QUESTI
FANTASMI
(la
provenienza dei beni immobili offerti nelle aste giudiziarie)
Si dice che
molti castelli e manieri della Gran Bretagna siano abitati dai fantasmi di quei
nobili che vi abitarono e che vi vissero tragiche vicende. Partendo da questa
diceria, un curioso lettore ha chiesto se si sia mai
avuta notizia circa la presenza di fantasmi nelle case acquistate alle aste
giudiziarie italiane, posto che proprio le modalità di passaggio della
proprietà manifestano che i precedenti abitanti vissero, tra quelle stesse
mura, esperienze drammatiche.
Purtroppo
di simili notizie non si sa nulla, negandosi così, con visite turistiche
appositamente organizzate, un’ulteriore occasione di
sfruttamento degli immobili acquistati all’asta, in aggiunta ai tradizionali
impieghi dell’uso diretto da parte dell’acquirente o della rivendita
speculativa sul libero mercato.
Probabilmente
l’assenza di notizie di fantasmi negli immobili subastati dipende da una serie
di fattori, primo tra tutti la mancanza, a volte, di
una storia drammatica a monte dell’asta giudiziaria.
E’ vero
che, generalmente, un immobile giunge alla vendita forzata a causa del mancato
adempimento di un’obbligazione da parte del proprietario-debitore, ma occorre
verificare di quale obbligazione di tratti, per quale importo e da quale
rapporto tragga origine.
Si pensi,
ad esempio, a di quei mutui bancari contratti intorno
al 1991, quando il prezzo degli immobili saliva di giorno in giorno, ed
all’evoluzione del mercato che, pochi mesi dopo, nel 1992, vide crollare i
valori del settore immobiliare. Chi aveva contratto il mutuo nella situazione
del 1991, aveva realizzato, in concreto, una liquidità assai superiore al
prezzo di vendita di fine 1992, cosicché aveva praticamente
venduto l’immobile alla banca con, in più, il “diritto” di continuare ad
abitarlo durante tutto il tempo in cui si sarebbe svolta l’esecuzione. Non
solo, ma partecipando all’asta, sia pure per interposta persona, quello stesso
debitore avrebbe potuto ricomprare il medesimo immobile con un duplice fattore
di ribasso: da una parte, il tipico meccanismo depressivo dell’asta;
dall’altra, il basso valore di mercato degli immobili che solo di recente ha ripreso a salire. Del resto gli elevatissimi
tassi di interesse dei mutui anteriori al 1992 e la
previsione di una loro riduzione solo attraverso il penalizzante meccanismo
dell’estinzione anticipata, costituivano una vera e propria istigazione a
subire il pignoramento ed un intervento legislativo per rinegoziare i tassi di
interesse dei mutui eccessivamente onerosi si è avuto solo di recente.
L’esempio
che precede, per nulla raro, dimostra che, a volte, lo speculatore non è solo colui che si presenta alle aste quale aspirante acquirente,
ma anche quei debitori che, per formazione caratteriale e spirito di avventura,
sono capaci di cavalcare le tensioni e le emozioni forti che solo una vita
spericolata può assicurare.
Si potrebbe
pensare che a questo quadro si sottraggano le aste che avvengono nelle
procedure concorsuali, perché il fallimento non è mai
un’esperienza gestibile da parte del debitore, così come può esserlo
l’esecuzione individuale, ma non è proprio così.
A volte gli
imprenditori riescono ad ottenere dalle banche assai più del patrimonio, anche
immobiliare, che offrono loro in garanzia cosicché, qualora quei prestiti non
finissero tutti nell’impresa, ma, almeno in quota, venissero
diligentemente accantonati, alla fine si goderebbe di una liquidità assai
superiore al valore del patrimonio acquisibile dal curatore fallimentare: un
altro caso, quindi, di sostanziale vendita del patrimonio al settore bancario
al quale si lascia l’onere di recuperare il proprio credito tramite le aste
giudiziarie.
Un'altra
ipotesi in cui un immobile va all’asta giudiziaria in assenza di un’esperienza
drammatica a monte, è quello delle divisioni dei beni
in comunione, vuoi perché di provenienza ereditaria, vuoi perché così in
origine acquistati.
E’ il
codice di procedura civile che, agli artt. 784 e seguenti, si occupa delle modalità di scioglimento delle comunioni ed in particolare,
all’art. 788, prevede che, quando occorre procedere alla vendita dell’immobile,
si seguono le regole delle espropriazioni immobiliari. A questo tipo di vendita
si deve ricorrere, ad esempio, quando un bene immobile non sia agevolmente divisibile
ovvero, dividendolo, se ne altererebbe la
funzionalità. In questi casi si procede alla vendita nella
prospettiva di eseguire la divisione sul ricavato, essendo il denaro
ripartibile “per definizione” tra i partecipanti alla comunione e, comunque, lo
è assai più semplicemente di un immobile.
Anche in
questo caso, non vi è a monte dell’asta un dramma, ma,
piuttosto, la consolazione di coloro che, riuscendo a sciogliersi dalla
comunione, recupereranno la libera disponibilità dei loro beni.
E che dire
quando lo scioglimento della comunione avviene a seguito di divorzio, con
riferimento ai beni della comunione coniugale ! Qui,
addirittura, c’è chi festeggia l’asta giudiziaria immobiliare come la
liberazione definitiva dal vincolo stretto il giorno del fatidico “si”, posto
che, anche a matrimonio sciolto, la necessità di amministrare il bene comune
comporta ripetuti contatti tra gli ex coniugi.
Bisogna
tuttavia riconoscere, scherzi a parte, che i casi sopra citati costituiscono
un’esigua minoranza rispetto alle aste immobiliari giudiziarie alle quali, in
effetti, giungono più spesso immobili che appartengono a persone che avrebbero
voluto con tutte le loro forze evitare di perderli.
Anche in
questi casi, però, i tempi lunghissimi delle espropriazioni sono tali da
attenuare di molto la drammaticità di questa esperienza
in capo al debitore. Questi, peraltro, oltre alla durata fisiologica
elevatissima, ha a disposizione diverse altre opportunità per allungarla. Anche
a voler prescindere dal sistema delle opposizioni, rispettivamente,
all’esecuzione (art. 615 c.p.c.) ed agli atti esecutivi (art. 617 c.p.c.), che
non sempre riescono nell’intento di ottenere la sospensione
dell’espropriazione, esiste un metodo di allungamento
anche moralmente apprezzabile: la conversione, o, almeno, il tentativo di
conversione del pignoramento ai sensi dell’art. 495 c.p.c..
Si tratta
della possibilità che la legge offre al debitore di sostituire, gradualmente,
il bene pignorato con denaro cosicché l’importo dovuto per il capitale, gli
interessi e le spese viene, dapprima, determinato
esattamente dal giudice dell’esecuzione e, successivamente, rateizzato.
I tempi
delle operazioni connesse alla conversione del pignoramento sono solo dalla legge indicati con avverbi e locuzioni che evocano
speditezza (“senza indugio” recita ad un certo punto l’art. 495 c.p.c.), ma
ognuno che abbia un minimo di esperienza del mondo giudiziario capisce che la
scansione operativa stabilita dal codice di rito sembra più un suggerimento che
una vera e propria tabella di marcia.
La
descrizione del procedimento, rende un’idea dei tempi necessari a completarlo.
Il debitore
deve presentare in cancelleria l’istanza per la
conversione del pignoramento depositando, a pena di inammissibilità, un quinto
dell’importo del credito per il quale si procede esecutivamente. Il giudice
fissa allora un’udienza per la comparizione delle parti onde
raccogliere ogni elemento utile alla definitiva determinazione del credito e,
cioè, la nota delle spese del processo esecutivo sostenute dal creditore, le
ricevute degli acconti eventualmente versati, l’indicazione, all’attualità, del
tasso di interesse convenzionale che assiste l’obbligazione principale. Poi, se
sulla raccolta di questi elementi non sorge contestazione, lo stesso giudice
trattiene il fascicolo presso di sé per emettere, successivamente,
l’ordinanza con la quale determinerà la somma complessivamente dovuta dal
debitore accordando, se ricorrono giustificati motivi (ma nelle esecuzioni
immobiliari ricorrono, intuitivamente, quasi sempre), la rateazione
dell’importo entro un massimo di nove mesi. Se, al termine di tale periodo,
l’obbligazione risulterà interamente estinta,
l’immobile verrà liberato dal pignoramento perché ormai sostituito dal denaro
versato; qualora, invece, il saldo non risultasse avvenuto, l’espropriazione
riprenderà il suo corso e le somme eventualmente già versate (certamente almeno
il quinto del credito per il quale l’esecuzione è iniziata) resterà a sua volta
pignorato.
Come tutti i procedimenti, anche il subprocedimento di conversione può essere, a sua volta, allungato: basta, ad esempio, che sulla ricevuta di un acconto sorga contestazione, per aprire un subsubprocedimento onde accertarne la computabilità o meno; basta che la notificazione di un avviso di cancelleria non arrivi a destinazione, per determinare la necessità di fissare una nuova udienza. Insomma, qualsiasi intoppo determina l’allungamento dei tempi del subprocedimento della conversione che, nella migliore delle ipotesi, non può durare meno di un anno.
Si può
quindi concludere, per rispondere al curioso lettore
che ha stimolato queste note, che non si può escludere che gli immobili
subastati siano abitati da fantasmi, ma se questi sono, come credenza vuole,
l’anima di coloro che hanno vissuto esperienze tragiche in relazione
all’immobile venduto, si tratterà quasi certamente del fantasma del creditore
piuttosto che di quello del debitore.