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STORIA E STORIE – I PROCESSI ALLE STREGHE – NUMERO UNICO 2000 – PAG. 126

 
 

 I PROCESSI ALLE STREGHE – di Maurizio Calò 
I maghi e gli stregoni appartengono alla classe dei sacerdoti che si ritrova presente in ogni collettività, anche in
quelle di origini più antiche, ed erano i custodi della scienza e della medicina del tempo in cui vivevano, distinguendosi nettamente dalla classe dei guerrieri alla quale, di volta in volta, offrivano appoggio o si contrapponevano nella gestione del potere.

Essi attingevano il loro prestigio dalla capacità di interpretare o di modificare il destino e per questa loro qualità di
intermediari con il divino, erano guardati con timore reverenziale, potendo determinare con i loro incantesimi il
miglioramento delle condizioni di vita dei singoli o dell’intera collettività di appartenenza.

Ma non è in questa antica accezione che i processi alle streghe e agli stregoni si ripropongono alla nostra memoria
e la differenza è riconducibile all’avvento della religione cristiana che, riservando all’unico Dio la capacità di
determinare i destini umani, definisce come eresia ogni altra ipotesi di interferenza.

Storicamente i primi “stregoni” furono i “valdesi”, i seguaci di Valdo (1140 ca. – 1217 ca.) che nel XII secolo, dopo
aver donato tutti i suoi beni ai poveri, si dedicò alla predicazione del Vangelo, ma venne scomunicato dal Sinodo di
Verona nel 1184 e, con i suoi adepti, si rifugiò nelle vallate alpine per sfuggire alla persecuzione della sua eresia.

Tuttavia la repressione della stregoneria su vasta scala, iniziò solo tra il 1420 ed il 1430, proprio in quelle vallate
comprese tra il Delfinato, le Alpi francesi e svizzere ed il Jura in cui si erano insediati i valdesi dando grande lustro
alla categoria degli inquisitori che perseguivano, con lo stesso accanimento, gli eretici e gli stregoni, questi ultimi
ormai intesi non più come portatori di poteri straordinari, ma aderenti ad un’antireligione ed adoratori del Diavolo.

Stranamente la credenza nella stregoneria e l’evolversi degli strumenti giuridici della grande caccia alle streghe,
coincidono con la fine del Medioevo, un’epoca in cui esplode la contrapposizione tra l’idea di Dio, inteso come
esponente del Bene, e l’idea di Satana, esponente del Male, eternamente in lotta tra loro a spese dell’umanità tra
cui si devono individuare e stanare i fautori del Diavolo per permettere al Bene di trionfare.

Il motivo dello sviluppo di questa credenza va ricercato, probabilmente, nella serie di disgrazie che periodicamente
si sono abbattute su tutte le popolazioni europee: epidemie, catastrofi naturali e climatiche e guerre hanno decimato
uomini e animali e reso difficili i raccolti. All’inizio del XV secolo, sembra proprio, quindi, che Satana stia per
prevalere su Dio e ad ogni sventura, nelle comunità dei villaggi, si compiono orrende rappresaglie contro i pretesi
stregoni che vengono messi a morte.

Questo profondo malessere trova poi, sul finire del XV secolo, l’opportunità di coagularsi in una formulazione
scientifica grazie a due importanti testi : la bolla SUMMIS DESIDERANTES AFFECTIBUS, promulgata da Papa
Innocenzo III il 5 dicembre 1484, con la quale si conferivano amplissimi poteri ai due inquisitori che agivano nella
Germania del nord, Jabob Sprenger (1436 ca. – 1496) e Heinrich Institoris (1430 ca. – 1505 ca.), ed il Malleus
MalEficarum (il “Martello delle Streghe”) che venne pubblicato nel 1486 a Strasburgo dall’editore Jean Prüss
proprio dai due inquisitori della Valle del Reno appena citati e che divenne il più noto testo della letteratura
demonologica.

Si ritiene che Heinrich Institoris sia stato il vero autore dell’opera, anche se ne spartisce il grande successo con
Jacob Sprenger. Erano entrambi domenicani, ma mentre il primo era un persecutore di ogni forma di eresia, ed in
particolare della stregoneria, il secondo doveva essere meno focoso e più studioso, essendosi dedicato
prevalentemente alla riforma dei conventi domenicani dell’Impero ed alla diffusione della devozione del Rosario,
fondando, nel 1475 in Germania, la Confraternita del Rosario.

Avendo trovato in questi due testi fondamentali la base teorica della stregoneria demoniaca, la caccia alle streghe
poté esplodere raggiungendo in due periodi, il primo fra il 1480 ed il 1520, ed il secondo fra il 1580 ed il 1670,
dimensioni di vera e propria strage.

Le due ondate repressive non furono però identiche: nel primo periodo il numero delle vittime era ancora limitato
ed i processi si svolgevano nella sede ecclesiastica; nel secondo periodo, più drammatico, i processi avvenivano in
sede secolare ed il numero delle vittime divenne incalcolabile.

In che cosa consista il crimine di stregoneria è presto detto.

I seguaci di Satana si cospargono il corpo con un unguento che rende invisibili usando una bacchetta cavalcando la
quale ci si può poi spostare velocemente per raggiungere il sabba che, generalmente, si svolge in un bosco alla luce
di un fuoco livido. Qui Satana, che può assumere i più vari aspetti animaleschi, più spesso quelli di un caprone, li
attende per intrattenerli con un discorso contro la religione cristiana. La cerimonia prosegue con un banchetto e si
conclude con una messa nera cui segue una orgia dissennata cui partecipano i diavoli assumendo forme femminili
(succubi) o maschili (incubi).

Nel corso del sabba si abiura alla religione cristiana, si offendono le immagini sacre e si predispongono gli
ingredienti per preparare le pozioni malefiche. Il sabba è la caricatura di una messa cattolica.

Per il numero degli aderenti, la stregoneria è considerata una setta di eretici ed apostati che, nella piena coscienza
di contrapporsi al Bene, devono essere estirpati dalla società

Le soluzioni giudiziali non vanno per il sottile : se, dopo la tortura (che può arrivare a quindici tipi diversi) la strega
confessa, viene bruciata. Pentendosi può esserle concessa l’impiccagione prima del rogo. Se ritratta la confessione,
è ispirata dal Diavolo e, quindi, non vi sarà per lei alcuna pietà. Nei casi dubbi, viene esiliata e, quindi, destinata
alla morte civile.

Proprio per l’enorme numero delle esecuzioni, si moltiplicano i trattati di demonologia scritti da giureconsulti,
peraltro in coincidenza con il passaggio dei processi di stregoneria dalla sede ecclesiastica a quella secolare.

Si distingue tra questi Jean Bodin (1530 – 1590) che, ben noto per aver per primo, tra i suoi contemporanei,
compreso i meccanismi dell’inflazione monetaria (1560), e scritto un’opera fondamentale per tracciare le origini ed i
limiti della sovranità (il DE REPUBLICA del 1576), divenne famoso per aver composto, nel 1580, l’opera
DEMONOMANIE DES SORCIERS.

Dopo di lui numerosi magistrati si cimentarono nella materia esponendo il frutto delle loro esperienze, ma l’opera
che rimane fondamentale furono i sei volumi delle DISQUISITIONES MAGICAE del gesuita belga di origine
spagnola Martin Del Rio, usciti a Lovanio nel 1559 e in seguito ristampati in molte altre edizioni.

Da questa opera apprendiamo come avviene l’iniziazione delle streghe.

In un momento di debolezza, Satana offre il suo appoggio in cambio di un giuramento di fedeltà. La resistenza della
vittima non può durare a lungo di fronte alle lusinghe del demonio e così si induce ad abiurare alla religione cattolica
prestando il giuramento a Satana il quale, immediatamente, appone sul corpo della sua vittima il marchio del
Diavolo : un segno piccolissimo insensibile al dolore, riconoscibile come un neo, una callosità, un graffietto.
L’iniziazione si conclude con un amplesso che, però, non è mai sentito dalle streghe come un piacere, ma, anzi, come
un doloroso tributo dovuto al tirannico nuovo sposo.

In virtù dei poteri satanici acquisiti con l’iniziazione, streghe e stregoni possono procurare malefici a singoli
individui o ad intere collettività, possono gettare il malocchio rendendo sterili o avvelenare pozzi, uccidere neonati o
scatenare nubifragi che distruggono i raccolti.

Bisogna convenire che le vittime della caccia sono quasi sempre di sesso femminile, anziane e povere, sole in un
mondo profondamente antifemminista. Della donna non si conosceva quasi nulla sul piano medico ed era posta
sempre sotto la tutela maschile, prima del padre, poi del marito. Venendo meno quest’ultima con la vedovanza, la
donna acquistava una relativa autonomia, ma, ormai sola, poteva perciò essere la vittima predestinata di una
collettività isterica ed ignorante qual era quella rurale della fine del Medioevo.

Sul numero delle vittime della caccia alle streghe, si rimane molto perplessi a seguire le indicazioni che emergono
dai testi dei giudici. Nicolas Rémy, che opera in Lorena tra il 1576 ed il 1606, autore, nel 1595, del
DAEMONOLATREIA, afferma di aver mandato al rogo tra le due e le tremila streghe. Pierre de l’Ancre,
presidente della Corte Sovrana di Bordeaux ed autore di due testi fondamentali, il TABLEAU DE
L’INCONSTANCE DES MAUVAIS ANGES ET DEMON (1612) e L’INCREDULITE’ ET MESCREANCE DU
SORTILEGE (1662), sostiene di aver fatto bruciare, a seguito di processo dinanzi alla Corte che preside, nel solo
1577, ben 400 streghe.

In realtà tali numeri stanno soprattutto a significare l’intenzione degli inquisitori di diffondere il terrore per
allontanare il diffondersi delle pratiche demonologiche.

Si stima, invero, che, nella zona di massima repressione, tra l’inizio del 1400 e la fine del 1600, i processi alle
streghe non siano stati più di trecento e che solo la metà si siano conclusi con la messa a morte dell’incolpato.

Nonostante questo forte ridimensionamento, la caccia alle streghe ha profondamente colpito l’immaginario
collettivo che ne è rimasto profondamente impressionato anche per le particolari modalità con cui il processo poteva
iniziare, si svolgeva e terminava.

Bastava un semplice sospetto, una diceria, un particolare estetico per mettere in moto la macchina giudiziaria i cui
esponenti, giudici e carcerieri, si ritenevano esenti dai sortilegi delle streghe che perseguitavano in virtù di una
speciale immunità. Le prove per acquisire la certezza che l’imputato fosse una strega, erano varie e numerose.

Una delle più usate era la prova dell’acqua : la strega veniva immersa nel fiume, nel lago o nello stagno, a volte
legata ad una grossa pietra. Se galleggiava significava che il demonio voleva salvare la sua adepta e la strega era
condannata al rogo. Un’altra prova era quella della bilancia, legata alla facoltà della strega di volare, cosicché il suo
corpo era assai più leggero di quello dei credenti.

La strega poteva essere anche sottoposta alla ricerca, mediante aghi,  del “marchio del Diavolo”, il punto in cui non
provava dolore e che poteva essere in qualsiasi parte del corpo: in quel punto, oltre a non sentire dolore, non vi
sarebbe stato neppure sangue.

Queste prove, in definitiva, attingevano sempre al concetto di ordalia sorta nella tradizione germanica ed evolutasi
nel “Giudizio di Dio” con l’introduzione della Cristianità tra quelle popolazioni : il principio si fondava sul dogma
della giustizia di Dio che non avrebbe mai permesso che il Bene soccombesse rispetto al Male. Dall’ordalia derivò
anche il Duello, o combattimento, di Dio.

L’interrogatorio dell’inquisitore è comunque uno dei punti topici del processo, ma è congegnato in modo tale che
qualunque risposta verrà usata contro l’accusato.

Se poi le risposte riescono a driblare le varie trappole di cui l’interrogatorio è disseminato, l’inquisitore ha sempre a
disposizione la tortura. Il “Martello delle Streghe”, tuttavia, non raccomanda la tortura, ma indica, quale prova
principale, la confessione ed a questa l’inquisitore deve mirare.

Per ottenerla, però, si apprende che si ricorre a metodi certo non ortodossi. Ad esempio Bodin raccomanda di
esporre gli strumenti di tortura in una stanza vicina e con la porta aperta in modo che siano ben visibili, oppure di
far emettere urla di dolore da una stanza attigua e chiusa.

Anche le torture, come le prove, sono varie e numerose, da quella che costringe ad ingurgitare, incatenati, più di
nove litri d’acqua con raddoppio in caso di protrarsi del rifiuto alla confessione, alla bruciatura dei piedi ;
dall’introduzione di una punta di ferro sotto le unghie, a pezzi di legno applicati alle gambe e stretti lentamente per
mezzo di cunei a corde fino a spezzarle, per citarne solo alcune.

L’accusato, di regola, non dovrebbe essere sottoposto a tortura più di tre volte e tra un’applicazione e l’altra
dovrebbe trascorrere almeno un giorno, che ha l’effetto non tanto di dare riposo quanto di aumentare il terrore del
ripetersi della tortura.

La confessione ottenuta sotto tortura deve essere confermata quando la coazione sia finita. Se l’accusato ritratta, la
tortura ricomincia.

Era impossibile resistere a questi processi in cui, oltretutto, un’ultima seduta di tortura era dedicata ad ottenere
l’indicazione degli altri aderenti alla stregoneria.

L’appello poi, pur previsto dai principi, era il più delle volte impercorribile, sia per l’ignoranza delle vittime che,
soprattutto, a causa dell’esecuzione della sentenza, che seguiva immediatamente la conclusione del processo e nel
cui rogo venivano anche bruciati gli atti del giudizio per ottenere il massimo della purificazione.

Forse è per questa pratica che non è poi così facile ricostruire gli atti dei processi alle streghe.

Sebbene tutti, nell’Europa tra il 1450 ed il 1700, credessero alle streghe, ai malefici ed ai sortilegi, i roghi non si
accesero dappertutto allo stesso modo. Le regioni più colpite furono l’Artois, le Fiandre, il Lussemburgo, la Scozia,
la Lorena, la Romania, le regioni meridionali della Germania, il Tirolo, la Borgogna, la Franca Contea, i Paesi
Baschi ed il Piemonte.

Nel resto d’Europa, invece, i patti col Diavolo non impressionavano più di tanto. Ne è in gran parte indenne l’Italia
dove solo nel Trentino, regione contigua al mondo germanico, i processi si susseguirono sino al 1600.

Tale fenomeno è probabilmente da riconnettere all’istituzione del tristemente noto Sant’Uffizio da parte di Papa
Paolo III nel 1542 che, proteso all’estirpazione delle eresie, non diede gran peso al fenomeno delle streghe, frutto
più dell’ignoranza e della superstizione che della speculazione eresiaca.

Solo nel 1631 il gesuita tedesco Friedrich Von Spee diffuse il suo trattato CAUTIO CRIMINALIS, SEU DE
PROCESSIBUS CONTRA SAGAS nel quale metteva in dubbio il reato di stregoneria e la sua voce non rimase
isolata se nel 1657 Papa Alessandro VII raccomandava ai giudici la massima prudenza nel definire il reato di
stregoneria.

Ma il colpo di grazia lo diede il padre cappuccino Jacques D’Autun che nel 1671 pubblicò in Francia l’opera
L’INCREDULITE’ SAVANTE ET LA CREDULITE’ IGNORANTE AU SUJET DES MAGICIENS ET
SORCIER che demolì il concetto stesso del reato di stregoneria segnando una svolta culturale nel mondo
giudiziario del suo tempo.

Queste voci ecclesiastiche erano state invero precedute da quelle degli scienziati.

Il medico Johann Wier aveva pubblicato nel 1563 a Basilea il volume DE PRAESTIGIS DAEMONUM ET
INCANTATIONIBUS AC VENEFICIIS in cui, pur non negando l’esistenza di Satana e dei suoi adoratori,
affermava che la maggior parte dei processati gli apparivano poveri malati bisognosi di cure. Era il Wier una
personalità nel suo campo e fu proprio per contrastare le sue idee che Jean Bodin pubblicò il suo celebre
DEMONOMANIE DES SORCIERS.

In Francia i processi alle streghe finirono praticamente con l’editto reale del 1682 su maghi, indovini ed
avvelenatori, adottato a seguito del celebre “caso dei Veleni” che aveva coinvolto persino Madame de Montespan,
amante di Luigi XIV. Pur non escludendo il reato di stregoneria, l’editto prevedeva che un processo demonologico
potesse essere istruito solo se a carico di maghi e streghe esistevano prove materiali, come l’uso dei veleni,
cosicché le semplici dicerie non bastavano più.

Così limitata l’attività processuale ed affermandosi, nel secolo dei lumi, la convinzione che la stregoneria fosse solo
frutto di ignoranza e superstizione, i roghi si spensero.

Le streghe risorgeranno solo letterariamente nella prima metà del XIX secolo con il Romanticismo, soprattutto
quello germanico, con la riscoperta delle tradizioni e delle leggende popolari che ispirarono letterati e pittori, dai
Fratelli Grimm a Francisco Goya a musicisti quali Felix Mandelssohn-Bartholdy, Ector Berlioz o
Rimsky-Korssakoff a conferma che la stregoneria costituisce un tema estremamente fecondo dell’immaginario
collettivo europeo.

ORDALIA DELL’ACQUA FREDDA

Da “Le diavolerie giudiziarie” del Magistrato Gennaro Francione

per gentile concessione della “Nuova Editrice Spada” – Roma –

L’idea della leggerezza dei demoni cui si è fatto sopra cenno si riscontrava anche nella prova dell’acqua fredda. A
livello popolare, invece, tale ordalia si basava sulla supposizione che ciò che è puro come l’acqua non può mai
ricevere dentro di sé un rio. Entrambe le credenze portavano comunque al medesimo risultato. Dopo aver legato
per bene il giudicando in modo tale da impedirgli qualsiasi movimento, i giudici ordinavano di immergerlo in uno
stagno, in un lago, nel mare, nella corrente di un fiume. Se il prevenuto saliva a galla era colpevole, se rimaneva
sott’acqua veniva giudicato innocente.

Dal punto di vista mitico lo iudicium aquae frigidae si ricollega all’archetipo del Diluvio Universale, presente
presso tutte le religioni antiche a rappresentare una forma di purificazione divina del genere umano attraverso una
sorta di Lavacro Cosmico. Con riferimento più specifico alla mitologia cristiana basterà ricordare il passaggio del
Mar Rosso del popolo ebreo in fuga verso la liberazione o il battesimo nel Giordano di Gesù Cristo ad opera di
Giovanni il Battista.

La tecnica dell’immersione del corpo nell’ordalia dell’acqua fredda seguiva un rituale molto rigoroso. Innanzitutto
bisogna precisare che l’indiziato veniva calato in acqua imbragato con funi e trattenuto da una robusta corda, su cui
una serie di nodi formavano una sorta di scala per parametrare la linea di affondamento.

Siccome la gente dell’epoca ben poco praticava le arti natatorie né era a conoscenza, quanto meno a livello pratico,
dei suoi principi, capitava normalmente che l’indiziato per istinto di conservazione tendesse a muoversi. Egli
cercava di slegarsi e di uscire dal sacco in cui eventualmente erta stato rinchiuso e questo, per la legge
fondamentale dell’idrostatica già scoperta da Archimede, lo riportava a galla con spinta pari al suo peso.

In effetti, in mancanza di una tecnica subacquea adeguata, un espediente rudimentale per uscire vivi dalla prova era
svuotare completamente i polmoni d’aria prima del tuffo e starsene fermi sott’acqua, piuttosto che agitarsi
scompostamente. Anche in tal caso, però, l’esito della prova era legato ad un altro fattore diabolico. L’assoluta
inerzia del giudicando furbo o sagace lo rendeva oggetto non certo del responso diretto della divinità, quanto della
voluntas degli addetti al protocollo. Il sistema rituale del controllo dei nodi per verificare la natura
dell’affondamento faceva sì che comunque andasse l’esito della probatio il giudice aveva uno jus vitae ac necis,
anche in rapporto a un innocente conclamato dal popolo che egli volesse eliminare.

Sarebbe bastato infatti tenerlo immerso più del dovuto per farlo andare in uno tempore in gloria degli onesti e di
Dio, con viaggio repentino all’altro mondo. A tanto poteva portare, senza scandalo alcuno, il peso specifico di chi
avesse avuto il corpo greve, imbroglione o senza macchia ch’egli fosse. Ove non si fosse arrivati a tanto, era
sempre possibile imbrogliare la misurazione della linea di affondamento per mandare alla decapitazione o al rogo il
malcapitato.

Ovviamente nell’ordalia dell’acqua fredda avevano più possibilità di scamparla le genti abituate a lavorare
nell’acqua per guadagnarsi da vivere e in tal senso lo status sociale di lavoratore del mare o una tecnica natatoria
che un comune individuo avesse appreso dai pescatori, dai marinai, dai barcaioli potevano portare lo scaltro, pur
colpevole, a salvarsi la vita. Le istituzioni di Vishnù che già prevedevano quell’ordalia, impedivano appunto che ad
essa fossero sottoposte le categorie di operatori acquatici succitati.

La prova dell’acqua fredda, nata nel secolo IX in occidente come innovazione della chiesa, godé di grande fortuna
soprattutto nel XIII secolo, quand’essa venne utilizzata non più per risolvere casi ordinari di giustizia, ma come
prova per i sospettati di patti col demonio.

Già Plinio aveva scoperto che gl’incantatori del Ponto Eusino si mostravano più leggeri dell’acqua “eosdem
praeterea non posse mergi ne veste quidam degravato” (Natur. Historia). Stefano Bizantino notava il medesimo
prodigio natatorio caratterizzare gli abitanti di Tebe, stregoni capaci di uccider col fiato. Questi ed altri riferimenti
dotti alimentarono la filosofia e le diatribe dei demonologi come Bodin, Binsfeld, Godelmann che fino al 1600 e
anche oltre trattarono della materia. Basterà accennare per tutte alla disputa tra Scribonio ed il Vescovo Binsfeld.
Questi si scaglia contro l’ordalia, affermando che il galleggiamento dello stregone è provocato direttamente dal
demonio, il quale ben volentieri sacrifica un amico per rinverdire la pratica malefica che ormai è apertamente
condannata dalla chiesa. Giunge poi a tacciare di peccato mortale tutti i partecipanti, giudici compresi.

Il protrarsi delle dispute colte fornisce l’indizio di una resistente credenza popolare nello strabiliante, manifestantesi
particolarmente nei metodi giudiziari spettacolari e acquei. Là dove l’humus antropologico delle mirabilie era più
esteso come in terra di Scozia, paese famoso per le violente ondate di caccia alle streghe, l’ordalia de qua venne
applicata con frequenza fino a tempi molto recenti. Le figlie di Satana venivano immerse nell’acqua ghiacciata della
Baia di Sant’Andrea, che a ricordo della pratica si chiama ancora tristemente Witch Pool (Pozza della Stega).

Il trovatore

Tra le opere più importanti ispirate dai secoli delle streghe, vi è Il Trovatore, opera lirica in quattro parti – libretto di Salvatore Cammarano, musica
di Giuseppe Verdi (1813-1901) – tra le più intense e popolari del repertorio verdiano e appartenente alla famosissima trilogia con La Traviata ed Il
Rigoletto.

1 – Nella Spagna dell’inizio del XV secolo, nelle regioni di Biscaglia ed Aragona, dimora, nel palazzo di Aliaferia, il Conte di Luna con i suoi due
figli. Alla culla del più piccolo, di nome Garzia, si avvicina, nottetempo, una zingara che viene accusata di stregoneria e mandata al rogo quando,
poco dopo, il bimbo comincia a deperire inguaribilmente. In punto di morte la strega impone alla figlia Azucena di vendicarla e questa, col tempo,
riuscirà a rapire il piccolo Garzia con l’intenzione di bruciarlo nello stesso punto in cui arse sua madre. Sennonché, nella concitazione del
momento cruciale, Azucena in preda ad un raptus, spinge tra le fiamme suo figlio ed alleverà quindi, come proprio, il secondo figlio del Conte di
Luna. Dai resti carbonizzati del figlio di Azucena, il popolo deduce che sia stato invece ucciso Garzia e invano, per anni ed anni, gli armigeri del
Conte di Luna cercano la figlia della strega, ritenuta colpevole dell’orrenda vendetta.

Iniziata la guerra civile tra il Conte di Luna e il Conte di Urgel, principe di Aragona e pretendente al trono, la nobildonna Leonora viene
corteggiata dal primo figlio del Conte, ma è perdutamente innamorata del Trovatore, un misterioso cavaliere che ha avuto occasione di premiare
in un torneo dove combatteva senza insegne prima dello scoppio della guerra civile e che ora finalmente ritrova sotto il suo balcone che le
rivolge canti d’amore accompagnandosi con il liuto.

In una delle serate in cui il figlio del Conte di Luna si reca a cercare l’amata Leonora, avviene l’incontro con il Trovatore che, diffidato a uscire
dall’ombra degli alberi, si qualifica come Manrico, seguace del Conte di Urgel. Folle di gelosia, il Conte di Luna sfida Manrico a duello senza che
Leonora riesca ad impedirlo.

2 – Nei boschi di Biscaglia vi è l’accampamento degli zingari ai quali Azucena inizia a narrare la macabra storia della madre che suo figlio Manrico
chiede di continuare anche dopo che gli altri si sono allontanati per i lavori quotidiani. Nell’udire il racconto, Manrico sospetta di non essere il
figlio di Azucena, ma questa esce dalla trance in cui è caduta rievocando l’antico dramma, allontanando ogni perplessità di Manrico, il quale, a
sua volta, le narra di aver risparmiato, nel duello notturno, la vita al Conte di Luna per l’intervento di una voce celeste che lo ha trattenuto dal
vibrare il colpo mortale. Mentre Azucena fa giurare a Manrico di non risparmiare mai più la vita al Conte di Luna, un messaggero riferisce a
Manrico l’ordine di assicurare la difesa nella fortezza di Castellor, assediata dal Conte di Luna e gli riferisce anche che Leonora, credendolo
morto nel duello, sta per chiudersi in convento.

Manrico parte a cavallo per le due missioni nella disperazione di Azucena.

In prossimità del monastero, il Conte di Luna, con Ferrando, capo dei suoi soldati, tende un’imboscata per rapire Leonora prima che vesta il velo,
ma al momento del rapimento sopraggiungono Manrico e i suoi seguaci capitanati da Ruiz che prelevano per primi Leonora, portandola a
Castellor, e mettono in fuga il Conte e la sua scorta.

3 – Nell’accampamento del Conte di Luna i soldati si preparano per assaltare la fortezza di Castellor. Ferrando informa il Conte che è stata
catturata una zingara mentre si aggirava con fare sospetto intorno all’accampamento.

Durante l’interrogatorio del Conte, la zingara viene riconosciuta come Azucena da Ferrando cioè la figlia della strega, responsabile della morte di
Garzia e viene a sua volta condannata al rogo. In tale drammatica situazione Azucena invoca l’aiuto di Manrico, rivelandosene la madre alla
presenza di Ferrando e del Conte di Luna e perdendo così ogni speranza di salvezza.

Della cattura della madre viene informato Manrico che, dall’alto delle mura di Castellor, vede i bagliori del rogo in allestimento e lancia il suo
grido di vendetta, intonando quello che forse è il brano più famoso di tutto il repertorio verdiano: “Di quella pira…”()

4 – Sulla torre del palazzo di Aliaferia sono rinchiusi Manrico, che è stato arrestato mentre cercava di liberare Azucena, e Azucena stessa.

Si avvicina nella notte Leonora nel tentativo di liberare l’amato e ne ode il canto con il quale egli cerca di rasserenare Azucena, invitandola al
sonno. Sopraggiunge il Conte di Luna che emette la sentenza per i due prigionieri: Manrico decapitato e Azucena al rogo. Si fa allora avanti
Leonora che si offre in moglie al Conte di Luna purché Manrico venga salvato. Il Conte di Luna accetta, ma, nascostamente, Leonora assume un
veleno ad azione ritardata celato nell’anello, quindi ascende alla torre annunciando a Manrico la possibilità di fuga. Questi rifiuta e la maledice
immaginando il prezzo della sua liberazione. Ma il veleno agisce prima del previsto e Leonora muore tra le braccia di Manrico che rimprovera a se
stesso i dubbi sul comportamento dell’amata.

Sopraggiunge il Conte di Luna che, disperato per la morte di Leonora, spedisce Manrico al ceppo. La sentenza sta per essere eseguita quando
Azucena si risveglia e, osservando dalla finestra l’esecuzione, rivela al Conte di Luna che ha appena ucciso suo fratello. Quindi la zingara
annuncia, tra disperazione e trionfo, che la strega sua madre è stata finalmente vendicata.

Tecniche di avvicinamento all’ascolto della musica colta

L’approccio più facile alla musica colta può avvenire tramite l’opera lirica. La trilogia verdiana de “La Traviata”,
“Il Rigoletto” e “Il Trovatore” costituiscono un ottimo inizio perché dotate di una trama facilmente seguibile con il
libretto e di musiche assai espressive dei sentimenti di volta in volta espressi dai vari personaggi. Si consiglia di
dotarsi di una buona edizione, anche se datata, e di ascoltarla tre volte, in tempi ravvicinati, seguendo il libretto.

Al primo ascolto si avrà solo la percezione di note forti o più delicate, ma già al terzo ascolto le armonie più facili
resteranno impresse e si farà il coro alle arie più famose.

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