GIURISPRUDENZA DI LEGITTIMITA’ – Sull’applicabilità del prinicio del contradditorio in caso di reclamo avverso i decreti emessi dal giudice delegato – Numero unico 2000 – Pag. 75
Corte di Cassazione – Sez. I Civile – Sentenza del 20 settembre 1999 n. 10140 – Pres. Dr. De Musis – Est. Dr. Aniello Nappi – Banca Mediocredito S.p.A. / Curatela del Fallimento Conservificio Biagi di Biagi & C. s.n.c.
FALLIMENTO – ORGANI – GIUDICE DELEGATO – DECRETI – RECLAMO – PRINCIPIO DEL CONTRADDITTORIO – OSSERVANZA –
NECESSITA’ – RILEVABILITA’ D’UFFICIO.
(art. 26, 105 L.F. )
In sede di reclamo proposto al Tribunale, ai sensi dell’art. 26 L.F., contro i decreti del Giudice Delegato in materia di vendita fallimentare,
deve osservarsi a pena di nullità rilevabile d’ufficio il principio del contraddittorio, con conseguente necessità di convocazione, in Camera
di Consiglio del reclamante, del curatore e di tutti i soggetti interessati dal provvedimento.
L’aggiudicatario della vendita fallimentare, è soggetto interessato avendo il provvedimento natura decisoria, ed essendo destinato ad
incidere sulle sue aspettative di diritto, tutelate in forza del rinvio contenuto nell’art. 105 L.F.
(omissis…)
Con il primo motivo la ricorrente deduce violazione degli art.108 L.F. e 591 c.p.c. e omessa motivazione del provvedimento impugnato.
Sostiene di non aver mai contestato la legittimità della vendita a un prezzo inferiore a quello di stima, ma di avere, invece, lamentato che il
complesso aziendale era stato svenduto, essendo irrisorio il prezzo al quale era stato aggiudicato al primo e unico offerente.
Sicchè è privo di motivazione il provvedimento che ribadisce la legittimità della vendita a prezzo inferiore a quello di stima, senza giustificare la
riduzione di tale prezzo in misura superiore al 75%.
Aggiunge che, secondo quanto prevede l’art. 108 L.F., la vendita senza incanto è ammessa se comporta un vantaggio maggiore rispetto a quello
che deriverebbe ai creditori da una vendita con incanto; sicchè deve ritenersi applicabile anche alla vendita senza incanto la disposizione
dell’art.591 c.p.c. che vieta di ridurre di oltre un quinto il prezzo base fissato per una vendita con incanto andato deserto. Di fronte a un’offerta
tanto inferiore al prezzo di stima, pertanto, il giudice delegato avrebbe dovuto avvalersi del potere di sospensione riconosciutogli dall’art.108
L.F. .
Con il secondo motivo la ricorrente deduce illogicità della motivazione del provvedimento impugnato nella parte in cui rileva che non era stata
impugnata la decisione del giudice delegato di procedere alla vendita senza incanto con riserva di aggiudicazione a un prezzo inferiore a quello di
stima. Questa incontestata, e anzi condivisa decisione, infatti, non lasciava prevedere che il complesso aziendale sarebbe stato svenduto ad un
prezzo pari a meno di un quarto di quello di stima; sicché i creditori non avevano alcun interesse a impugnarla. Nè il potere discrezionale che la
legge e la giurisprudenza gli riconoscono esime il giudice delegato dal dovere di perseguire gli interessi dei creditori.
Con il terzo motivo la ricorrente deduce la nullità del provvedimento impugnato in quanto deliberato con la partecipazione, addirittura con il
ruolo di relatore, del medesimo giudice delegato che aveva emesso il provvedimento reclamato dinanzi al tribunale e, quindi, in un evidente
situazione d’incompatibilità.
Occorre preliminarmente rilevare d’ufficio la nullità del provvedimento impugnato, in quanto dichiaratamente assunto, come lamentato anche
nella memoria della ricorrente, senza la previa audizione in camera di consiglio del reclamante, del curatore fallimentare e dell’aggiudicatario.
In realtà, secondo la giurisprudenza di questa Corte, in sede di reclamo al Tribunale fallimentare, a norma del’art. 26 L.F., contro i provvedimenti
resi dal Giudice Delegato, l’osservanza del principio del contraddittorio richiede, in seguito alla pronuncia n.42 del 1981 della Corte
costituzionale, che il reclamo e il provvedimento che ordina la comparizione delle parti per la decisione in camera di consiglio siano notificati al
curatore fallimentare e ai soggetti che, con riferimento alla specifica materia oggetto del giudizio, siano destinatari degli effetti della decisione
(Cass. sez. I, 1 ottobre 1997, n.9580, m.508423, Cass., sez. I, 22 dicembre 1992, n. 13592, m. 480088). Tra tali soggetti, quando è impugnato un
provvedimento reso dal Giudice Delegato in tema di vendita di beni acquisiti all’attivo, è indiscutibilmente ricompreso, oltre al reclamante e al
curatore, anche l’aggiudicatario della vendita fallimentare, essendo il provvedimento del Tribunale, di incontestabile natura decisoria, destinato
ad incidere sulle sue aspettative di diritto, tutelate giusto rinvio contenuto nella norma di cui all’art. 105 della L.F., secondo le disposizioni del
codice di procedura civile (Cass., sez. I, 30 gennaio 1998, n. 979, m. 512094, Cass., sez. I, 26 novembre 1996, n.10461, m. 500793).
Nel caso in esame risulta che il provvedimento camerale impugnato fu adottato in violazione del principio del contraddittorio, perchè il Tribunale,
non solo non ritenne opportuna l’audizione del reclamante, che oggi se ne lamenta, sia pure solo nella memoria depositata ai sensi dell’art. 378
c.p.c., ma non consentì l’intervento nè al curatore nè all’aggiudicatario. E la conseguente nullità del procedimento e della decisione impugnata
con ricorso per cassazione è certamente rilevabile d’ufficio anche nel giudizio di legittimità (Cass., sez.L, 22 febbraio 1992, n.2196, m. 475890,
Cass., sez. L., 9 luglio 1991, n. 7555, m. 473014).
La rilevabilità d’uffcio di una tale questione di nullità, invero, potrebbe risultare preclusa solo dal giudicato (Cass., sez.I, 18 gennaio 1995, n. 519,
m. 489725), che non può dirsi, però, esistente nel caso in esame, perchè il Tribunale si pronunciò espressamente solo sull’opportunità
dell’audizione della parte reclamante, non sull’estensione del contraddittorio anche al curatore e all’aggiudicatario. Sicchè, anche in mancanza di
specifica impugnazione sul punto, la questione dell’omessa integrazione del contraddittorio risulta egualmente devoluta a questa Corte.
P.Q.M.
Provvedendo sul ricorso, cassa il provvedimento impugnato e rinvia gli atti al Tribunale di Livorno anche per le spese.
Sull’applicabilità del principio del contraddittorio in caso di reclamo avverso i decreti emessi dal Giudice Delegato.
1.La fattispecie esaminata.
Il Giudice Delegato al fallimento, disposta la vendita senza incanto del complesso industriale della società fallita, stimato in L.
5.428.766.000=, aveva aggiudicato per il prezzo di L. 1.400.000.000= all’unica offerente, il suindicato bene.
Avverso, il provvedimento del Giudice Delegato, un istituto di credito, quale creditore ammesso al passivo del fallimento, presentava
reclamo innanzi al Tribunale di Livorno, in considerazione del fatto che il prezzo di aggiudicazione del predetto bene era di molto inferiore
a quello di mercato.
I giudici di merito, ritenuta non opportuna l’audizione del reclamante, rilevarono che non era stata impugnata la decisione di procedere
alla vendita senza incanto e che rientrava nella discrezionalità del Giudice Delegato l’aggiudicazione dei beni a un prezzo inferiore a
quello di stima.
Avverso il decreto del Tribunale di Livorno, l’istituto proponeva ricorso per cassazione.
2.Necessità del contraddittorio fra tutti gli interessati.
L’art. 26 L.F. dispone che “contro i decreti del Giudice Delegato, salvo disposizione contraria, è ammesso reclamo al Tribunale entro tre giorni
dalla data del decreto sia da parte del curatore, sia da parte del fallito, del comitato dei creditori e di chiunque abbia interesse.
Il Tribunale decide con decreto in Camera di Consiglio”.
La norma richiamata è stata ripetutamente sottoposta all’esame della Corte Costituzionale (Corte Cost. 23 marzo 1981, n. 42; idem, 22 novembre
1985 n. 303 in Il Fallimento , 1986,1, 21; idem, 24 marzo 1986, n.55 in Il Fallimento, 1986,6, 671).
Va subito precisato che le censure di rango costituzionale avverso l’art. 26 L.F , hanno avuto ad oggetto non tanto l’istituto del reclamo
endofallimentare, in sè considerato, bensì, la disciplina del procedimento stesso.
Per tali ragioni e a seguito delle citate pronunce della Corte Costituzionale, la prevalente dottrina e l’ormai consolidata Giurisprudenza dei Giudici
di legittimità ritengono concordamente che sia stata posta in essere un’ operazione di “costituzionalizzazione” del procedimento di cui all’art. 26
L.F. .
Segnatamente, con il primo intervento, espressamente richiamato dalla sentenza in commento e definito con la sentenza n 42/1981, è stata
dichiarata la “illeggittimità costituzionale dell’art. 26,in relazione all’art.23 L.F., nella parte in cui assoggetta al reclamo al Tribunale, disciplinato
nel modo ivi previsto, i provvedimenti decisori emessi dal Giudice Delegato in materia di piani di riparto dell’attivo”.
La ratio di tale decisione è cristallizzata nella motivazione della stessa sentenza ove si legge: “la struttura del procedimento di reclamo ex artt. 23 e
26 L.F. (…) non assicura una adeguata tutela gurisdizionale ai diritti soggettivi coinvolti nella ripartizione delle attività fallimentari. Significativa,
al riguardo, è soprattutto la sommarietà del contraddittorio propria di sifatto procedimento, essendo previsto che il Tribunale investito del
reclamo abbia soltanto la facoltà, e non l’obbligo, di sentire in camera di consiglio le parti.” Né di minor rilievo appare la forma del provvedimento
che definisce il procedimento di reclamo: decreto, per il quale – come rilevato dalla sentenza della Corte Costituzionale n.118 del 1963- non si
richiede motivazione”(cfr. Corte Costit. n. 42/1981).
Due anni dopo l’emanazione della suddetta sentenza la Suprema Corte a Sezioni Unite, con decisione del 9 aprile 1984, n. 2255 ha ritenuto
opportuno specificare che la dichiarazione di illegittimità costituzionale dell’art. 26 L.F. comporta l’eliminazione dall’ordinamento non del
suddetto istituto del reclamo, unitamente considerato, ma soltanto della sua regolamentazione positiva, in quanto interferente sulla pienezza
della tutela giurisdizionale degli interessati (sotto il profilo della eccessiva brevità del termine e della sua decorrenza dalla data del decreto del
Giudice Delegato, nonchè della mancanza di un obbligo del Tribunale di sentire le parti e di motivare la decisione sul reclamo).
Dopo le pronunce della Corte Costituzionale, pertanto, mentre restano ferme le impugnazioni del decreto reso dal Giudice Delegato con reclamo
al Tribunale e della decisione adottata dal Tribunale con ricorso per cassazione a norma dell’art. 111 cost., rimane diversamente regolato il
procedimento sul reclamo. Infatti, venute meno quelle disposizioni della legge fallimentare sulle questioni indicate (e non quindi sulle diverse
questioni della legittimazione al reclamo e della sua efficacia non sospensiva), trovano applicazione le norme generali degli art. 737 – 742 bis
c.p.c. sul procedimento in camera di consiglio.
Ne consegue che il termine per il reclamo medesimo è di dieci giorni e che il suo decorso va fissato a partire dal deposito del decreto del Giudice
Delegato. Il Tribunale, in più, ha l’obbligo di sentire in camera di consiglio tutte le parti interessate e di motivare il provvedimento che definisce il
procedimento stesso (cfr. Cass. SS.UU., 9 aprile 1984 n.2255 in Dir. Fall., I, 1984, 760).
L’indirizzo segnato dalle Sezioni Unite della Suprema Corte, secondo cui, a pena di nullità, per i reclami avverso i decreti del Giudice Delegato
deve osservarsi il principio del contraddittorio, è stato ripetutamente confermato dalle successive pronunce dei giudici di legittimità (oltre alla
sentenza commentata,fra le altre, cfr. Cass. Civ. ,I sez.,26 novembre 1996 n.10461 in Il Fallimento ,1997, 3,304;idem, 22 febbraio 1996 n. 1401 in Il
Fallimento ,1996, 7, 654).
In sostanza la Suprema Corte ritiene che la declaratoria di illegittimità costituzionale dell’art. 26 del R.D. 16 marzo 1942, n. 267 non ha espunto
dall’ordinamento giuridico delle procedure concorsuali l’istituto del reclamo endofallimentare contro i provvedimenti decisori del Giudice
Delegato, ma ha solo imposto l’adattamento e l’integrazione della relativa disciplina per conformarla ai precetti costituzionali con i quali
contrastava, nel senso che devono trovare applicazione le regole generali del procedimento camerale dettate dal codice di rito (artt. 739 – 742 bis
c.p.c.).
In applicazione del principio sopra esposto la Suprema Corte, nella situazione di specie, rilevato d’ufficio che nell’ instaurato procedimento di
reclamo endofallimentare non erano stati convocati rispettivamente il curatore, il creditore e l’aggiudicatario, e che quindi non erano state
rispettate le regole del contraddittorio, conformemente al suo indirizzo, ha revocato il decreto emesso dal Tribunale di Livorno e rinviato gli atti
allo stesso Tribunale.
3) L’interesse dell’aggiudicatario ad essere parte del contraddittorio.
Posta la necessità del rispetto del principio del contraddittorio nei termini sopra specificati, la decisione della Suprema Corte merita di essere
approfondita sotto un’ulteriore aspetto; infatti, l’art. 26 L.F. identifica i soggetti legittimati a proporre reclamo avverso il decreto del Tribunale
,con tutti coloro che vi abbiano interesse.
La Corte di Cassazione ritiene “indiscutibilmente ricompreso”fra tali soggetti l’aggiudicatario della vendita fallimentare.
Per l’esatta comprensione del principio appena richiamato è necessario ricordare che i provvedimenti del Giudice Delegato hanno natura
ordinatoria e amministrativa, ovvero decisoria o processuale, a seconda che attengano alla direzione con finalità ordinatorie della liquidazione
dell’attivo, ovvero incidano su diritti soggettivi degli interessati al regolare svolgimento della suddetta attività liquidatoria.
Fra questi ultimi provvedimenti,che presuppongono il coinvolgimento di posizioni di diritto soggettivo virtualmente o concretamente
confliggenti, la Corte di Cassazione ha ricompreso nel corso degli anni, i casi di vendita di beni soggetti ad altrui pretese, le controversie in tema
di piani di riparto e di attribuzione a vario titolo di somme, nonchè le ipotesi di sospensione della vendita, nelle more fra aggiudicazione e
trasferimento (principalmente a causa di un’ offerta superiore al prezzo di aggiudicazione). Fatto salvo, infatti, il caso in cui l’istanza di
sospensione sia rivolta a sollecitare, in assenza di parti confliggenti, il potere discrezionale del Giudice Delegato di sospendere l’asta , è il
momento dell’aggiudicazione, nell’ambito della procedura di esecuzione della vendita -momento necessariamente precedente il trasferimento,
avvenuto il quale, la sospensione non è più proponibile- ad imprimere carattere di decisorietà all’attività del Giudice Delegato, e poi del Tribunale
fallimentare adito con reclamo.Infatti da quel momento i provvedimenti emanati coinvolgono comunque la posizione soggettiva
dell’aggiudicatario cui il bene non è stato ancora trasferito, alla quale nella fattispecie, si contrappone quella dei creditori della massa (nonchè
degli offerenti di maggior somma), interessati sia a realizzare la miglior tutela dei propri diritti, negativamente incisi dal provvedimento del Giudice
Delegato, sia al regolare svolgimento dell’attività liquidatoria, nel suo complesso (cfr. Cass. Civ., I sez., 4 novembre 1993, n.10927 in Il
Fallimento, 1994, 3, 280).
Pertanto,quando è impugnato un provvedimento del Giudice Delegato in tema di vendita di un bene acquisito all’attivo,dovrà necessariamente
disporsi l’audizione in camera di consiglio anche dell’aggiudicatario,che rientra fra i destinatari degli effetti della decisione.
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