"Un'opera di dubbia paternità"
di Annamaria Calò
Pablo Picasso (1881-1993),
Ritratto di Maia con la bambola,
(cm 73 x 60),
Proprietà Picasso
Il trattato De’ delitti e delle pene, il capolavoro
della nostra letteratura illuminista, pubblicato nel 1764, ebbe una vasta
eco nella cultura europea e il suo messaggio, diventato patrimonio dell’intera
umanità, contribuì fin dal Settecento al miglioramento dei
sistemi giudiziari.
Frutto delle discussioni che fervevano nel gruppo
che si raccoglieva nell’Accademia dei Pugni animata da Pietro Verri, l’opuscolo
è il risultato di una elaborazione comune e fu firmato da Cesare
Beccaria, nonno di Alessandro Manzoni. Oggi però molti studiosi
ritengono che il lavoro sia in realtà opera dello stesso Pietro
Verri, l’ideatore della rivista “Il caffè”, il periodico più
prestigioso della cultura illuminista italiana, che vede l’inizio delle
pubblicazioni proprio in quel 1764. Il Verri, già inviso al governo
asburgico per il tono provocatorio delle sue polemiche, potrebbe aver ritenuto
che accumulare sulla sua persona tanti capi d’accusa sarebbe stato oltremodo
pericoloso; d’altra parte, la chiarezza dell’esposizione, lo slancio di
rinnovamento, il tono vivace e combattivo dell’opuscolo rimandano
immediatamente allo stile degli scritti del Verri, mentre si discostano
senz’altro dalle opere del Beccaria, meticoloso, ma a volte pedante studioso
di problemi economici. A quest’ultimo va nondimeno il merito di aver difeso
il lavoro, pur rifiutando l’invito a Pietroburgo di Caterina II di Russia,
ammiratrice dell’opera, per accettare invece la cattedra di Economia politica
offertagli dal governo asburgico nel 1769.
Il trattato procurò al Beccaria fama e
consenso internazionali, ma anche violentissime critiche. In esso si stigmatizzavano
i disumani e arbitrari ordinamenti giudiziari e per la prima volta si metteva
in discussione la legittimità della tortura e della pena di morte,
impostando in modo del tutto nuovo il problema della punizione del colpevole,
assegnando alle pene una finalità non più punitiva, ma rieducativa
e di recupero. Il delitto è infatti concepito come un’offesa alla
società, una rottura del rapporto sociale come contratto e la pena
deve quindi essere concepita come tentativo di ricomporre questa violazione:
la pena capitale è condannata come una meschina vendetta, “una guerra
della nazione con un cittadino”, né utile, né necessaria
in quanto è solo il “mezzo sicuro di assolvere i robusti scellerati
e di condannare i deboli innocenti”, poiché troppo spesso atti disperati
e criminosi sono attivati dalla disuguaglianza e dai privilegi sanciti
da quella stessa legge che ora li tortura e li condanna.
In tutto il trattato si percepisce un profondo
senso umanitario, il rispetto e l’amore per i propri simili, la partecipazione
alle sofferenze altrui, l’orrore per la violenza e la sopraffazione, il
richiamo assiduo alla dignità umana.
Si resta colpiti dalla intuizione, del tutto
moderna, che non è la pena di morte a distogliere i malvagi dalle
azioni criminose e che un inasprimento delle pene non porta ad una diminuzione
dei delitti. È stato in tempi recenti dimostrato dalle statistiche
promosse da Amnesty International che là dove è tuttora in
vigore la pena capitale, non solo non si registra una diminuzione dei crimini,
ma anzi si riscontra una spirale di violenza, con l’aumento di essi proprio
nei primi mesi successivi alle esecuzioni.
La grande novità del trattato sta soprattutto
nel rifiuto del concetto religioso di delitto come peccato da espiare con
la sofferenza o addirittura con la morte e nel considerare l’azione criminosa
un episodio non insito nella natura umana.
Si ha qui l’intuizione, immediata dalla lettura
delle opere di Rousseau, di una natura umana sana e non originariamente
perversa, come vuole appunto l’ideologia religiosa. È grazie a tale
considerazione che viene proposto un concetto di pena come rieducazione
e si pongono le basi per il moderno diritto penale, il cui scopo non è
vendicarsi contro i colpevoli, ma prevenire i delitti. |