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“r•e•v•o•c•a•t•o•r•i•a”
b•a•n•c•a•r•i•a
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Le banche sono assai spesso nel mirino dei curatori
che dedicano
sempre particolare attenzione ai rapporti che
l’imprenditore ha intrattenuto con gli istituti di credito, tradizionalmente
ed a ragione considerati creditori forti, in grado cioè di imporre
al debitore le loro condizioni e talvolta anche pagamenti, malgrado la
situazione di
difficoltà o addirittura di dissesto.
L’importanza del tema ha indotto la Rivista a
riunire
intorno ad un tavolo della redazione l’avvocato
Maria Teresa Persico, l’avvocato
Lucio Ghia ed il dottore
commercialista Renzo Mechelli,
tutti valorosi professionisti che operano nella
sezione fallimentare del Tribunale di Roma, insieme
al
consigliere Umberto Apice,
appassionato e profondo
cultore della materia fallimentare.
Coordinatore del
Forum è stato
il direttore scientifico della
Rivista,
Consigliere Sergio Di Amato.
DI
AMATO
Partiamo da una osservazione di carattere generale.
L’imprenditore in stato di insolvenza che continua ad operare costituisce
un rischio per l’economia generale, potendo travolgere nel proprio dissesto
altri imprenditori e, comunque, altri soggetti, con un elevato costo sociale,
a volte, come nel caso dei lavoratori dipendenti, almeno in parte direttamente
sopportato dallo Stato. Il credito concesso ad imprenditori insolventi,
che pure siano ancora in grado di fornire garanzie di terzi (i soci di
società di capitali prestano frequentemente garanzie personali e
reali), finisce così per esporre pericolosamente i c.d. creditori
deboli, sforniti di garanzie, come ad esempio i fornitori. Cosa dovrebbero
fare le banche, secondo voi, per distinguere una situazione di difficoltà
da una situazione di insolvenza?
MECHELLI
Vi sono molti strumenti utili per la cosiddetta
“diagnosi precoce” delle difficoltà dell’impresa. Tuttavia la fonte
informativa più importante in senso assoluto è l’analisi
degli ultimi bilanci. L’indagine del bilancio annuale che, per l’organismo
aziendale, ha una funzione equivalente a quella che le analisi cliniche
e radiologiche hanno per l’organismo umano, deve essere accompagnato anche
dall’esame critico dei bilanci degli esercizi immediatamente precedenti.
Vi sono, però, anche altre fonti importanti. La Centrale dei rischi
gestita dalla Banca Centrale che indica i fidi complessivi conferiti dal
sistema bancario a uno stesso cliente e, di contro, le loro esposizioni
effettive. I dati sui protesti cambiari e di assegni gestiti dal Cerved,
che da alcuni anni è possibile consultare, a condizioni non proibitive,
col proprio computer. Inoltre, le banche dati gestite dai Tribunali e dalle
Preture sulle cause attive o passive pendenti. Non occorrono molte parole
per sottolineare il valore sintomatico delle esecuzioni a carico di un’impresa;
tuttavia, anche la conoscenza delle cause attive e passive di cognizione
pendenti nei vari gradi può fornire preziose informazioni.
PERSICO
Vorrei sgombrare il campo dall’idea che i mezzi
a disposizione delle banche per conoscere con sufficiente precisione la
situazione in cui versa un imprenditore possano rappresentare da soli un
argomento per ipotizzarne una responsabilità extracontrattuale nei
confronti di terzi pregiudicati dal credito concesso dalle banche e dalla
conseguente prosecuzione dell’attività dell’imprenditore: i dati
di cui ha parlato Mechelli sono spesso parziali, chi concede credito ad
un imprenditore fida nella capacità di chi lo riceve di far fronte
alle proprie obbligazioni e, infine, il sovvenendo spesso espone, talvolta
fraudolentemente, un’immagine della propria impresa che non è aderente
alla (deteriore) realtà, rendendo la banca non meno vittima degli
altri creditori.
Sotto questo profilo un banchiere non avveduto
può, dietro costituzione di garanzie reali, concedere credito ad
un imprenditore insolvente pre-giudicando così sia i creditori non
privilegiati anteriori che quelli successivi e comportando tra l’altro
ritardo nella dichiarazione di fallimento.
In queste situazioni ci si deve chiedere quale
sia, eventualmente, il presupposto giuridico della responsabilità
della banca nei confronti dei creditori deboli. Taluni hanno ritenuto di
individuare il fondamento di tale responsabilità nella lesione aquiliana
del diritto di credito dei terzi basata dunque sull’atipicità dell’illecito
previsto dall’art. 2043 cod. civ. All’accoglimento di tale fonte di responsabilità
per la banca nel caso di concessione abusiva del credito, osta, però,
la considerazione, a mio sommesso avviso dirimente, che l’attività
illecita del banchiere e del sovvenuto non lede immediatamente e direttamente
il diritto dei creditori chirografari che rimane perfettamente integro,
ma solo la sua possibilità di essere soddisfatto (in altri termini
è la garanzia patrimoniale del creditore a venire meno ma non il
diritto di credito). Tanto più che il finanziamento, di per sé,
dà luogo ad incremento del patrimonio del debitore e non ad un depauperamento.
GHIA
Vorrei aggiungere una considerazione. Si ha talvolta
la sensazione di una caccia allo sconfinamento per promuovere azioni revocatorie
che rappresentano per le banche italiane un pesante aggravio che le penalizza
rispetto alla concorrenza europea. Questa caccia non è ragionevole.
E’ evidente che i fenomeni di difficoltà motivata da occasionali
squilibri funzionali (quali attesa di pagamenti e richieste di dilazioni),
legata alla necessità di far fronte a stipendi ed a pagamenti di
carattere strutturale dell’azienda (tasse, oneri previdenziali) vanno ben
distinti da situazioni marcate da un pesante divario tra capitale di rischio
e capitale di credito, da evidenze negative di bilancio, ovvero da protesti
celebrati o procedure esecutive iniziate. È evidente, infatti, che
in quest’ultimo caso, lo sconfinamento e la relativa concessione di credito
si inseriscono in una cornice di carattere fallimentare. In tutti gli altri
casi lo sconfinamento non può identificare di per sé, per
la banca, situazioni necessariamente diverse dal momentaneo squilibrio
tra entrate ed uscite. Certo è che lo sconfinamento occasionale
non deve diventare la regola, poiché in ciò si annida l’abuso
e il presupposto per la revocatoria. Gli sconfinamenti che rispondono ad
esigenze finanziarie eccezionali non costituiscono necessariamente le tessere
di un mosaico di decozione, mentre producono innegabili effetti positivi
dando la possibilità all’imprenditore di superare momenti di squilibrio
tra entrate e uscite, confermando valori produttivi e socio-occupazionali.
DI
AMATO
La casistica giudiziaria mostra che spesso gli
istituti di credito elaborano complesse operazioni per costituire garanzie
dei loro crediti o per ottenerne il pagamento. Solo a titolo di esempio
ricordo: 1) i mutui ipotecari o addirittura fondiari utilizzati dall’imprenditore,
per le cui mani non c’è reale passaggio di denaro, per la copertura
di altre esposizioni verso la stessa banca mutuante o, nei casi più
sofisticati, verso banca dello stesso gruppo cui appartiene quella mutuante;
2) le aperture di fido di importo pari allo scoperto in atto, così
da escludere la natura solutoria delle successive rimesse; 3) le aperture
di distinti rapporti, per le operazioni attive e passive, in modo da poter
ricorrere alla compensazione. Come può un curatore distinguere quando
queste operazioni rappresentano un tentativo di aggirare il rischio di
una successiva revocatoria e quando corrispondono ad una non fraudolenta
funzione economica e giuridica?
MECHELLI
Come curatore ho vissuto casi nei quali la banca
ricorreva alla utilizzazione della clausola contrattuale, prevista nello
schema ABI, della possibilità del recesso verbale dal fido da parte
della banca. Il sistema adottato era questo: la banca, in base al principio
del recesso verbale imposto ai clienti, quando ha notizia della irreparabile
crisi del cliente gli revoca o riduce verbalmente il fido, invitandolo
al rientro promettendogli però - sempre a voce - di ripristinare
il fido a rientro avvenuto e poi, una volta spremuto il limone, invia la
comunicazione scritta del recesso tentando con ciò di prendere due
piccioni con una fava; cioè da una parte fa apparire i versamenti
non come “atti solutori di debiti liquidi ed esigibili” come in realtà
sono, ma come ricostituzione della provvista, dall’altra, dimostra che
al momento delle rimesse la banca non conosceva lo stato d’insolvenza del
debitore. Un caso quasi analogo è stato esaminato dalla Corte di
cassazione - sent. n. 1727/1995 - la quale ha individuato, in un versamento
a fronte dell’intero saldo passivo del conto bancario, che pur non eccedeva
il limite di fido concesso, la natura solutoria poiché il conto
era stato chiuso nel secondo giorno successivo all’operazione.
Altra manifestazione sospetta si ha quando “il
fido rincorre lo scoperto” secondo l’arguta definizione che si legge nella
sentenza della Suprema Corte n. 2744/1994: la banca si accorge dello stato
di insolvenza del cliente, ma non revoca il fido, anzi lo aumenta oltre
lo scoperto per etichettare le rimesse ricevute nell’anno anteriore al
fallimento, non come rientri da sconfinamenti dal fido (e quindi solutori),
ma come atti “con finalità di ricostituzione della provvista”.
PERSICO
In questa materia, secondo me, le problematiche
maggiori sorgono con riguardo al caso in cui la banca nel concedere il
“nuovo credito” proceda all’erogazione di un mutuo fondiario (recte finanziamento
fondiario arg. ex art. 38, 1° comma, T.U. D. Lgs. 1° settembre
1993, n. 385). Infatti, in questo caso l’art. 39, 4° comma T.U., dispone
che non sono soggette a revocatoria fallimentare le ipoteche iscritte dieci
giorni prima della dichiarazione di fallimento e che comunque non sono
soggetti a revocatoria i pagamenti effettuati dal debitore a fronte di
crediti fondiari. Per evitare che le banche possano usufruire, nel caso
in esame, della posizione privilegiata prima descritta, possiamo ricordare
alcune decisioni edite che possono così riassumersi: “Trascorso
il periodo di consolidamento di dieci giorni la revocatoria può
avvenire solo se: a) il negozio di mutuo fondiario garantito da ipoteca
è simulato; b) il negozio di mutuo fondiario è nullo perché
illecito (1343 cod. civ.), in frode alla legge (1344 cod. civ.) o perché
stipulato per motivo illecito (art. 1345 cod. civ.)”.
Tali dicta vanno però integrati dalle
ulteriori avvertenze:
a) si trovano edite alcune sentenze che negano
possa applicarsi la normativa riguardante la simulazione atteso che le
parti, banca e sovvenuto, vogliono il contratto di mutuo e vogliono l’iscrizione
della garanzia ipotecaria. Né può parlarsi di simulazione
relativa dal momento che il credito fondiario non può essere inquadrato
nella figura del mutuo di scopo e pertanto non incide sulla validità
del contratto di credito fondiario il fatto che esso sia destinato a scopi
diversi da quello del miglioramento fondiario;
b) perplessità sorgono anche con riguardo
alle altre accennate cause di nullità:
- la declaratoria di nullità ex artt.
1343 e 1344 cod. civ. del contratto di “mutuo” e della relativa iscrizione
ipotecaria non può essere dedotta dal fatto che esso viola l’art.
67 della L.F. perché tale norma non è imperativa. Essa infatti
non è posta a tutela di un interesse generale ma solo a tutela dell’interesse
dei creditori; è inoltre assistita da sanzione imperfetta (l’inefficacia
relativa e non la nullità); prevede infine l’eccezione di cui al
terzo comma, mentre le norme imperative non possono avere alcuna eccezione,
rivolgendosi a tutti i cittadini, nessuno escluso.
Non può infine dedursi la nullità
di tali contratti ex art. 1345 cod. civ. dal momento che il motivo illecito
(ammesso che vi sia e sia comune ad entrambe le parti ed emerga quindi
dall’insidioso terreno probatorio) in realtà non è mai il
solo a determinare le parti al perseguimento dell’attività illecita.
GHIA
A proposito del mutuo fondiario devo ricordare
che mentre il mutuo edilizio è considerato dalla dottrina e giurisprudenza
quale “mutuo di scopo”, finanziariamente orientato ad una precisa destinazione,
con sanzione di nullità in caso contrario, non può dirsi
altrettanto per il mutuo fondiario e per le assai ricorrenti anticipazioni
fondiarie, che non hanno vincoli di destinazione; pertanto, il relativo
utilizzo, al fine di estinguere esposizioni più costose a breve
e trasformarle in debiti a medio o lungo termine, in un contesto asettico,
dal punto di vista dell’art. 5 L.F., non rileva autonomamente, ai fini
della revocatoria fallimentare (Cass. 1.9.1995 n. 9219 - Sez. I, in B.B.T.C.
parte II - 1997, pag. 251).
Assai vicino alle questioni che stiamo trattando
è il tema del mezzo “normale” di pagamento, che per il Codice di
commercio doveva essere eseguito con “danaro o con effetti”; l’attuale
interpretazione normativa, arricchita di quanto la moderna prassi degli
scambi commerciali propone , ci consente di considerare “anormali” in genere,
i mandati a vendere ed all’incasso. La cessione del credito pro solvendo,
spesso considerata revocabile ex 2° comma, art. 67 L.F., meriterebbe
un excursus a parte; infatti, se la stessa cessione è inquadrabile
come mezzo attuativo di un contratto di factoring, in presenza dei relativi
presupposti oggettivi e soggettivi, specie dopo la legge n. 52/1991, non
potrebbe essere soggetta a revocatoria autonoma ed indipendente dalla revocatoria
del contratto di factoring. Infatti, contro il pagamento del corrispettivo,
il cedente perde la titolarità del credito oggetto della cessione
che è contestualmente trasferita al cessionario.
Un accenno, infine, alla compensazione è
d’obbligo. La revocatoria non è esercitabile: a) se la compensazione
è legale (art. 1243 cod. civ.); b) se rientra in uno dei casi di
cui all’art. 56 L.F. In entrambi i casi, infatti, non si vede per quale
motivo non debba essere lecito, prima del fallimento, ciò che è
lecito dopo il fallimento. Qualora, invece, la compensazione avvenga in
osservanza di un pactum de compensando, la giurisprudenza la ritiene revocabile,
in quanto “anormale”. Sarà però opportuno distinguere caso
per caso, soprattutto sotto il profilo soggettivo: infatti, qualora il
pactum de compensando avvenga tra banche (o con una banca), esso deve ritenersi
normale, e pertanto non revocabile ai sensi del 1° comma dell’art.
67 L.F. ma, eventualmente ai sensi del 2° comma.
DI
AMATO
Dopo gli arresti della S.C. in ordine alla revocabilità
delle rimesse su conto corrente bancario soltanto se hanno natura solutoria,
l’attenzione di dottrina e giurisprudenza si è spostata sulla individuazione
dei saldi di conto rilevanti ai fini di una eventuale revocatoria. Si parla,
al riguardo, di saldo per valuta, saldo contabile e saldo disponibile.
Come si deve regolare secondo voi un curatore?
APICE
La giurisprudenza più recente sul tema
della revocatoria delle rimesse in conto corrente (Cass. 2744/94, 9591/94,
12/96, 462/1998) afferma che, per valutare la natura solutoria della rimessa
- e quindi la sua revocabilità ex art. 67, 2° comma L.F. - in
relazione alla “copertura” del conto, bisogna far riferimento al solo saldo
disponibile (e cioè al saldo di effettiva esecuzione di incassi
ed erogazioni) e non invece al saldo contabile o a quello per valuta. La
strada imboccata mi sembra quella giusta. Infatti, i riferimenti al saldo
per valuta e al saldo contabile non possono essere appaganti, in quanto
il primo segna semplicemente la variazione quantitativa del conto nel rapporto
tra banca e correntista e il secondo corrisponde al saldo risultante dalla
mera registrazione cronologica delle singole operazioni: né l’uno
né l’altro può essere utilizzabile ai fini della revocatoria,
giacché nessuno dei due dati indica, di per sé, ciò
che è necessario accertare per valutare la fondatezza della revocatoria,
e cioè quale sia stata - nei singoli momenti coincidenti con le
rimesse - la soglia di disponibilità esistente: infatti il carattere
reintegrativo o solutorio di ogni rimessa (revocabile nel secondo caso,
non revocabile nel primo caso) dipenderà dall’esistenza o inesistenza
della disponibilità. Ora, poiché la modificazione effettiva
della disponibilità - che spinge il correntista a reintegrare la
provvista o ad azzerare lo scoperto - avviene in un momento di regola non
coincidente né con la valuta (che è un criterio di riposizionamento
delle partite di dare e avere in vista della maturazione degli interessi)
né con la mera registrazione cronologica delle operazioni, ecco
perché l’ultimo indirizzo della Corte di legittimità sembra
essere quello più soddisfacente. A questo punto, posto che va esclusa
sicuramente una disponibilità retroattiva (che sarebbe un nonsenso)
o una perdita di disponibilità retroattiva (calcolata dalla banca
nel saldo per valuta nel caso di emissione di assegni con data antecedente
rispetto all’incasso), il problema si riduce a stabilire quali operazioni
implicano una disponibilità immediata e quali una disponibilità
futura. Il discorso, sulla scorta delle citate sentenze della Cassazione,
si può così concludere:
nel caso di operazioni di addebito (emissione
di assegni, bonifici a favore di terzi, prelievi addebiti per competenze)
bisogna aver riguardo, per la perdita di disponibilità, al giorno
della contabilizzazione;
nel caso di operazioni di accredito bisogna
distinguere: a) operazioni che determinano un immediato incremento della
disponibilità, quali versamenti in contanti, assegni circolari emessi
dalla stessa banca, assegni bancari emessi da altro correntista della stessa
dipendenza della banca: in tali casi bisognerà tenere conto dell’incremento
a partire dallo stesso giorno dell’operazione; b) operazioni che determinano
un incremento futuro della disponibilità, quali versamenti di altri
titoli, diversi da quelli sopra indicati, che danno luogo a un effettivo
incremento della disponibilità solo al momento dell’incasso: in
tali casi, sia pure solo presuntivamente e fino a prova contraria offerta
dalla banca, si potrà tenere conto dell’incremento a partire dal
giorno risultante dal criterio applicato dalla banca per la valuta.
Per concludere, quando un curatore esamina un
estratto complessivo di un conto affidato del fallito, deve: a) fermare
l’attenzione sulle operazioni dell’anno anteriore alla dichiarazione di
fallimento; b) estrapolare le operazioni di accredito e posticiparne l’aumento
di disponibilità al giorno della valuta; c) valutare se negli intervalli
il conto risultava “scoperto”; d) controllare se in detti intervalli si
sono verificate operazioni attive e, in caso positivo, chiedere al giudice
delegato la nomina di un esperto in tecnica bancaria per l’esatta individuazione
degli importi da ritenere solutori.
MECHELLI
Sul piano pratico, comunque, permangono oggettive
difficoltà tecniche di calcolo, specie in funzione della quantità
delle operazioni intervenute. Ma si tratta di difficoltà superabili
facendo ricorso agli strumenti informatici, quali un “foglio elettronico”,
o nel caso di una rilevante quantità di operazioni e di conti, un
programma di data base. Facilmente intuibile è il ruolo decisivo
che l’informatica ha nella rigorosa determinazione del saldo disponibile
e del controllo dei risultati. Potrebbe anzi essere un’iniziativa dell’Associazione
dei Curatori presso il Tribunale di Roma, partendo appunto dal tema della
revocatoria bancaria, illustrare e divulgare le potenzialità dell’informatica
nella razionalizzazione e nell’accelerazione della prassi fallimentare
in generale.
DI
AMATO
Altra questione dibattuta, in materia di rimesse
su conto corrente, è quella se l’esistenza ed il limite di una apertura
di credito debbano risultare necessariamente dal relativo documento contrattuale
ovvero se, tenuto conto che si tratta di un contratto a forma libera, possano
risultare anche in altro modo e addirittura per facta concludentia, come
nel caso del rapporto che abbia avuto scoperti non occasionali e di valore
omogeneo nel tempo.
MECHELLI
Non credo possibile invocare in questa materia
volontà contrattuali manifestate per fatti concludenti. Al riguardo
mi pare chiaro l’insegnamento della Corte di cassazione. Mi riferisco alla
sentenza n. 4718/1995, secondo cui, cito testualmente, “... a) la modifica
del contratto di apertura di credito come quella di ogni altro contratto,
non può essere disposta unilateralmente da una delle parti, a meno
che ciò non sia stato espressamente convenuto dalle parti; ... d)
quando uno dei contraenti è una persona giuridica, ai fini della
conclusione del contratto non è sufficiente che l’organo competente
abbia stabilito di accettare la proposta e neppure che tale intento si
sia concretato in una formale delibera, ma è invece necessario che
la volontà negoziale, così formatasi all’interno dell’ente,
si manifesti all’esterno nei confronti dell’altro contraente (Cass. 21
febbraio 1987, n. 1894); e) pertanto, la delibera di concessione di fido
da parte di una banca e la stessa annotazione degli estremi dell’affidamento
nel libro dei fidi non sono idonee, per il loro carattere “interno”, a
costituire un rapporto negoziale (Cass. 5 dicembre 1992, n. 12947), né
presuppongono necessariamente la stipulazione, per fatti concludenti, di
un contratto di apertura di credito o di un suo patto modificativo, potendo,
specie in presenza di una situazione debitoria del correntista, essere
invece espressione di una iniziativa unilaterale della banca diretta ad
assicurare al conto una “copertura”, al fine di porre le “rimesse” al riparo
da eventuali iniziative revocatorie...”.
PERSICO
Per uscire indenne dalla revocatoria la banca
dovrà dimostrare l’esistenza di un contratto di concessione di credito,
l’ammontare delle somme messe a disposizione del correntista poi fallito
e, da ultimo, la natura ripristinatoria delle rimesse effettuate dal correntista.
Per quel che concerne i due profili, prova del
contratto di concessione del credito e ammontare dello stesso, sappiamo
che il libro dei fidi, le delibere interne della banca e, più in
generale, i libri contabili, vidimati nelle forme di legge e regolarmente
tenuti, che hanno pieno valore probatorio anche e soprattutto se le circostanze
che si vogliono inferire da questi documenti siano state contestate dalla
curatela. Tali circostanze potevano in passato essere dimostrate dalla
banca per mezzo di testimoni. Sennonché, il D. Lgs. 1 settembre
1993, n. 385, impone ora la forma vincolata della scrittura privata per
tutti i contratti bancari a pena di nullità ex art. 117, 1°
e 3° comma. Le conseguenze della nuova disciplina, com’è intuibile,
non sono di poco momento, ed incidono sugli aspetti esaminati. Infatti
ai sensi del 2° comma dell’art. 2725 cod. civ. la prova testimoniale
dell’esistenza del contratto potrà essere ammessa solo nel caso
di perdita incolpevole del documento. A conclusioni analoghe a quelle precedentemente
esaminate dovrà al contrario pervenirsi nel caso in cui il C.I.C.R.,
nell’esercizio del potere demandatogli dal 2° comma dell’art. 117 T.U.
legge bancaria, disponga che, per motivate ragioni tecniche, i contratti
di concessione di credito potranno essere stipulati senza l’osservanza
di forme particolari. Ma ove l’esercizio di tale potere fosse adottato
sistematicamente con riguardo ad ogni contratto, francamente si svilirebbe
il senso e la portata della riforma attuata nel 1993, volta anche a rendere
più trasparenti le operazioni bancarie.
DI
AMATO
La banca, alla costante ricerca di garanzie,
riceve sovente pagamenti da parte di terzi. Una ipotesi particolare, che
fa discutere, è rappresentata dalle rimesse di terzi. Secondo la
giurisprudenza della S.C. l’inclusione nel conto, anche se la rimessa proviene
da un terzo, determina una riduzione del debito nell’ambito dell’unitario
rapporto di conto corrente, così da escludere la possibilità
di una compensazione tra la somma riscossa ed il saldo negativo del conto.
Non vi sembra che la soluzione penalizzi gli istituti di credito assai
più di quanto avvenga nel caso di pagamenti di terzi attuati con
forme normali?
APICE
Il pagamento di un terzo, nell’ottica delle revocatorie
fallimentari, è un problema di vaste dimensioni e di controversa
soluzione. Un criterio condiviso da molta dottrina e molta giurisprudenza
è il seguente: non è soggetto a revocatoria il pagamento
effettuato al creditore del fallito da parte di un terzo, quando risulta
che il terzo ha pagato di tasca propria, senza depauperare in alcun modo
il patrimonio del fallito. Il problema si complica quando il terzo effettua
l’adempimento mediante un versamento sul conto intestato al debitore (poi
fallito), giacché da un punto di vista formale la rimessa del terzo
sul conto del fallito si risolve in un pagamento fatto dallo stesso fallito
- e perciò in linea di principio revocabile -, in quanto il versamento
in primo luogo incrementa il patrimonio del debitore e in secondo luogo
lo depaupera attraverso il meccanismo della compensazione insito nel contratto
di conto corrente. La giurisprudenza ha optato per questa impostazione
(Cass. 4 luglio 1985 n. 4022), osservando tra l’altro che qui il pagamento
del terzo - anche quando si tratta di un fideiussore - si trasforma in
“valori fruibili da parte del correntista”, di guisa che, nel momento in
cui la rimessa assume valenza solutoria nei confronti del credito della
banca, non è più un “pagamento di terzo”, ma decurta lo stesso
patrimonio del debitore (v. in particolare Trib. Napoli 29.5.1985, in Fallimento,
1986, 759). Questa giurisprudenza mi trova piuttosto dissenziente, perché
privilegia il dato formale del passaggio del pagamento sul conto del debitore,
laddove la finalità della revocatoria è certamente quella
di colpire di inefficacia gli atti realmente depauperatori.
GHIA
Sono d’accordo. Se il terzo non paga con danaro
del fallito, il pagamento non è revocabile; se il fideiussore ha
pagato e poi ha esercitato il diritto di rivalsa nei confronti del debitore,
poi fallito, non è revocabile il pagamento del terzo, ma il pagamento
del debitore al terzo effettuato in sede di rivalsa. In ogni caso, va verificato
che nella singola fattispecie la banca abbia effettivamente sottratto alla
disponibilità dei creditori una parte di attivo, utilizzando a tal
fine la propria “conoscenza funzionale”. Tali presupposti sovente restano
sovrastati dalle suggestioni di facili “moltiplicazioni dei pani e dei
pesci” che talune revocatorie, nell’immaginario concorsuale, evocano.
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