"Revoca del Curatore
fallimentare
e tutela delle sue posizioni
giuridiche soggettive"
di Franco Gaetano Scoca
Secondo una ricorrente
giurisprudenza, avverso la revoca del curatore fallimentare
non sarebbero ammessi né il reclamo alla Corte d’appello,
né il ricorso
per cassazione ed il provvedimento non sarebbe nemmeno revocabile
da parte dello stesso Tribunale.
Fontana del Mosè
La fontana terminale dell’acqua Felice in piazza
San Bernardo.
La giurisprudenza della Corte di Cassazione è costante nell’affermare
che i poteri conferiti al Tribunale dall’art. 37 della L.F. sono diretti
esclusivamente alla tutela dell’interesse pubblico e al regolare andamento
della procedura concorsuale, senza poter configurare alcuna posizione di
diritto soggettivo né in capo al fallito ed ai creditori, né
per il curatore. Il decreto di revoca emesso dal Tribunale ex art. 37 della
L.F., in altri termini, sarebbe privo di qualunque contenuto incidente
su posizioni di diritto soggettivo, configurando un provvedimento di natura
meramente ordinatoria e amministrativa, con la conseguenza che esso non
sarebbe soggetto a ricorso per cassazione [1].
Il curatore, in altri termini, non avrebbe alcun diritto soggettivo alla
nomina ed alla conservazione dell’ufficio, tanto che la revoca potrebbe
essere disposta anche per semplici motivi di opportunità [2].
Come si vede, la giurisprudenza è ferma al risalente indirizzo della
Cassazione secondo cui il curatore, “stante l’interesse spiccatamente pubblico
al miglior risultato della procedura fallimentare, non ha alcun diritto
alla conservazione dell’ufficio” (Cass., 6 ottobre 1958, n.3130, in Foro
it., 1959, I, 709).
Sempre secondo la Cassazione, dovendo il curatore “rispondere, nel
corso di tutto il processo, alla fiducia che gli è stata accordata,
è indispensabile che alla sua eventuale revoca possa pervenirsi
in maniera semplice e rapida in ogni momento in cui si dimostri, per qualsiasi
motivo, poco atto al suo compito, onde la facoltà discrezionale
dell’organo direttivo e correlativamente la insindacabilità del
provvedimento emesso al riguardo, avente carattere tipicamente interno
al processo di fallimento”.
Secondo tale giurisprudenza, pertanto, si dovrebbe escludere la natura
contenziosa del provvedimento medesimo, come tale non soggetto ai mezzi
di impugnazione previsti per le sentenze.
Quest’orientamento, in realtà, pur restando assolutamente prevalente,
inizia ad incrinarsi in recenti ed autorevoli pronunce. La Corte di Cassazione,
ad esempio, pur ribadendo il principio secondo cui il provvedimento ex
art. 37 della L.F. riveste natura ordinatoria ed amministrativa ed è
privo di ogni portata decisoria sui diritti soggettivi (con la conseguente
inapplicabilità dell’art. 111 Cost.), prospetta la possibilità
di reclamo in Corte d’appello (Cass., 4 luglio 1985, n. 4039, in Il fallimento,
1986, I, 160). In favore dell’ammissibilità del reclamo si è
espressa anche la Corte d’appello di Roma (30 giugno 1993, in Giur. merito,
1994, I, 14).
Si tratta di un orientamento che pare comune anche ad analoghe ipotesi
di revoca: come quella del liquidatore giudiziale [3].
E, più in generale, al sempre più frequente ricorso allo
strumento del reclamo: come nelle ipotesi di reclamo avverso la revoca
dell’autorizzazione al curatore a transigere [4].
La frammentarietà ed il carattere non univoco di tali pronunce
(si veda, ad esempio, Cass., sez. I, 19 giugno 1996, n. 5672), però,
sono tali da lasciare perduranti incertezze in materia. Incertezze che
sono amplificate dalla innegabile circostanza secondo cui la giurisprudenza
dominante non attribuisce rilievo alcuno alle situazioni soggettive ed
alle aspettative del curatore, preoccupandosi esclusivamente dell’interesse
pubblico che attraverso la procedura concorsuale si persegue. Anche il
decreto del Trib. di Roma, che ha offerto lo spunto per questa nota, (segue
a pagina 21) sembra seguire la scia. Ritiene infatti il Tribunale che “il
curatore può essere revocato dal tribunale fallimentare in ogni
tempo, giusta la disposizione dell’art. 37 L.F., la quale non pone limiti
al potere discrezionale del Tribunale, sicché deve escludersi che
il curatore abbia alcun diritto alla conservazione dell’ufficio” (Trib.
di Roma, Sez. fall., 4 dicembre 1996, decr.).
Di più, si è ritenuto addirittura che il curatore possa
essere revocato non solo qualora egli non adempia con diligenza i doveri
del suo ufficio, ma altresì ogniqualvolta il giudice discrezionalmente
ritenga che egli si trovi nell’impossibilità di svolgere le sue
funzioni con la continuità, la tempestività e la puntualità
che si rendono necessarie per il regolare svolgimento della procedura fallimentare.
Questa così netta affermazione della insussistenza in capo al
curatore fallimentare della facoltà di conservare il suo ufficio
e l’altrettanto recisa negazione di qualsiasi strumento di reclamo o di
tutela avverso il decreto di revoca dell’ufficio medesimo, non possono
non destare qualche perplessità in chi osservi tali pronunce più
che dall’angolo visuale della pratica e degli studi di diritto fallimentare,
da quello, più generale, della teoria delle situazioni giuridiche
soggettive. Ed è proprio in questa ultima prospettiva che, in queste
brevi note, si affronta il tema della revoca del decreto di nomina dei
curatori fallimentari e dei mezzi di tutela offerti a garanzia delle posizioni
giuridiche soggettive, incise da tali provvedimenti di revoca.
In quest’ottica, diventa determinante precisare quale sia la natura
del rapporto intercorrente tra il curatore e l’Amministrazione della giustizia.
Ed è già in questa fase che ci si avvede come più
che di rapporto, si debba parlare al plurale di rapporti. Secondo la ormai
consolidata teoria dell’organizzazione pubblica (il riferimento è
a Giannini, Diritto amministrativo, Milano, 1993, I, 262), tra un ente
ed un titolare di un ufficio corrono due rapporti distinti. Vi è
un rapporto di servizio, che è un rapporto di carattere patrimoniale,
attinente la remunerazione delle prestazioni professionali del titolare
dell’ufficio o, quando si tratta di funzionari onorari, la indennità.
Il rapporto di servizio corre, normalmente, tra il titolare dell’ufficio
e l’ente a cui appartiene l’ufficio. L’altro è il rapporto di ufficio,
che è un rapporto di carattere organizzatorio. È quel rapporto
che sta alla base delle imputazioni, nelle varie loro specie, e del riparto-attribuzione
delle potestà. In altri termini, il rapporto d’ufficio non attiene
al titolare dell’ufficio nella sua materialità, ma attiene ad una
qualità giuridica che la norma attribuisce al titolare dell’ufficio.
Ebbene, con riguardo all’ufficio di curatore fallimentare, quanto al
rapporto d’ufficio, il curatore fallimentare è uno degli organi
preposti al fallimento o, più esattamente, uno degli organi incaricati
del procedimento fallimentare. Il concetto di organo è legato all’esistenza
di un complesso di poteri e di funzioni determinati dalla legge, formanti
nel loro complesso un ufficio, di cui il soggetto (organo) è investito
(F. Ferrara, Curatore del fallimento, in Enc. dir., vol. XI, Milano, 1962,
511).
Sotto il profilo del rapporto di servizio, invece, il curatore non
fa parte dell’ordine giudiziario, ma è un libero professionista,
incaricato di volta in volta delle funzioni di curatore, con riferimento
ad un dato fallimento; esso rientra, pertanto, nella categoria degli incaricati
giudiziari ed è retribuito per tale titolo come ausiliare del giudice
(Calamandrei, Istituzioni di diritto processuale civile, Padova, 1944,
II, 169) o della giustizia (F. Ferrara, op. ult. cit., 512). Il rapporto
che si instaura tra il curatore e l’Amministrazione della giustizia, pertanto,
assume natura contrattuale (così anche Calamandrei, Istituzioni
del processo civile italiano, Roma, 1956, n. 194) ed anche chi ha negato
che nel conferimento dell’incarico al curatore possa ravvisarsi un contratto
(F. Ferrara, op. ult. cit., 514) ha poi riconosciuto che tale incarico
debba essere ricondotto al rapporto di mandato (che secondo la previsione
dell’art. 1703 cod. civ. è, appunto, un contratto).
Ove si voglia tener conto di raffigurazioni organizzative più
articolate e raffinate, si potrà affermare che l’ufficio di curatore
fallimentare è qualificabile come munus, ossia come ufficio in senso
soggettivo. Ma ciò non modificherebbe le premesse del discorso sulle
situazioni soggettive del curatore e sulla impugnabilità degli atti
di revoca.
Precisata così la diversa natura dei rapporti (di ufficio e
di servizio) che intercorrono tra il curatore fallimentare e l’Amministrazione
della giustizia, diventa ben più agevole comprendere la natura delle
situazioni giuridiche soggettive di cui è titolare il curatore e
il tipo degli strumenti di tutela offerti (e costituzionalmente garantiti)
dal nostro ordinamento.
Infatti, quanto al rapporto di servizio e a tutti gli aspetti connessi
al rapporto contrattuale intercorrente tra il curatore e l’Amministrazione
della giustizia, è innegabile che le posizioni giuridiche soggettive
vantate dal curatore siano qualificabili come veri e propri diritti soggettivi
e che per la loro tutela l’ordinamento riservi gli ordinari rimedi processuali
attivabili davanti all’Autorità giurisdizionale ordinaria.
Pertanto, anche con riferimento agli effetti della revoca del decreto
di nomina che incidono sul rapporto di servizio, non vi è dubbio
che l’unica sede di tutela giurisdizionale competente è quella del
giudice civile in sede di ordinario giudizio di cognizione.
Più complesso appare, invece, il discorso quanto agli effetti
della revoca che incidono direttamente sul rapporto di ufficio. Il rischio
che si corre, infatti, è quello di confondere i poteri di natura
amministrativa (ed organizzativa), riconosciuti al giudice fallimentare,
con quelli propri della sua funzione giurisdizionale. Ed è proprio
questa confusione che pare sussistere nella giurisprudenza fallimentare
che ha dato lo spunto a questo breve scritto.
Sia nelle pronunce della Cassazione, sia in quelle dei giudici di merito,
si legge che il decreto di revoca del curatore avrebbe natura di provvedimento
“meramente amministrativo”; ed anche parte della dottrina vede in tale
provvedimento (come in quello speculare di nomina) la manifestazione del
potere di organizzazione e di imperium proprio dell’Ammi-nistrazione della
giustizia. In realtà, se si seguisse fino in fondo tale orientamento,
si dovrebbe giungere a riconoscere che la situazione giuridica soggettiva
del curatore rispetto a tali atti sarebbe quella tipica dell’interesse
legittimo. È generale, infatti, il convincimento sulla reciproca
esclusione tra potere amministrativo e diritto soggettivo e seppure questa
conclusione non viene più intesa nel senso originario, l’interesse
del privato (ed in questo caso del curatore fallimentare) non trova mai
protezione come diritto soggettivo nei confronti del potere amministrativo;
o, il che è lo stesso, quest’ultimo non trova nel diritto soggettivo
alcun limite. Il potere amministrativo ha infatti come caratteristica essenziale
quella di essere situazione giuridica unilaterale e di coinvolgere nel
suo esercizio non solo gli interessi del suo titolare, ma anche interessi
di altri soggetti.
Non è questa la sede per dilungarsi sulla natura e sulle caratteristiche
della posizione giuridica soggettiva dell’interesse legittimo (su cui sia
consentito il rinvio alla voce Interessi protetti. Dir. amm., da me curata
per l’Enc. giur. Treccani, vol. XVII, Roma, 1989); qui è utile solo
ricordare che l’interesse legittimo rappresenta il solo modo possibile
in cui gli interessi del privato sono protetti a fronte del potere amministrativo.
Una protezione che, prevista espressamente dalla nostra Carta costituzionale,
è affidata alla giurisdizione del giudice amministrativo.
Ebbene, affermare che la nomina e la revoca di un curatore fallimentare
siano un atto “meramente amministrativo”, espressione di un potere di or-ganizzazione,
piuttosto che della funzione giurisdizionale, dovrebbe portare come inevitabile
conseguenza che la tutela delle situazioni soggettive dei curatori pregiudicate
da un eventuale decreto di re-voca, dovrebbe trovare tutela davanti ai
Tribunali amministrativi regionali e, in secondo grado, al Consiglio di
Stato.
A mio avviso, però, una soluzione di questo genere non pare
affatto soddisfacente, sia per ragioni di ordine teorico, sia per meno
elevate (ma sempre rilevanti) ragioni di opportunità pratica. Quanto
a queste ultime, sono di tutta evidenza i rischi che deriverebbero dalla
sottoposizione di tali atti interni alla procedura fallimentare al sindacato
di un giudice estraneo al procedimento fallimentare (e addirittura appartenente
ad altro ordine giudiziario). Del resto, già da tempo la dottrina
aveva avuto occasione di porre in luce che la natura discrezionale del
provvedimento di revoca del curatore appare inconciliabile con un controllo
extrafallimentare (così, ad esempio, Caselli, Organi del fallimento,
in Commentario, a cura di Scialoja e Branca, Bologna-Roma, 1977, 213).
Ed anche la giurisprudenza di Cassazione, sia pure non recente, aveva aderito
a questa tesi (cfr. Cass., 6 ottobre 1958, n. 3130, cit. e, nello stesso
senso, App. Milano, 22 maggio 1957, in Giur. it., 1958, I, 2, 290).
Di maggior peso sono poi le ragioni di ordine teorico che portano ad
escludere la configurabilità di una ricostruzione di questo genere.
Esse vanno ricondotte alla radice della distinzione tra funzione amministrativa
e funzione giurisdizionale e, conseguentemente, tra i due diversi tipi
di attività.
Come è noto, infatti, l’attività giurisdizionale può
essere definita sia sotto il profilo della funzione, sia sotto quello della
struttura. Sotto il primo profilo essa viene definita come l’attività
posta in essere per garantire la tutela dei diritti; sotto il profilo strutturale,
come l’attività posta in essere dagli organi giurisdizionali dello
Stato (fra i tanti, Mandrioli, Corso di diritto processuale civile, vol.
l, Torino, 1989, 9 e segg.). Ben diversa la definizione di attività
amministrativa che, pur essendo una nozione “polisenso”, indica una categoria
dell’agire di un operatore giuridico, che si qualifica per il solo fatto
di avere per contenuto l’amministrare; essa, pertanto, è caratterizzata,
sotto il profilo strutturale, dall’essere essa emanazione dell’apparato
amministrativo- burocratico dello Stato e, sotto il profilo funzionale,
dal tendere alla esecuzione della legge per il perseguimento degli interessi
pubblici (per tutti si rinvia a Giannini, Attività amministrativa,
in Enc. dir., vol. III, Milano, 1958, 988 e segg.).
Ebbene, nonostante le molteplici difficoltà che si incontrano
nell’opera di individuazione degli atti processuali (sul punto Oriani,
Atti processuali. Dir. proc. civ., in Enc. giur. Treccani, Roma, 1988,
I), non pare si possano nutrire dubbi sulla circostanza che gli atti posti
in essere dal giudice fallimentare nel corso della procedura concorsuale
siano riconducibili all’ampio genere degli atti giurisdizionali (piuttosto
che di quelli amministrativi). Del resto, l’interesse “di rilievo pubblicistico”
alla par condicio dei creditori che deve essere assicurato nel corso dello
svolgimento della procedura concorsuale, non può essere confuso
con l’interesse pubblico al cui perseguimento è preposta la P.A..
La procedura concorsuale, infatti, persegue il migliore soddisfacimento
dei diritti e degli interessi dei creditori e non un generico (o specifico)
interesse pubblico proprio della collettività degli amministrati.
Di questo, del resto, è ben consapevole la stessa giurisprudenza
di Cassazione, che riconosce appunto come gli atti di nomina e di revoca
del curatore si pongano nell’esclusivo interesse della procedura concorsuale
medesima per il migliore soddisfacimento dei diritti dei creditori. Se
così è, allora, non si può negare che tale attività
debba necessariamente essere ricondotta al genus dell’attività giurisdizionale
e, conseguentemente, soggetta ai mezzi di impugnazione previsti per le
comuni decisioni giurisdizionali.
Del resto, se si riconosce natura giurisdizionale perfino al decreto
di liquidazione del compenso agli ausiliari dell’ufficio fallimentare (così
Cass., sez. I, 20 novembre 1993, n. 11480, in Il fallimento, 1994, 379),
non si vede quale possa essere la ragione di attribuire natura non giurisdizionale
alla nomina o alla revoca del curatore fallimentare; atto che, come è
evidente, incide in modo assai più determinante sul funzionamento
e sugli esiti complessivi della procedura fallimentare.
Il riconoscimento della natura giurisdizionale dell’atto di revoca
del curatore comporta direttamente e necessariamente la irrilevanza della
natura delle situazioni giuridiche soggettive, dato che non sussiste alcun
problema di individuazione della giurisdizione: gli atti giurisdizionali
possono essere impugnati soltanto seguendo le regole delle impugnazioni
processuali.
D’altronde, anche se in ipotesi assurda così non fosse, sarebbe
comunque da escludere la utilizzazione della categoria dell’interesse legittimo,
dato che questa è positivamente utilizzabile soltanto a fronte di
atti propriamente amministrativi, ossia atti formalmente e sostanzialmente
amministrativi. Di fronte a poteri privati e a poteri giurisdizionali,
l’interesse legittimo acquista le sembianze del diritto (soggettivo) alla
legittimità del comportamento di esercizio del potere.
Ciò che lascia perplessi nell’attuale orientamento giurisprudenziale
è che la qualificazione della revoca come un atto meramente amministrativo,
sia ritenuta sufficiente ad escludere qualsiasi tutela giurisdizionale.
Questo è infatti in palese contrasto con l’art. 24 Cost.; e, ove
si trattasse effettivamente di atto amministrativo, sarebbe in contrasto
anche con il successivo art. 113.
Sempre dal
Libro di Domenico Fontana del 1590,
una incisione raffigurante un bozzetto ancora lontano
dal progetto definitivo della fontana di Papa Sisto V°.
Tribunale di Roma - Sez. fallimentare - decr.
4 dicembre 1996 - Pres. Grimaldi - Est. Norelli.
CURATORE - INSUSSISTENZA del DIRITTO ALLA CARICA
- REVOCA - DISCREZIONALITÀ (art. 37 L.F.)
CURATORE - REVOCA - “OSPITALITÀ PROFESSIONALE“
DI AMMINISTRATORE DI SOCIETÀ FALLITA - INOPPORTUNITÀ
PERMANENZA NELLA CARICA - MOTIVO DI REVOCA (art. 37 L.F.)
Il curatore fallimentare può essere
sempre revocato, non sussistendo alcun diritto soggettivo alla nomina e,
per converso, un diritto al mantenimento della carica, cosicché
tale facoltà discrezionale può essere esercitata dal tribunale
sia qualora il curatore si trovi nell’impossibilità, anche indipendente
dalla sua volontà, di svolgere regolarmente le sue funzioni, sia
nel caso in cui si venga a trovare in una situazione tale da rendere inopportuna
la sua permanenza nell’incarico, come nel caso in cui siano state avviate
indagini penali e sia stata applicata nei suoi confronti una misura interdittiva.
Costituisce motivo di revoca del curatore
l’aver stabilito con l’amministratore della società fallita un rapporto
di collaborazione professionale ed averlo ammesso ad esercitare attività
di commercialista all’interno del proprio studio.
Il Tribunale fallimentare... ha deliberato d’ufficio il seguente DECRETO:
rilevato che il giudice per le indagini preliminari presso questo Tribunale,
con ordinanza in data 14 ottobre 1996, ai sensi degli artt. 289, 291, 292
e 308 cod. proc. pen., ha applicato nei confronti del dott. XX la misura
cautelare interdittiva della sospensione dall’ufficio di curatore fallimentare,
interdicendogli le attività ad esso inerenti per la durata di mesi
due, avendo ritenuto sussistenti a carico del predetto professionista gravi
indizi di colpevolezza in ordine al reato previsto e punito dall’art. 228
R.D. 16 marzo 1942, n. 267 “per avere, in qualità di curatore del
fallimento della ZZ S.p.A., dichiarato con sentenza del Trib. Roma del
00.00.00, preso un interesse privato nell’espletamento del suo ufficio,
consentendo all’amministratore unico della fallita società ZZ di
svolgere l’attività di commercialista presso il suo studio professionale
e comunque stabilendo con il medesimo un rapporto di collaborazione professionale”;
considerato che il curatore può essere revocato dal Tribunale fallimentare
“in ogni tempo”, giusta la disposizione dell’art 37 L.F., la quale non
pone limiti al potere discrezionale del Tribunale, sicché deve escludersi
che il curatore abbia alcun diritto alla conservazione dell’ufficio (cfr.
Cass. 6 ottobre 1958, n. 3130, Dir. fall., 1958, II, 834; Cass. 22.10.1975,
n. 3488; App. Milano 30 aprile 1958, Dir. fall., 1958, II, 810);
che, pertanto, il curatore può essere revocato non solo qualora
egli non adempia con diligenza ai doveri del suo ufficio, ma altresì
ogniqualvolta si trovi nell’impossibilità, anche per cause indipendenti
dalla sua volontà, di svolgere le sue funzioni con la continuità,
la tempestività e la puntualità che si rendono necessarie
per il regolare svolgimento della procedura fallimentare (salvo che si
tratti di impedimento occasionale di breve durata), ovvero si venga a trovare,
per qualsivoglia ragione, anche di carattere meramente obiettivo, in una
situazione tale da rendere inopportuna, per il buon andamento della procedura,
la sua permanenza nella carica (Trib. Roma, 7 luglio 1994, Fallimento,
1995, 99; Trib. Roma, 20 aprile 1995, Fallimento, 1995, 974); che, nel
caso di specie, il dott. XX, benché quale curatore del fallimento
della ZZ non abbia - a quanto risulta - mancato ai doveri del suo ufficio,
tuttavia, per il solo fatto che nei suoi riguardi sono state avviate indagini
penali ed è stata applicata una misura cautelare interdittiva con
riferimento a comportamenti tenuti proprio nella qualità di curatore
di questa procedura fallimentare, appare, obiettivamente, privo della necessaria
affidabilità, che il curatore deve possedere, nei confronti degli
organi della procedura, dei soggetti interessati e dei terzi, perché
egli possa continuare a svolgere le sue funzioni e ciò a prescindere
da qualsiasi valutazione (che non compete al tribunale fallimentare) circa
la fondatezza o meno dell’accusa e la gravità degli indizi di colpevolezza;
considerato, peraltro, che non è preclusa al tribunale fallimentare
una autonoma valutazione del comportamento del curatore, indipendentemente
dalla rilevanza penale di esso, ai soli fini dell’esercizio del potere
discrezionale di cui all’art. 37 L.F.; (omissis)
ritenuto, di conseguenza, che è opportuno, per assicurare il
buon andamento della procedura, che il predetto curatore sia rimosso dall’ufficio
e sostituito con altro professionista avente i requisiti di legge; (omissis)
Note
[1] (Cass., 2 giugno 1989, n. 2681, in Il fallimento;
1989, 1093; id. 4 luglio 1985, n. 4039, in Il fallimento, 1986, 160; id.,
5 agosto 1977, n. 3539, in Dir. fall., 1978, II, 29; id., 22 ottobre 1975,
n. 3488, in Rep. Giust. civ., 1975, voce “Falli-mento”, n. 191 e,
da ultimo,Cass., Sez. I, 23 marzo 1994, n. 2789, in Il fallimento, 1994,
1012).
[2] (così fra le altre App. Roma, 30 giugno
1993, in Dir. fall., 1993, II, 952, con nota di D. Di Gravio e, in dottrina,
Azzolina, Il fallimento, Torino, 1961, 407; Provinciali - Ragusa Maggiore,
Istituzioni di diritto fallimentare, Padova, 1988, 205).
[3] (cfr. Cass., sez. I, 12 luglio 1990, n. 7212,
in Il fallimento, 1991,
I, 133; id., 10 dicembre 1984, n. 6481, ivi, 1985, I, 632 ed in Foro
it., 1985, I, 1, 2696).
[4] (App. Roma, 16 aprile 1992, decr., in Giust. civ.,
1992, II, 2551, con nota critica di Lo Cascio, Sul sistema di difesa endofallimentare
e sul reclamo alla Corte d’Appello avverso i decreti del Tribunale;
provedimento quest’ultimo poi riformato da Cass., sez. I, 19 giugno 1996,
n. 5672, in Il fallimento, 1996, 1216).
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