GIURISPRUDENZA DI LEGITTIMITA’ – Entrata in vigore della L. 52/1991 e applicabilità del suo art. 6 ai pagamenti effettuati prima della sua entrata in vigore – Numero unico 2000 – Pag. 65
con nota di A. Pietrolucci – Corte di Cassazione – Sez. I Civile – sentenza del 6/5/1999 n. 12539/99 – Pres. Dott. Michele Cantillo – Est. Dott. Enrico Papa – P.M. Dott. Aurelio Golia – Fall. Remie s.p.a. (Avv.ti Riscossa, Di Nola) c. Canavesana Finanziaria s.p.a. (avv.ti Paoletti, Ferreri e prof. S. Musumeci).
FACTORING – FALLIMENTO DEL DEBITORE CEDUTO – REVOCATORIA FALLIMENTARE NEI
CONFRONTI DEL CESSIONARIO PROPOSTA DOPO L’ENTRATA IN VIGORE DELLA LEGGE 52/1991 –
SUCCESSIONE DELLE LEGGI NEL TEMPO – APPLICABILITA’ DELLA NUOVA LEGGE AI PAGAMENTI
COMPIUTI PRIMA DELLA SUA ENTRATA IN VIGORE – INSUSSISTENZA.
In caso di pagamenti di debiti liquidi ed esigibili, compiuti nel periodo sospetto in favore dell’impresa fattorizzante,
l’esenzione di quest’ultima dall’azione revocatoria, ex art 67, comma 2 L. F., non può riguardare pagamenti
anteriori alla data di entrate in vigore della Legge 52/91 (con riferimento all’art. 6 della stessa): ciò in quanto il
sistema revocatorio fallimentare presenta caratteri di inderogabilità che non consentono di estendere l’esenzione,
in forza di disposizione sopravvenuta, a pagamenti ormai compiuti, rispetto ai quali la revocabilità, lungi dal
configurarsi come aspetto genetico perdurante nel tempo, dipende da una condizione esterna all’atto di volta in
volta considerato, onde eventuali effetti ulteriori, ricadenti nella disciplina sopravvenuta, potranno inerire al
rapporto di factoring in corso, ma non all’atto dovuto (pagamento, del debitore ceduto, poi fallito, al cessionario),
assoggettabile a revocatoria. (1)
(omissis…)
L’impostazione dei termini della questione da risolvere, se, cioè, siano revocabili nei confronti dell’impresa fattorizzante i
pagamenti compiuti dal debitore ceduto, poi dichiarato fallito, con applicazione -implicante la soluzione negativa- della
sopravvenuta disciplina dell’art. 6 della legge 52/1991, appare fondata su evidente errore. Esso è consistito -come risulta dalla
sentenza impugnata e dalla stessa prospettazione dei contrapposti argomenti fra le parti principali – nell’avere configurato i
pagamenti come fatti compiuti e la loro revocabilità in sede fallimentare come uno dei possibili effetti (dal giudice a quo
significativamente qualificati presenti) dei singoli atti revocandi: da ciò è derivata l’applicazione erronea degli stessi criteri, sottesi
alla nota tradizionale impostazione della complessa problematica sull’efficacia della legge nel tempo.
Per attingere tale conclusione, è sufficiente dimostrare l’erroneità della premessa minore del sillogismo seguito. Essendo
incontestata l’anteriorità -rispetto alla data di entrata in vigore della nuova normativa – dei pagamenti, la loro revocabilità in sede
fallimentare risulta imposta dalle peculiari esigenze della par condicio creditorum, in assenza di difetti del singolo atto, che si
configura addirittura come dovuto; la revocabilità, dunque, non solo non costituisce effetto dell’atto, ma deriva da una
circostanza sopravvenuta (insolvenza accertata), idonea ad incidere, a ritroso nel tempo (cd. periodo sospetto), sull’efficacia di
esso rispetto alla massa dei creditori. Si tratta di una condizione d’efficacia esterna all’atto, e non attinente al rapporto (di
cessione dei crediti): quest’ultimo potrà ben proseguire, esso sì con applicabilità – ricorrendone le condizioni – della normativa
sopravvenuta, estranea invece ai pagamenti compiuti entro l’anno anteriore alla dichiarazione di fallimento (e l’impiego, nell’art.
67, comma 2, legge fall., dei termini definitori propri della dottrina tradizionale sembra non del tutto casuale). Del resto, quella
premessa rivela, anche in sé considerata, elementi di contraddizione, là dove fa consistere gli effetti perduranti e, quindi,
presenti – al momento, s’intende, della domanda di revoca, – “nella diminuzione della garanzia patrimoniale della massa
dei creditori del fallito”: da un lato, confondendo fra ratio dell’inefficacia/inopponibilità della quale si discute ed effetti
dell’atto (pagamento), ravvisati – come già osservato – proprio nell’inefficacia sopravvenuta; dall’altro, non considerando che,
completandosi la fattispecie con la dichiarazione di fallimento, poiché anche questa è intervenuta anteriormente all’entrata in
vigore della nuova disciplina, non sarebbe certo facile sostenere che la considerata diminuzione della garanzia patrimoniale ai fini
della par condicio creditorum si sia realizzata sotto il regime della legge successiva.
La soluzione offerta dal giudice a quo, erronea per difetto d’impostazione, risulta d’altronde superata dalla applicazione dei
principi generali in materia di revocatoria fallimentare. Si fa riferimento allo stesso art. 67, che, dopo aver fissato la disciplina
della revocabilità degli atti a titolo oneroso, persino se dovuti (pagamenti), prevede deroghe tassative (“le disposizioni di
questo articolo non si applicano”), in particolare – per il caso qui considerato -, facendo “salve le disposizioni delle leggi
speciali”. Ed è evidente che la regola è quella della revocabilità, per la cui esclusione è richiesta una espressa deroga legislativa.
Già da questa osservazione discende l’impossibilità di applicazione cd. retroattiva – con riguardo alla obiezione mossa, in via di
rincalzo, dalla Canafin al primo mezzo di cassazione avversario -; ma, a parte ciò, la soluzione contraria alla tesi della società
fattorizzante è agevolmente ravvisabile nella formulazione dell’art. 6 comma 1 della legge 52/1991, là dove dichiara non
soggetto alla revocatoria prevista dall’art. 67 legge fall. “il pagamento compiuto dal debitore ceduto al cessionario”,
ammettendone l’esperibilità “nei confronti del cedente qualora il curatore provi che egli conosceva lo stato di insolvenza
del debitore ceduto alla data del pagamento al cessionario”. Fermo restando che il testo normativo presenta lo stesso dato
di carattere letterale più sopra sottolineato (quale il riferimento al pagamento compiuto), non sembra ragionevole una
interpretazione che escluda la revocabilità verso il fattorizzante per l’adempimento intervenuto nelle sue mani, esclusione che
pure presenta il suo riflesso nella possibilità di esperire il rimedio verso il cedente, poiché essa risulterebbe necessariamente
priva del necessario contrappeso, dal momento che non è dato ipotizzare, in corrispondenza (arg. art. 14 disp. legge in gen.), la
legittimazione sostituiva del cedente, il quale non ha ricevuto il pagamento – essendo palese che, una volta fissata la deroga, la
ragione di questa legittimazione, fondata sul vantaggio ricevuto dal cedente, è ravvisabile nell’intento di scoraggiare cessioni
quando si sia venuti a conoscenza dello stato di insolvenza del debitore ceduto -. Questi rilievi impediscono, come ben
s’intende, di spostare l’angolo visuale sul piano della valenza processuale della disciplina sopravvenuta, con conseguente
possibilità di applicazione immediata – considerazione per vero assente, in maniera, esplicita, dalle critiche espresse dalla
controricorrente Canafin, ma sottesa sostanzialmente alla difesa sul secondo mezzo di cassazione avversario, là dove si
sottolinea il carattere costitutivo dell’azione revocatoria, dall’art. 6 cit. riguardata sotto lo specifico profilo della proponibilità -,
poiché qui si versa, all’evidenza, non in materia processuale in senso stretto, sibbene in una necessaria conseguenza, di carattere
processuale, della mutata regola di ordine sostanziale. Onde, tornando alla valutazione -per così dire di riscontro- compiuta,
deve affermarsi che la revocabilità in sede fallimentare seguirà il criterio dell’art. 67, comma 2, legge fall., che identifica il
legittimato passivo nel soggetto il quale abbia concretamente ricevuto il pagamento -nel caso in esame, il cessionario-, non
potendosi fare invece riferimento alla disciplina successivamente introdotta dal ripetuto art. 6.
In conseguenza di ciò, il primo motivo del ricorso principale va accolto, con assorbimento del secondo; e tale effetto si estende
ai ricorsi incidentali, tutti relativi a questioni la cui soluzione dipende da quella che sarà per seguire all’accoglimento medesimo; in
relazione a questa, peraltro, è indispensabile l’ulteriore indagine di merito, cui dovrà attendere il giudice del rescissorio, in
applicazione del principio che segue: “In caso di pagamenti di debiti liquidi ed esigibili, compiuti nel periodo sospetto in
favore dell’impresa fattorizzante, l’esenzione di quest’ultima dall’azione revocatoria ex art. 67, comma 2, legge fall.
non può riguardare versamenti anteriori alla data di entrata in vigore della legge 52/1991 (con riferimento all’art. 6
della stessa), sulla disciplina della cessione dei crediti d’impresa: ciò in quanto il sistema revocatorio fallimentare
presenta caratteri di inderogabilità che non consentono di estendere l’esenzione, in forza di disposizione sopravvenuta,
a pagamenti ormai compiuti, rispetto ai quali la revocabilità, lungi dal configurarsi come effetto perdurare nel tempo,
dipende da una condizione esterna all’atto di volta in volta considerato, onde eventuali effetti ulteriore, ricadenti nella
disciplina sopravvenuta, potranno inerire al rapporto di factoring in corso, ma non all’atto dovuto (pagamento, ad
opera del debitore ceduto, poi fallito, al cessionario), assoggettabile a revocatoria”.
REVOCATORIA FALLIMENTARE – ENTRATA IN VIGORE DELLA L. 52/1991 – APPLICABILITA’ DEL
SUO ART. 6 AI PAGAMENTI EFFETTUATI PRIMA DELLA SUA ENTRATA IN VIGORE – NEGAZIONE –
di Andrea Pietrolucci
(1) La Suprema Corte è giunta alla decisione di cui alla massima qui in commento partendo da una considerazione di base: la
revocabilità di un atto, nella specie il pagamento di un debito, non costituisce un effetto intrinseco all’atto stesso a livello
genetico, ma deriva da una circostanza esterna e sopravvenuta (l’insolvenza accertata), idonea da sola ad incidere, a ritroso nel
tempo (c.d. periodo sospetto), sull’efficacia di esso rispetto alla massa dei creditori.
La revocabilità di un atto dipende, del resto, essenzialmente dall’esigenza di assicurare “la par condicio creditorum”, che è una
condizione di efficacia esterna all’atto e non attinente al rapporto. Tale esigenza si verifica non nel momento in cui viene
proposta l’azione revocatoria fallimentare, ma nel momento in cui viene accertata, con sentenza, l’insolvenza del debitore.
La Suprema Corte, in forza del principio di cui sopra, ha così rigettato la tesi sostenuta dalla ricorrente, che si basava sul
considerare la revocabilità dell’atto come uno dei possibili effetti intrinseci dello stesso, presenti dalla sua sottoscrizione e fino al
momento della proposizione dell’azione revocatoria e, come tale, disciplinabile dalla normativa sopravvenuta, ex art. 11 delle
Preleggi, la quale può essere applicata agli effetti non esauriti di un rapporto giuridico, seppure sorto anteriormente.
Tale tesi si basava sulla natura costitutiva dell’azione revocatoria fallimentare, la quale comporta che gli effetti della sentenza
retroagiscono (solo) al momento della proposizione della domanda.
Essendo stata proposta la domanda sotto la vigenza della nuova normativa introdotta dalla legge 52/1991, il cui art. 6 esonera
dalla revocatoria fallimentare il pagamento effettuato nei confronti del cessionario, essa doveva, quindi, trovare applicazione, in
base al noto principio, vigente in materia processuale, tempus regit actum, con conseguente estromissione del cessionario dal
giudizio, per carenza di legittimazione processuale passiva.
Il contrario assunto della Suprema Corte appare ben costruito e motivato, anche se, argomentando a contrariis, proprio in
base ai principi richiamati nella sentenza in commento, rimane nell’estensore il dubbio che la tesi rigettata dalla Corte avrebbe
potuto avere ulteriore conforto attraverso ulteriori e correlate argomentazioni. Argomentazione che, per il loro dichiarato
carattere di mero spunto di riflessione, si ritiene opportuno riportare in nota.
Si ritiene, infatti, più utile ripercorrere, nel seguito di questo breve lavoro, gli aspetti principali (accolti e rigettati) dal
ragionamento sviluppato dalla Corte.
Partendo dai principi generali del nostro ordinamento ed, in particolare, dagli artt. 11 e 14 delle disposizioni sulla legge in
generale, si possono svolgere le seguenti brevi considerazioni.
L’art. 11 stabilisce che: “La legge non dispone che per l’avvenire: essa non ha effetto retroattivo”, c.d. principio di
irretroattività della legge.
Tale principio preclude l’applicazione della legge nuova sia ai rapporti giuridici anteriori alla sua entrata in vigore e già esauriti,
che a quelli sorti anteriormente ed ancora in vita, qualora comporti modificazioni tali che incidano sostanzialmente sul “rapporto
giuridico” che intendono disciplinare. Tale principio, secondo la Suprema Corte, appare applicabile al caso di specie e ciò per
due ordini di motivi.
In primo luogo, occorre sottolineare che, analizzando la fattispecie, emerge che sia la cessione del credito che il pagamento che,
infine, la dichiarazione di fallimento (momento che dichiara l’insolvenza del debitore e la conseguente esigenza di assicurare la
“par condicio creditorum”) sono intervenuti prima dell’entrata in vigore della normativa sulla cessione dei crediti di impresa
contenuta nella L. 52 del 1991.
Il rapporto giuridico, quindi, o meglio l’atto, per seguire l’impostazione della Suprema Corte, su cui dovrebbe incidere la nuova
legge, aveva già esaurito i propri effetti, in quanto il pagamento era addirittura “dovuto”.
Se si ammettesse l’applicazione di tale norma al caso concreto si verrebbe, quindi, a violare proprio il principio della
irretroattività della legge contenuto nell’art. 11 delle Preleggi.
In secondo luogo, l’art. 6 della legge 52/1991, stabilendo che l’azione revocatoria, ex art. 67 L.F., può essere proposta nei
confronti del cedente qualora il curatore provi che egli conosceva lo stato di insolvenza del debitore ceduto alla data del
pagamento al cessionario, istituisce un’azione nei confronti del cedente che prima della sua entrata in vigore non esisteva.
Crea, quindi, una nuova legittimazione e la regola della legittimazione, si sa, è data dal diritto sostanziale, e non processuale.
Infatti, nel momento in cui il cessionario ha ricevuto il pagamento non si rinveniva nel nostro ordinamento alcuna norma che
imponesse al cedente di sopportare i rischi di insolvenza del debitore ceduto e che prevedesse la possibilità, per il curatore, di
agire in revocatoria nei suoi confronti. A ben vedere, quindi, alla fattispecie che si sta analizzando non sarebbe nemmeno
applicabile il principio, che vige in ambito processuale, tempus regit actum, in quanto la regola contenuta nell’art. 6 della legge
n. 52/91 sarebbe di natura sostanziale.
Inoltre, l’art. 14 delle preleggi, stabilendo che “le leggi penali e quelle che fanno eccezione a regole generali o ad altre
leggi non si applicano oltre i casi e i tempi in esse considerati”, offre una ulteriore argomentazione giuridica per giungere alla
esclusione, nella fattispecie analizzata, dell’applicazione della normativa contenuta nell’art. 6 della legge 52/1991.
Infatti, l’art. 6 della L. 52/1991 stabilisce che “il pagamento compiuto dal debitore ceduto al cessionario non è soggetto
alla revocatoria prevista dall’articolo 67″ della L.F.. La locuzione “pagamento compiuto”, contenuta nella norma, dovrebbe
interpretarsi, proprio in base ai noti principi contenuti nell’art. 14 delle preleggi sopra richiamati, come pagamento effettuato
sotto il vigore della normativa che si intende applicare. Nel caso di specie, invece, il pagamento è stato compiuto in un periodo
antecedente all’entrata in vigore della legge di cui si invoca l’applicazione.
Si dovrebbe giungere alle stesse conclusioni, sottende la Corte, anche partendo dall’analisi della ratio sottesa all’art. 6 della L.
n. 52/1991, con riferimento alle norme in materia fallimentare.
Occorre, prima di tutto, sottolineare un aspetto che potrebbe sfuggire. La norma citata non contiene un’esenzione dalla revoca
e, quindi, non va ad allungare la lista delle esenzioni dall’impugnativa contenuta nell’ultimo comma dell’art. 67 L.F., ma prevede
una “deviazione” dell’impugnativa, cioè si limita a deviarne gli effetti su di un altro soggetto, che poi è il destinatario sostanziale
della prestazione impugnata. Si è voluto, in tal modo, colpire il beneficiario ultimo della prestazione effettuata dal fallito e, cioè, il
soggetto che ha immesso il credito sul mercato, assumendo su di sé il rischio di un eventuale inadempimento del debitore.
Inoltre, avendo attribuito rilevanza allo stato soggettivo del cedente (conoscenza da parte dello stesso dello stato di insolvenza
del debitore ceduto) nel contempo si è voluta scoraggiare le cessione di crediti c.d. “sospetti”: vale dire di quei crediti che
vengono ceduti proprio in considerazione della difficoltà del loro adempimento.
Tale aspetto è stato colto dalla Suprema Corte, laddove ha affermato che non sarebbe prevista in questo caso, proprio
argomentando ex art. 14 delle preleggi, “una legittimazione passiva sostitutiva del creditore cedente, il quale non ha
ricevuto il pagamento – essendo palese che, una volta fissata la deroga, la ragione di questa legittimazione, fondata sul
vantaggio ricevuto dal cedente, è ravvisabile nell’intento di “scoraggiare cessioni quando si sia venuti a conoscenza
dello stato di insolvenza del debitore ceduto”, lasciando sottendere che se tale norma trovasse applicazione al caso di
specie, si creerebbe un’ingiustificato vuoto di tutela delle ragioni dei creditori del debitore fallito.
Secondo la Suprema Corte, quindi, proseguendo nel ragionamento, anche argomentando dalla lettera dell’art. 67, comma 2, L.
Fall., si evince come il soggetto verso cui si agisce in revocatoria è colui che ha, concretamente, ricevuto il pagamento ed, in
questo caso, il cessionario, non potendosi fare riferimento alla disciplina successivamente introdotta dal citato art. 6, per i motivi
di cui sopra.
Secondo un’autorevole dottrina, inoltre, nei casi di attribuzione indiretta, per stabilire chi sia il vero destinatario dell’atto non
basta seguire le vicende traslative del credito, ma occorre accertare se la cessione abbia avuto natura speculativa – con il
conseguente trasferimento dei rischi inerenti all’insolvenza del debitore ceduto – o non si inquadri, invece, in una più vasta
operazione di carattere gestorio. Solo nel primo caso la revoca – dovrebbe dirigersi verso il cessionario; mentre nel secondo, gli
effetti della impugnativa non possono non ricadere – quale che sia la strada prescelta, e cioè: in via diretta o tramite un’azione di
rivalsa – sul creditore originario.
Con tale legge, infatti, si è cercato di trovare un punto di incontro tra le esigenze delle imprese che svolgono professionalmente
l’attività di gestione dei crediti e le esigenze sottese alla disciplina fallimentare. Se si facessero convergere, infatti, tutte le
revocatorie su coloro che si interpongono professionalmente sui pagamenti, si finirebbe col concentrare su pochi operatori i
rischi inerenti alla crisi di determinati settori del mercato, mentre lo scopo della revocatoria è proprio quello opposto, di rendere
più sopportabili le perdite derivanti dalla insolvenza, ridistribuendole su una più vasta gamma di soggetti. L’art. 6 della legge sulla
cessione dei crediti di impresa, infatti, parte dal presupposto che l’attività posta in essere dall’intermediario si svolge
nell’interesse del cliente e, quindi, fa ricadere su quest’ultimo le conseguenze indotte dalla sopravvenuta insolvenza del debitore,
purché i sintomi del dissesto si siano manifestati, e siano stati concretamente conosciuti, prima dell’estinzione del rapporto
obbligatorio .
In conclusione, se tale è lo scopo della L. 52/1991, la decisione della Suprema Corte, la quale ha escluso l’applicabilità al caso
concreto della disciplina contenuta nel suo art. 6, appare coerente con lo spirito della legge citata, anche se permane nel
redattore qualche dubbio sulla pronunciata non applicazione della normativa sopravvenuta.
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