetto al credito del cedente
che gode del solo privilegio speciale sui beni oggetto della transazione
assoggettata ad imposta.
Appare evidente, a chi ha pratica fallimentare,
che se nel piano di riparto si tenesse conto dei diversi privilegi il credito
dell’erario potrebbe avere capienza rispetto al credito di rivalsa (spesso
degradato a semplice chirografario per il mancato rinvenimento dei beni
su cui può gravare il privilegio ex art. 2758 cod. civ.). Ma il
fallimento, seppur sommario in alcune fasi, è processo e come tale
ha rigide regole poste a tutela delle parti, che non possono essere modificate
a piacimento. Non sarà perciò possibile mutare sostanzialmente
lo stato passivo reso esecutivo (che è alla base del piano di riparto)
in quanto cosa giudicata endofallimentare, se non attraverso le regole
poste dagli artt. 101 e 102 L.F. Deve inoltre essere sottolineato che il
suo iter formativo è caratterizzato dalla partecipazione di tutti
i creditori i quali potranno opporsi alle ammissioni anche tardive. Ne
consegue che l’erario, nel caso in esame, assumendo un credito autonomo
e processualmente diverso dal credito di rivalsa, non potrà che
farlo valere nelle forme (istanza di insinuazione) e nei termini previsti
dal processo fallimentare. Ma come potrà agire se il credito stesso
sorge non prima dell’esecuzione del riparto finale? E come potrebbe far
valere il suo diritto a partecipare alla formazione dello stato passivo?
C’è chi ha sottolineato[4]
che il problema va risolto attenendosi semplicemente al dettato dell’art.
101 L.F. secondo il quale il termine finale per proporre domanda di insinuazione
al passivo è il compimento del riparto finale, per cui l’erario,
in presenza di una nota di variazione emessa dal creditore per mancata
assegnazione di somme nel riparto perderebbe sic et simpliciter la possibilità
di far valere il suo credito. Il dato normativo sembra dare ragione a tale
soluzione per cui il destino del credito IVA resterebbe segnato definitivamente
fin dall’inizio, se incapiente il credito di rivalsa, con buona pace per
tutti (erario escluso): per il creditore che riesce a recuperare almeno
l’IVA, e per il curatore che si esimerebbe da qualsiasi obbligo tributario.
Tuttavia, seppur condivisibile e coerente sul piano degli obiettivi, essa
non spiega come sia possibile, e quindi non censurabile, una lettura normativa
per cui in uno stesso istante l’erario diventi potenziale creditore del
fallimento e contestualmente perda qualsiasi possibilità di far
valere il diritto di esercitarlo nel processo concorsuale, il quale si
è aperto, ovviamente, a favore di tutti i creditori, senza esclusioni.
Crediamo che, allo stato non vi siano soluzioni
percorribili e che solo un ulteriore intervento correttivo possa chiarire
il punto in questione. Tale intervento potrebbe ad esempio stabilire che
il credito di rivalsa venga considerato alternativamente come credito dell’erario
già in sede di formazione dello stato passivo, chiamando a partecipare
da subito l’ufficio titolare del (futuro) credito. Il piano di riparto
potrà pertanto prevedere l’alternativa attribuzione al creditore/fornitore,
ed in mancanza la collocazione come credito dell’erario. Altra ipotesi
potrebbe essere quella di uniformare i regimi di tutela del credito IVA
e del credito di rivalsa[5], chiamando
comunque l’ufficio IVA ad intervenire nell’iter formativo dello stato passivo.
2.
Considerazioni e valutazioni giuridiche sul rapporto tra procedure esecutive
individuali e concorsuali. Loro riflesso fiscale.
Anche la seconda ipotesi di autoriduzione introdotta
con la nuova disposizione, ossia il mancato pagamento causato da procedure
esecutive rimaste infruttuose, desta non poche perplessità. Il legislatore
ha mostrato anche qui scarsa dimestichezza con il diritto processuale e
con il diritto commerciale.
Ad un’analisi superficiale sembrerebbe che il
presupposto si verifichi semplicemente alla fine di una qualsiasi procedura
esecutiva individuale, anche mobiliare, rimasta infruttuosa, ossia, in
presenza di un verbale di pignoramento negativo o di una mancata assegnazione
in sede di riparto.
Posta in questi termini si otterrebbe un risultato
a dir poco contraddittorio perché: mentre si accende il dibattito
sul termine iniziale per emettere le note di variazione nel fallimento
risolvendolo nel senso di dare rilevanza al momento finale della procedura,
vi sarà il singolo creditore che, sic et simpliciter, potrebbe anticipare
il beneficio anche rispetto alla stessa dichiarazione di fallimento, dando
rilievo ad una qualsiasi procedura esecutiva rimasta infruttuosa. Anzi,
poiché la norma non sembra escludere che possa usufruire della precedente
infruttuosità anche il creditore che non l’ha iniziata, in teoria,
essendo pubbliche le risultanze del procedimento, basterebbe un solo verbale
negativo per anticipare il termine iniziale. Se poi il debitore successivamente
fallisce allora il termine per l’emissione della nota di variazione si
riaprirebbe per essere spostato alla conclusione della procedura creando
un evidente contrasto. Inoltre va considerato che l’esistenza di una sola
procedura esecutiva individuale infruttuosa non significa che non si possa
procedere al pignoramento su altri beni situati magari in circondari diversi.
È chiaro invece che solo il fallimento permette una ricostruzione
del patrimonio del debitore con la garanzia della par conditio creditorum.
E allora quale significato dare all’ipotesi fatta
dall’art. 26?
L’unica possibilità sembrerebbe quella
di ritenere le due fattispecie, procedure concorsuali e procedure esecutive,
non alternative tra loro con riferimento ad un unico soggetto, ma alternative
con riferimento a soggetti diversi. In altri termini nei confronti del
soggetto, debitore per IVA di rivalsa, fallibile, si dovrà sempre
attendere la chiusura del fallimento (che comporta la necessità
di azionare la sentenza dichiarativa). Al contrario sarà sufficiente
un’azione esecutiva individuale solo se proposta nei confronti di soggetti
non assoggettabili a fallimento (artigiani, piccoli imprenditori, società
semplici, imprenditori agricoli, ecc.)
3.
Brevi cenni sulle procedure concorsuali minori.
Dubbi sull’applicabilità dell’agevolazione
alle ipotesi di procedure concorsuali minori erano già stati espressi
relativamente alla prima stesura.[6]
Infatti, poiché il presupposto veniva determinato nel mancato pagamento
causato dall’avvio di procedure concorsuali, sembrava doversi escludere
almeno l’amministrazione controllata che non presuppone uno stato di insolvenza
e quindi un “mancato pagamento”: il debitore in momentanea difficoltà,
propone una moratoria dei pagamenti nel tentativo di superare la crisi
attraverso la presentazione di un piano di risanamento che preveda l’integrale
soddisfazione di tutto il ceto creditorio. Con l’eliminazione del termine
“avvio” il legislatore sembra aver definitivamente intrapreso la via della
correlazione tra il risultato finale della procedura (negativo) ed il recupero
dell’imposta. Le procedure concorsuali minori, come è noto, si caratterizzano
invece proprio dal fatto che presuppongono un pagamento anche se parziale.
Abbiamo già detto circa l’amministrazione controllata, mentre nel
concordato preventivo l’imprenditore deve offrire concrete garanzie di
pagamento in percentuale ai creditori chirografari, oltre all’integrale
soddisfazione dei privilegiati. Si segnala altresì che una costante
giurisprudenza ritiene che i creditori con privilegio speciale abbiano
diritto di essere soddisfatti integralmente ancorché i loro crediti
non trovino piena capienza nel valore dei beni oggetto della garanzia.
La tesi favorevole alla possibilità di
emettere note di variazione in pendenza delle procedure suddette ritiene
invece che il riferimento al mancato pagamento sia da intendere nell’impossibilità
processuale di pretendere il pagamento per il divieto di cui all’art. 51
L.F. se non nelle forme previste dalla procedura stessa. Tuttavia alla
luce della nuova formulazione dell’art. 26 anche tale eccezione dovrebbe
cadere.
4.
Effetti sull’imposizione diretta.
Un’ultima annotazione va segnalata riguardo l’influenza
della nuova disciplina dell’art. 26 D.P.R. 633/72 sui bilanci e sulla normativa
relativa all’imposizione diretta. Infatti l’introduzione della possibilità
di autoriduzione dell’IVA non riscossa “a valle” rende certo il recupero
dell’imposta o perché sarà soddisfatto il credito nella procedura
esecutiva (individuale o collettiva) o attraverso lo “scarico” della perdita
all’Erario con la nota di variazione. Questo comporterà a rigor
di logica che non potrà più essere considerata sopravvenienza
passiva ai sensi dell’art. 66 T.U.I.D. la parte di credito per IVA non
riscossa verso il debitore assoggettato a procedura concorsuale. A tale
conclusione, a nostro giudizio, non potrebbe essere contestato che la nota
di variazione sia solo una facoltà perché non è ragionevole
ritenere che il creditore non la eserciti per autoridurre l’IVA da versare.
Altro problema è il trattamento tributario della porzione di credito
per IVA già portato a perdita nei bilanci precedenti, poiché,
per l’inverso ragionamento, potrebbe essere considerato come sopravvenienza
attiva, se il fallimento è ancora aperto alla data di introduzione
dell’agevolazione.
Tuttavia appare fortemente ingiusto recuperare
ad imposizione diretta da subito il credito per IVA che verrà recuperato
probabilmente fra anni, non fosse altro per gli interessi impliciti che
dovrebbero essere scomputati.
Note
[1] Così STASI, “Prime
riflessioni nelle variazioni IVA nel fallimento”, in Il Fall.
n. 7/97, pag. 673; PASSANTINO, “Fallimento e note di variazione IVA”,
in Il Fall. n. 10/97, pag. 956; SALICE, “Variazioni in diminuzione
e procedure concorsuali ovvero il pasticcio dell’art. 26, Legge IVA”,
in Dir. Fall. 1997, II, p. 772; Assonime, circolare n. 64 del 9
giugno 1997.
[2] RIPA, “Il recupero dell’imposta
sui crediti insoddisfatti”, in “Italia Oggi”, inserto “La riforma dell’
IVA” p. 53.
[3] Lo riferisce RIZZARDI,
“Iva e fallimento, giudici in campo”,
in “Il Sole 24 Ore”del 5 agosto 1997.
[4] STASI, op. cit., pag.
674.
[5] Si legge nel “Codice del
fallimento” a cura di P.Pajardi, Milano 1997, a p. 195, che per la
stessa norma che autorizza il recupero dell’IVA, l’erario non acquisirebbe
il privilegio generale ex art. 2752 cod. civ. ma manterrebbe il privilegio
speciale ex art. 2758 cod. civ. che compete al credito di rivalsa.
Tuttavia, tale soluzione, oltre a non avere adeguata motivazione, parte
da un presupposto a nostro giudizio non corretto, ossia che per effetto
delle note di variazione l’erario si “sostituirebbe” al creditore originario.
Abbiamo invece visto come i due crediti sorgano in via del tutto autonoma
e in applicazione del meccanismo impositivo.
[6] APICE - MASTROGIACOMO, “L’autoriduzione
dell’IVA nelle procedure concorsuali”, in Il Fisco, n. 20/97,
pag. 5495.
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