LEGGE & LETTERATURA – NUMERO UNICO 2000 – PAG. 139
di Eduardo De Filippo (Napoli, 24 maggio 1900 – Roma, Clinica Villa Stuart, 31 ottobre 1984)
Sanità” ne ha fatto l’argomento centrale.
Antonio Barracano, detto “Il Sindaco”, è un personaggio molto influente nel quartiere Sanità, è un anziano padrino
che incarna l’istituzione della giustizia dei poveri che a lui si rivolgono per ottenerla evitando i tribunali.
In giovane età, Antonio Barracano, quando faceva il capraio, è stato vittima, da parte di Gioacchino, di una grave
ingiustizia che ha lavato con il sangue, evitando però la condanna giudiziaria con metodi persuasivi. Espatriato in
America, è tornato dopo decine d’anni a Napoli, si è sposato con Armida, da cui ha avuto tre figli, ed ha investito i
suoi risparmi in terreni dell’area vesuviana, presso Terlizzi, sui quali ha poi edificato. In virtù dei suoi trascorsi, ha
deciso di difendere gli uomini dalle leggi interpretate in malafede, attraverso cui si può approfittare dell’ignoranza
della gente per continuare a sfruttarla.
Alla figura di Antonio Barracano si contrappone, nella commedia, quella del Dr. Fabio Della Ragione, un medico
che da trent’anni vive al suo fianco curando i feriti che giungono alla casa del Padrino raccontando le loro versioni
delle aggressioni di cui sono vittime. Il Dr. Della Ragione ormai non vede l’ora di fuggire da quell’ambiente creato
da Antonio Barracano e che egli non condivide più, convinto che crei una classe di uomini abietta e che costituisce
la vera piaga della società.
Si rivolgerà ad Antonio Barracano Raffaele, giovane senza arte né parte da quando ha litigato con il padre Arturo, e
che proprio per questo è disperato, non potendosi sposare con l’amata. Dal tentativo di riappacificare padre e figlio,
nascerà una lite nel corso della quale Antonio Barracano rimarrà ferito mortalmente. Per evitare la vendetta dei
figli, il boss costringerà il Dr. Della Ragione a stilare un certificato di morte per malattia di cuore ed il medico, dopo
un primo rifiuto, accetterà per raccogliere l’eredità di Antonio senza più infingimenti, al fine di operare in nome
della giustizia alla luce della verità ed affinché ciascuno si assuma le proprie responsabilità.
La commedia venne scritta nel 1960 e fu rappresentata lo stesso anno al Teatro Quirino di Roma dalla Compagnia
di Eduardo De Filippo. Traeva spunto da un personaggio vero che si chiamava Campoluongo. Questi era un pezzo
d’uomo bruno a cui si rivolgevano gli abitanti del quartiere Sanità per chiedere pareri su come comporre le
vertenze.
Una volta Campoluongo ebbe una lite con Martino ‘u Capraro che gli diede un formidabile morso sul naso.
Campoluongo era anche molto amico di Totò, al quale aveva dimostrato fin da giovane le sue capacità d’intervento
reagendo a dei giovinastri che lo avevano aggredito per strada per una questione di donne.
L’amicizia di Campoluongo per Totò permise a quest’ultimo di girare indisturbato i suoi film a Napoli ed era tanto
grande che il camorrista, terminati i funerali dell’attore a Roma, ne fece una seconda edizione nel Rione Sanità, con
una bara vuota portata dai suoi gorilla in una cerimonia molto toccante, alla quale parteciparono, pur perplessi,
anche Nino Taranto e Liliana de Curtis, figlia dello scomparso.
ANTONIO: Voi siete Don Arturo Santaniello?
ARTURO: A servirvi.
ANTONIO: Mi favorite, per carità.
ARTURO (dando ancora uno sguardo ammirato verso l’esterno): E’ tutta proprietà vostra?
ANTONIO: Da qua non si vede, ma fino all’oliveto che sta a quattro chilometri, e da quest’altra parte è lo stesso e
fino al mare, laggiù, è tutta proprietà mia.
ARTURO: Buona salute.
ANTONIO: Quando tornai dall’America, quarant’anni fa, feci l’affare.
ARTURO: Allora la terra costava niente…
ANTONIO: Una miseria. Poi, piano piano, l’ho valorizzata fabbricando palazzine, villette.
ARTURO: E questa è una zona di Paradiso. Eh già, chiamate un architetto, un ingegnere…
ANTONIO: No, per carità… chiamo l’ingegnere e l’architetto per andare all’elemosina. Faccio tutto io. Tengo un
capomastro, un vecchietto della vecchia guardia, i manovali non mancano… e costruisco in economia. Mia figlia
porta la contabilità… cemento, pietre, mattoni, ferro, infissi…
ARTURO: Ma un progetto lo dovete presentare.
ANTONIO: Questa è una zona fuori tiro. E poi il progetto è di carta.
ARTURO: Be’?
ANTONIO: La più grande scoperta non è stata la radio, la televisione, l’atomica, lo sputnik… don Artù, la scoperta
più grande è stata la carta.
ARTURO (divertito): Sentiamo.
ANTONIO: Quante cose si fanno con la carta?
ARTURO (c. s.): Eh… quante cose…
ANTONIO: Voi mi direte: le cambiali, i contratti, la carta bollata, libri, giornali…
ARTURO: Passaporti, licenze, manifesti…
ANTONIO: Biglietti di banca.
ARTURO: Ah, sì… il denaro…
ANTONIO: Ma se fa pure un’altra cosa.
ARTURO: Che cosa?
ANTONIO: C’è stato uno, un uomo certamente geniale, chi sa chi è stato, che ha tagliato un pezzo di carta
quadrata, ha piegato i quattro angoli, tre l’ha incollati e uno l’ha lasciato aperto. Su quest’ultimo, poi, ci ha passato
col pennello due striscette di una certa gomma che si asciuga immediatamente e che diventa attaccaticcia di nuovo
soltanto quando ci si passa sopra la saliva con la lingua.
ARTURO: La busta!
ANTONIO: Diventa busta quando prima di chiuderla ci si mettono dentro i biglietti di banca che pure sono di carta.
Don Artù: senza la busta si ferma pure la bomba atomica. Non c’è bisogno dell’ingegnere e dell’architetto. Questa
gente qua conosce il codice edilizio a memoria; e quando arrivano a incatenare un povero ignorante in materia che
vuole costruire, allora lo lasciano quando l’hanno portato diritto diritto al fallimento o al manicomio. E campano
bene perché l’ignoranza è assai. E stanno sempre a posto legalmente, perché “la legge non ammette ignoranza”. E
non è giusto. Perché, secondo me, allora, la legge non ammette tre quarti di popolazione? Ma se, per esempio, si
cambiasse la frase e si dicesse: “la legge ammette l’ignoranza”, vi garantisco che più della metà di questi signori
farebbero sparire la laurea e diventerebbero immediatamente ignoranti.
ARTURO (poco convinto): E già… Io vi conoscevo di nome e come persona fisica, ma non avevo avuto mai l’onore
di parlarvi personalmente.
ANTONIO: L’onore è mio.
ARTURO: Vi vedo passare spesso per via Giacinto Albino, perché so che abitate alla Sanità.
ANTONIO: Precisamente.
ARTURO: Poi mi ricordo di voi giovane, molti anni fa…
ANTONIO: In America?
ARTURO: No… a Napoli… una quarantina di anni fa al processo.
ANTONIO: Ah, stavate in Tribunale?
ARTURO: Prima di tutto il vostro fu un processo che appassionò tutto la cittadinanza, e poi, in quell’epoca, mi
piaceva di seguire i fatti di cronaca nera…
ANTONIO: E fui proprio io a chiedere la revisione del processo. Perché dopo il fatto, tenevo diciotto anni, con
l’aiuto di un conoscente, ch’è ancora vivo e sta in America, tiene ottantatré anni, ci scriviamo spesso, stiamo in
contatto…
ARTURO: Come si chiama?
ANTONIO: Adesso volete sapere assai.
ARTURO: E’ giusto.
ANTONIO: Mi imbarcai calndestinamente per l’America, e qua fui condannato in contumacia. In America ci rimasi
diciassette anni. Mi feci benvolere da questo conoscente, e con l’aiuto suo andavo avanti. Che facevo? Lavoravo
con lui. (Coglie a volo un cenno ambiguo di Arturo). No, niente cose disoneste. Fatti di sangue, sì, ma per giustizia.
Ho lavorato al porto, ho fatto il lustrascarpe, il pizzaiolo, il friggitore, l’attacchino… mi sono industriato in tutti i
modi. I dollari che avevo messo da parte, in America erano una miseria, in Italia, col cambio di allora, erano una
fortuna. Comprai la tenuta, e chiesi la revisione del processo. Mi feci difendere da De Fonzeca; prove, controprove
e testimonianze: otto testimoni a discarico. Fui assolto per legittima difesa.
ARTURO: E i testimoni erano genuini?
ANTONIO: No.
ARTURO: Ah… E De Fonzeca?
ANTONIO: Non sapeva niente. Se volete vincere la causa, la prima persona che non deve sapere i fatti veri è
l’avvocato vostro. Come si dice, “l’avvocato è come il confessore”. E io non mi confesso. I testimoni erano falsi, ma
io no, Io ero genuino, avevo ragione. Tengo due costole spezzate e mezza mascella inferiore di metallo… me la
spezzò Gioacchino d’ ‘a tenuta Marvizzo. Chella carogna! Muorto e buono… carogna! Tenevo diciotto anni, facevo
il capraio… io, sapete, sono umile di origine… portavo le capre al pascolo. Per tutti andava bene, per me no.
Antipatia, impuntatura… Và ti pesca la ragione. “Giacchì, ma perché proprio le capre mie non possono pascolare
nella tenuta?” E lui col fucile pronto: “Il guardiano sono io. Gli altri sì e tu no, cammina se no ti sparo”. Una
mattina m’ero mangiato tanto e pane e tanto formaggio, e mentre le capre pascolavano presi sonno. Si vede che per
abitudine le capre sconfinarono nella tenuta Marvizzo. Mi sveglio sotto un terremoto di mazzate: cazzotti, schiaffi e
calci in tutti i posti della vita mia. Non capivo se me lo stavo sognando o era un fatto reale. Sentivo la voce di quella
carogna: “Accussì te ricuorde del guardiano della tenuta Marvizzo”. Don Artù, questa faccia era una maschera di
polvere e sangue. Al pronto soccorso non fiatai, dissi che ero caduto in una scarpata. I giorni passavano, non
dormivo più, non mangiavo. Mia madre, buon’anima: “Totò, ma ch’è stato?” Mio padre: “Ma non ti senti bene?”
Mi comincia la febbre. Don Artù, la febbre a trentotto, trentanove… diventai ossa e pelle. Chiamarono due o tre
medici, nessuno sapeva spiegare il malessere. Camminavo per la strada e vedevo Giacchino. N’amico me salutava?
Me pareva Giacchino – la notte, vicino al letto – Giacchino! Ero diventato una pila elettrica. E penzavo: “Si nun
more Giacchino, io nun pozzo campà. Io moro… io moro… e nun voglio murì, o io o Giacchino. (E ripete
l’affermazione con l’ossessione di allora). O io o Giacchino… O io o Giacchino, o io o Gacchino”. Don Artù, mi
procurai un coltello a serramanico: passo passo m’allungai alla tenuta Marvizza. Guè Giacchì non fece in tempo a
puntare il fucile. “Si’ stato tu”. “Nun so’ stat’io, nun m’accidere”. “Nun si’ stato tu?” “No!” “E giura”. “T’ ‘o
giuro”. “Ncopp’ ‘e figlie?” “Ncopp’ ‘e figlie”. “Nnanzo a Dio?” “Nnanzo a Dio!” Se m’avesse detto: ” Sì, so’
stato io “, be’ lo avrei perdonato. So’ passate cinquantasett’anne, don Artù, l’ultima coltellata a Giacchino nun ce
l’aggio data ancora.
ARTURO: Ma, scusate, don Antò, due costole rotte, tre denti spezzati, una maschera di polvere e sangue, e nun lo
potevate denunziare alle autorità?
ANTONIO: E quello negava. Al momento dell’aggressione stavamo io lui e le capre … le capre non parlano,
dunque?. Lo chiamavano a giuramento e quello giurava davanti a Dio. L’umanità si divide in due parti: gente in
buona fede e gente carogna come Giacchino. E la legge non può essere elastica. Il codice penale tiene 266 pagine e
734 articoli. La gente carogna come Giacchino sapete come dice? “Approvata la legge , trovato l’inganno”. E un
magistrato che può fare? Queste sono le prove, questi sono i documenti e questi testimoni. Anche se come l’uomo
lui è convinto della colpevolezza o dell’innocenza dell’imputato, la sentenza deve rispondere come un totale di
un’operazione matematica. La legge è fatta bene, sono gli uomini che si mangiano fra di loro… come vi posso
dire… ecco è l’astuzia che si mangia l’ignoranza. Io difendo l’ignoranza.
ARTURO (poco convinto, ma con un mezzo sorriso opportunista): Già.
ANTONIO: Il discorso ci ha portato fuori strada e vi sto facendo perdere tempo.
ARTURO: Per carità, ho avuto l’onore di una vostra confidenza.
ANTONIO: Perché il colloquio si è svolto fra me e voi. Se invece di due eravamo in tre, la bocca mia rimaneva
chiusa.
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