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GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE – Sull’applicabilità dell’art. 10 al socio illimitatamente responsabile receduto e dalla società di capitali cancellata – Numero unico 2000 – Pag. 50

 
 

con nota di A. Ferretti – I Corte Costituzionale – Sent. 12 Marzo 1999 n. 66 – Pres. Granata – Rel. Marini
FALLIMENTO – SOCIETA’ DI PERSONE – FALLIMENTO DELLA SOCIETA’ – ESTENSIONE AI SOCI ILLIMITATAMENTE RESPONSABILI ANCHE SUCCESSIVAMENTE ALLA PERDITA DELLA LORO QUALITA’ – MANCANZA DI UN LIMITE TEMPORALE – DISPARITA’ DI TRATTAMENTO RISPETTO ALLA DISCIPLINA PREVISTA PER L’IMPRENDITORE – NON FONDATEZZA NEI SENSI DI CUI IN MOTIVAZIONE. (artt.10, 11 e 147, RD 267/1942)
E’ infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 147 legge fallimentare, in relazione agli artt. 10 e 11 legge fallimentare, sollevata in riferimento all’art. 3 Cost., dovendo tale disposizione interpretarsi nel senso che a seguito della dichiarazione di fallimento della società e di quella dei soci illimitatamente responsabili defunti o per i quali sia cessato il vincolo sociale, può disporsi l’apertura di detta procedura concorsuale soltanto entro il termine di un anno a decorrere da tali eventi.
II
Corte Costituzionale – Sent. 11-21 Luglio 2000 n. 319 – Pres. Mirabelli – Rel. Marini
FALLIMENTO – DICHIARAZIONE DI FALLIMENTO DELLA SOCIETA’ – TERMINE DI UN ANNO DALLA CESSAZIONE DELL’ESERCIZIO – DECORRENZA – DALLA CANCELLAZIONE DELLA SOCIETA’ DAL REGISTRO DELLE IMPRESE – MANCATA PREVISIONE – ILLEGITTIMITA’ COSTITUZIONALE (art. 10, RD 267/1942)
FALLIMENTO – FALLIMENTO DELLA SOCIETA’ – DICHIARAZIONE DI FALLIMENTO DEI SOCI A RESPONSABILITA’ LIMITATA – DOPO IL DECORSO DI UN ANNO DAL MOMENTO IN CUI ESSI ABBIANO PERSO LA RESPONSABILITA’ ILLIMITATA – ILLEGITTIMITA’ COSTITUZIONALE (art. 147, comma 1, RD 267/1942)
E’ illegittimo l’art. 10 del R.D. 16 marzo 1942, n. 267 (Disciplina del fallimento, del concordato preventivo, della amministrazione controllata e della liquidazione coatta amministrativa), nella parte in cui non prevede che il termine di un anno dalla cessazione dell’esercizio dell’impresa collettiva per la dichiarazione di fallimento della società decorra dalla cancellazione della società stessa dal registro delle imprese.
E’ illegittimo l’art. 147, primo comma, del R.D. 16 marzo 1942 n. 267 (Disciplina del fallimento, del concordato preventivo, della amministrazione controllata e della liquidazione coatta amministrativa), nella parte in cui prevede che il fallimento dei soci a responsabilità illimitata di società fallita possa essere dichiarato dopo il decorso di un anno dal momento in cui essi abbiano perso, per qualsiasi causa, la responsabilità limitata.
I
Nei giudizi di legittimità costituzionale dell’art. 147, primo e secondo comma, del Regio Decreto 16 marzo 1942, n. 267 (Disciplina del fallimento, del concordato preventivo, dell’amministrazione controllata e della liquidazione coatta amministrativa), promossi con ordinanze emesse: 1) il 15 ottobre 1997 dal Tribunale di Roma nel procedimento civile Gentile Orazio contro Fallimento Mauro Tomassini Motors s.a.s. ed altri, iscritta al n. 306 del registro ordinanze 1998 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della repubblica n. 18, prima serie speciale, dell’anno 1998; 2) il 18 giugno 1998 dal Tribunale di Roma nel procedimento civile Merlini Miria ed altra contro Masi Giuseppe ed altri, iscritta al n. 775 del registro ordinanze 1998 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 42, prima serie speciale, dell’anno 1998. (omissis)
Ritenuto in fatto
1. Nel corso di un giudizio di opposizione ad una dichiarazione di fallimento il Tribunale di Roma, con ordinanza del 15 ottobre 1997, ha sollevato questione di legittimità costituzionale, in riferimento all’art. 3, primo comma, della Costituzione, dell’art. 147, primo comma, del Regio Decreto 16 marzo 1942, n. 267 (Disciplina del fallimento, del concordato preventivo, dell’amministrazione controllata e della liquidazione coatta amministrativa), in relazione all’art. 11, primo comma, dello stesso Regio Decreto “nella parte in cui prevede che la sentenza che dichiara il fallimento della società con soci a responsabilità illimitata produce il fallimento anche del socio (illimitatamente responsabile) defunto, pur dopo che sia decorso un anno dalla morte.”.
1.1. Premessa la rilevanza della questione – in quanto l’opposizione, avente ad oggetto la declaratoria di fallimento di un socio accomandatario di società in accomandita semplice, intervenuta oltre un anno dalla morte di costui, si fonda proprio sulla asserita non assoggettabilità al fallimento del socio illimitatamente responsabile deceduto da oltre un anno, ai sensi degli artt. 10 e 11 della legge fallimentare (r.d. n. 267 del 1942) – il rimettente rileva innanzitutto che, per consolidata giurisprudenza, il fallimento del socio illimitatamente responsabile discende automaticamente dal fallimento della società e prescinde da qualsiasi accertamento, nei suoi confronti, dei presupposti previsti dagli artt. 1 e 5 della legge fallimentare. La ratio del fallimento del socio illimitatamente responsabile di una società di persone si rinverrebbe dunque non già in una sua ipotetica qualità di imprenditore (o coimprenditore) commerciale, ma solo nell’esigenza di realizzare la garanzia costituita dal patrimonio del socio con le modalità (quelle, appunto, della procedura fallimentare) ritenute dal legislatore più idonee a tutelare la massa creditoria.
1.2. Osserva ancora il giudice a quo che la prevalente giurisprudenza esclude l’applicabilità, alla fattispecie disciplinata dall’art.147 della legge fallimentare, del termine di un anno previsto dagli artt. 10 e 11 della medesima legge riguardo al fallimento dell’imprenditore individuale defunto o che comunque abbia cessato l’attività di impresa. Con la conseguenza che il socio illimitatamente responsabile sarebbe assoggettato senza alcun limite di tempo al fallimento, pur dopo la morte o la perdita, per qualsiasi causa, della qualità di socio, all’unica condizione che l’insolvenza della società si riferisca ad obbligazioni contratte prima dello scioglimento, nei suoi confronti, del rapporto sociale.
1.3. La norma, così interpretata, determinerebbe, ad avviso del rimettente, una disparità di trattamento tra l’imprenditore individuale cessato o defunto ed il socio illimitatamente responsabile di una società di persone cessato o defunto, in quanto, mentre il primo potrebbe essere dichiarato fallito solamente entro l’anno dalla cessazione dell’attività di impresa, il secondo resterebbe soggetto al fallimento senza alcun limite temporale.
Siffatta disparità di trattamento contrasterebbe, secondo il giudice a quo, con il principio di eguaglianza in quanto le due situazioni, poste a confronto, presenterebbero quali essenziali tratti comuni: l’esercizio di impresa commerciale, in forma individuale o collettiva; la responsabilità illimitata per le obbligazioni conseguenti; la cessazione dell’esercizio o della partecipazione all’esercizio dell’impresa; il permanere della responsabilità illimitata per le obbligazioni inerenti all’impresa commerciale.
Mentre non varrebbero a legittimare la denunciata diversità di disciplina gli elementi di differenziazione delle due fattispecie e precisamente: l’essere l’impresa esercitata in un caso in forma individuale e nell’altro in forma collettiva; il non avere il socio la qualità di imprenditore commerciale; il permanere dell’impresa, dopo lo scioglimento del rapporto sociale limitatamente al socio, a fronte del venir meno dell’impresa dopo la cessazione dell’esercizio da parte dell’imprenditore individuale o dopo la morte di questo.
1.4. E’ intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, il quale ha concluso per la declaratoria di inammissibilità e infondatezza della questione.
Rileva la difesa erariale che identica questione è già stata dichiarata da questa Corte manifestamente infondata, con ordinanza n. 919 del 1988, sul rilievo che la posizione del socio illimitatamente responsabile non sarebbe comparabile, in tema di fallimento, a quella dell’imprenditore individuale, in quanto il fallimento del socio è pronunciato in via di estensione del fallimento della società, mentre il fallimento dell’imprenditore individuale consegue ad una autonoma dichiarazione.
2. Con altra ordinanza, del 18 giugno 1998, di contenuto sostanziale identico, lo stesso giudice ha sollevato questione di legittimità costituzionale, sempre in riferimento all’art. 3, primo comma, della Costituzione, “dell’art. 147, commi 1 e 2, r.d. 16 marzo 1942, n. 267, in relazione all’art. 10 stesso r.d., nella parte in cui prevedono che, in caso di fallimento della società con soci a responsabilità illimitata, deve essere dichiarato, contestualmente o successivamente, il fallimento anche del socio illimitatamente responsabile, che abbia ceduto la sua quota, pur dopo che sia decorso un anno dalla iscrizione della cessione nel registro delle imprese.”.
Considerato in diritto
1. I due giudizi, avendo ad oggetto questioni sostanzialmente identiche, possono essere riuniti per essere definiti con unica sentenza.
2. La questione non è fondata, nei sensi di seguito precisati.
3. Il rimettente mostra di condividere – pur dubitando della sua legittimità costituzionale – una interpretazione dell’art. 147 del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267 (Disciplina del fallimento, del concordato preventivo, dell’amministrazione controllata e della liquidazione coatta amministrativa), secondo cui i soci illimitatamente responsabili delle società di persone resterebbero soggetti al fallimento in via di estensione del fallimento della società anche successivamente alla perdita per qualunque causa (morte, recesso, esclusione, cessione della quota) della loro qualità di soci. E ciò senza alcuna limitazione di ordine temporale ed all’unica condizione che l’insolvenza della società riguardi obbligazioni da questa contratte prima dello scioglimento del rapporto sociale.
Sarebbe, pertanto, evidente la disparità di trattamento tra il socio illimitatamente responsabile e l’imprenditore che, nel caso di morte o di cessazione, per qualunque causa, dell’esercizio dell’impresa può, invece, ai sensi degli artt. 10 e 11 della legge fallimentare, essere dichiarato fallito solo entro un anno dalla cessazione dell’impresa. Disparità che, secondo quanto ritenuto dal rimettente, risulterebbe priva di ragionevole giustificazione e, pertanto, lesiva dell’art. 3 della Costituzione.
4. La interpretazione sulla cui base il rimettente solleva la questione di costituzionalità non è, tuttavia, la sola compatibile con il resto e la ratio della disposizione denunciata alla quale, come si vedrà, è possibile attribuire un significato coerente con il rispetto dei precetti costituzionali e che, perciò stesso, non solo può, ma deve essere preferito dall’interprete (v. sentenze nn. 307 del 1996, 296 del 1995 e 149 del 1994; ordinanza n. 188 del 1998).
5. E’ noto che nel sistema della legge fallimentare la dichiarazione di fallimento presuppone la qualità di imprenditore commerciale.
La possibilità, prevista negli artt. 10 e 11 della legge fallimentare, del fallimento dell’imprenditore commerciale defunto o che per altra causa abbia cessato l’esercizio dell’impresa non risulta, a ben vedere, inconciliabile con tale presupposto, ma ne costituisce un necessario corollario essendo volta ad evitare, come è stato rilevato, che quella tutela dei creditori che la procedura fallimentare è diretta ad assicurare sia rimessa alla mercé della volontà di chi vi è sottoposto o al caso.
L’assoggettabilità a fallimento dell’imprenditore cessato o defunto postula, tuttavia, in applicazione del generale principio di certezza delle situazioni giuridiche, la fissazione di un limite temporale entro cui debba seguire la dichiarazione di fallimento. Limite nella specie tanto più necessario considerando le conseguenze che dalla declaratoria di fallimento discendono non solo per chi ne è colpito, ma anche per i terzi che con lui siano entrati in rapporto.
Si spiega allora come il legislatore, nei citati artt. 10 e 11 della legge fallimentare, operando un bilanciamento tra le opposte esigenze di tutela dei creditori e di certezza delle situazioni giuridiche, abbia fissato in un anno dalla cessazione dell’impresa il termine entro il quale può essere dichiarato il fallimento dell’imprenditore cessato o defunto.
6. L’art. 147 della legge fallimentare prevede in generale il fallimento del socio illimitatamente responsabile della società commerciale di persone in estensione del fallimento della società. La giurisprudenza – come ricorda il rimettente – è infatti univocamente orientata nel senso che la dichiarazione di fallimento del singolo socio discende dal fallimento della società e prescinde dalla sussistenza, in capo a costui, dei presupposti di cui agli artt. 1 e 5 della stessa legge, che vanno accertati solo nei confronti della società.
Ritiene altresì la prevalente giurisprudenza che il fallimento della società comporti il fallimento anche degli ex soci, sempreché l’insolvenza della società si riferisca ad obbligazioni da questa contratte prima dello scioglimento del rapporto sociale.
Al riguardo, non sembra possa dubitarsi che l’affermata assoggettabilità al fallimento dei soci cessati o defunti – a prescindere dalle differenti opinioni dottrinali e giurisprudenziali sul suo più preciso fondamento normativo – costituisca comunque espressione di quella medesima esigenza di tutela dei creditori alla quale rispondono le norme degli artt. 10 e 11 della legge fallimentare riguardo all’imprenditore individuale.
L’ammissibilità del fallimento dell’ex socio deve essere, tuttavia, circoscritta entro un rigoroso limite temporale proprio al fine di non pregiudicare, come si è detto precedentemente, l’interesse generale alla certezza delle situazioni giuridiche.
Tale limite, non risultando fissato dall’art. 147, deve essere rinvenuto all’interno del sistema della stessa legge fallimentare e precisamente nella norma dettata dagli artt. 10 e 11 che, in considerazione della sua ratio, assume una portata generale ed è, in quanto tale, applicabile anche al fallimento degli ex soci.
Sicché, e conclusivamente, può affermarsi che la disposizione denunciata va interpretata nel senso che, a seguito del fallimento della società commerciale di persone, il fallimento dei soci illimitatamente responsabili defunti o rispetto ai quali sia comunque venuta meno l’appartenenza alla compagine sociale può essere dichiarato solo entro il termine, fissato dagli articoli 10 e 11 della legge fallimentare, di un anno dallo scioglimento del rapporto sociale.
Così interpretata, la norma si sottrae alla censura di incostituzionalità.
Per questi motivi
la Corte costituzionale
riuniti i giudizi, dichiara non fondata, nei sensi di cui in motivazione, la questione di legittimità costituzionale dell’art. 147, primo e secondo comma, del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267 (Disciplina del fallimento, del concordato preventivo, dell’amministrazione controllata e della liquidazione coatta amministrativa), sollevata, in riferimento all’art. 3, primo comma, della Costituzione, dal Tribunale di Roma con le ordinanze indicate in epigrafe.
II
Nei giudizi di legittimità costituzionale dell’articolo 147, primo e secondo comma, del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267, in relazione all’articolo 10 dello stesso regio decreto; dell’articolo 147 regio decreto 16 marzo 1942, n. 267; degli articoli 10 e 147, primo e secondo comma, del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267 (Disciplina del fallimento, del concordato preventivo, dell’amministrazione controllata e della liquidazione coatta amministrativa), promossi con ordinanze emesse il 16 luglio 1999 dal Tribunale di Palermo, il 13 maggio 1999 dal Tribunale di Milano e il 5 ottobre 1999 dal Tribunale di Bologna rispettivamente iscritte al n. 724 del registro ordinanze 1999 ed ai nn. 87 e 25 del registro ordinanze 2000 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica nn. 2, 6 e 22, prima serie speciale, dell’anno 2000.
Visti gli atti di costituzione di Dalle Carbonare Sante ed altri e del Fallimento TREVITEX S.p.A. ed altri nonché gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei Ministri;
udito nell’udienza pubblica del 20 giugno 2000 e nella camera di consiglio del 21 giugno 1000 il Giudice relatore Annibale Marini;
uditi gli avvocati Francesco Barilà per Dalle Carbonare Sante ed altri, Gian Piero Rausse e Pietro Guerra per il Fallimento TREVITEX S.p.A. ed altri e l’avvocato dello Stato Giuseppe Fiengo per il Presidente del Consiglio dei ministri.
Ritenuto in fatto
1. Il Tribunale di Palermo, con ordinanza emessa il 16 luglio 1999, ha sollevato, in riferimento all’art. 3, primo comma, della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 147, primo e secondo comma, del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267 (Disciplina del fallimento, del concordato preventivo, della amministrazione controllata e della liquidazione coatta amministrativa), in relazione all’art. 10 dello stesso regio decreto, nella parte in cui prevedono che la sentenza che dichiara il fallimento dei soci illimitatamente responsabili che abbiano perduto tale qualità per effetto della trasformazione della società, pur dopo che sia trascorso un anno dalla iscrizione della modifica nel registro delle imprese.
Premessa la rilevanza della questione – avendo il giudizio a quo ad oggetto l’opposizione ad una sentenza dichiarativa di fallimento in estensione pronunciata dal Tribunale di Palermo nei confronti di un socio che, a seguito della trasformazione del tipo sociale, non era più da oltre un anno illimitatamente responsabile – il rimettente rileva che il fallimento è stato pronunciato in conformità al principio, costantemente affermato dalla giurisprudenza di legittimità, secondo cui la trasformazione di una società non comporta l’estinzione di un soggetto e la creazione di un altro, bensì la semplice modifica della struttura e dell’organizzazione societaria che lascia immutata l’identità soggettiva dell’ente ed i rapporti giuridici ad esso facenti capo e che mantiene inalterata, ad ogni effetto, per le obbligazioni sociali anteriori alla trasformazione, la responsabilità illimitata dei soci derivante dal precedente assetto giuridico.
Ed il permanere di siffatta responsabilità comporterebbe, di conseguenza, secondo la giurisprudenza prevalente, nel caso di fallimento della società trasformata, il fallimento dei soci già illimitatamente responsabili ai sensi dell’art. 147 della legge fallimentare.
Osserva tuttavia il giudice a quo che con sentenza n. 66 del 1999 questa Corte ha affermato – in contrasto con l’orientamento fino ad allora consolidato della giurisprudenza di legittimità – che gli artt. 10 e 11 della legge fallimentare, secondo i quali il fallimento dell’imprenditore individuale può essere dichiarato solamente entro l’anno dal decesso e dalla cessazione dell’attività di impresa, esprimono un principio di carattere generale e vanno perciò interpretati nel senso che anche il fallimento dei soci illimitatamente responsabili defunti o cessati può essere dichiarato, in conseguenza del fallimento della società, solamente entro il termine di un anno dallo scioglimento del rapporto sociale.
Il principio affermato nella sentenza non potrebbe tuttavia – ad avviso del rimettente – essere direttamente applicato in via interpretativa a fattispecie diverse da quelle specificamente prese in esame nella sentenza stessa.
Residuerebbe pertanto una ingiustificata disparità di trattamento tra l’imprenditore individuale o il socio illimitatamente responsabile cessato o defunto, la cui dichiarazione di fallimento può avvenire solamente entro il termine previsto dagli artt. 10 e 11 della legge fallimentare, ed il socio di società trasformata che, pur avendo perduto la responsabilità illimitata per effetto della trasformazione della società, resta tuttavia soggetto al fallimento senza alcun limite di tempo.
1.1 E’ intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, concludendo per la declaratoria di inammissibilità e infondatezza della questione.
Ad avviso dell’Avvocatura la questione sollevata dal Tribunale di Palermo sarebbe infatti identica a quelle già dichiarate manifestamente infondate da questa Corte con l’ordinanza n. 919 del 1998 e con la sentenza n. 66 del 1999.
2. Il Tribunale di Milano, con ordinanza emessa il 13 maggio 1999, ha sollevato, senza esplicito riferimento ad alcun parametro, questione di legittimità costituzionale della stessa norma “nella parte in cui non contiene la precisazione di un termine ragionevole entro il quale può essere dichiarato il fallimento dei soci illimitatamente responsabili dopo che essi hanno perso tale qualità a seguito della trasformazione del tipo sociale”.
Illustrata la rilevanza della questione – avendo il giudizio a quo ad oggetto, anche in tal caso, l’opposizione al fallimento pronunciato nei confronti di soci già illimitatamente responsabili dopo il decorso dell’anno dalla iscrizione della trasformazione del tipo sociale nel registro delle imprese e dalla dichiarazione di fallimento della società – il rimettente muove a sua volta dalla sentenza n. 66 del 1999 ed osserva che le indubbie differenze esistenti tra l’ipotesi del recesso del socio e quella della trasformazione della società non sembrano tali da giustificare una disparità di trattamento nei due casi quanto alla soggezione al fallimento dei soci.
Rileva, tuttavia, che il diritto vivente esclude che l’art. 10 della legge fallimentare possa essere applicato anche all’imprenditore collettivo e tale orientamento giurisprudenziale sarebbe stato perentoriamente avallato dalla Corte costituzionale con l’ordinanza n. 180 del 1998, escludendo profili di incostituzionalità nella disparità di trattamento che si viene in tal modo a creare tra imprenditore individuale e imprenditore collettivo.
Se dunque l’art. 10 della legge fallimentare non si applica alle società, dovrebbe conseguentemente escludersi – ad avviso del rimettente – che esso possa essere assunto a principio generale riguardo ai soci, il cui fallimento discende dal fallimento della società. Tanto più che l’art. 147, secondo comma, della legge fallimentare prevede espressamente l’ipotesi che la posizione di socio illimitatamente responsabile emerga dopo la dichiarazione di fallimento della società, senza porre alcun limite di tempo al sopravvenire della pronuncia estensiva.
La mancata previsione di un ragionevole limite temporale per l’estensione del fallimento al socio, con riferimento sia al momento della perdita della responsabilità illimitata sia al momento della dichiarazione di fallimento della società, suscita tuttavia, secondo il rimettente, dubbi di costituzionalità, in quanto lascia indefinitamente aperta l’assoggettabilità del socio alla procedura concorsuale, dando luogo ad una sperequazione inaccettabile rispetto alla posizione dell’imprenditore individuale e ledendo l’interesse generale alla certezza delle situazioni giuridiche.
La soluzione interpretativa non sarebbe d’altro canto praticabile, sia per le già evidenziate perplessità riguardo alla generalizzata applicazione dell’art. 10 al fallimento dei soci, sia e soprattutto perché il termine di un anno, previsto dalla norma citata, risulterebbe – ad avviso dello stesso rimettente – irragionevolmente breve se applicato al meccanismo estensivo del fallimento ai soci che hanno perso la responsabilità illimitata in epoca anteriore alla dichiarazione del fallimento sociale e determinerebbe, nel sistema, disarmonie non tollerabili alla luce degli artt. 3, 24 e 97 della Costituzione.
2.1 E’ intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, mediante atto di contenuto analogo al precedente.
2.2 Si sono costituiti altresì in giudizio Sante, Sebastiano e Pietro Dalle Carbonare, attori nel giudizio a quo, concludendo per la declaratoria di infondatezza della questione, in quanto – ad avviso delle predette parti private – dovrebbe nella specie farsi diretta applicazione dei principi enunciati nella sentenza n. 66 del 1999.
2.3 Si sono costituiti altresì in giudizio i fallimenti Trevitex S.p.A. in liquidazione, Dalle Carbonare Sante, Dalle Carbonare Pietro Aldo e Dalle Carbonare Sebastiano, convenuti nel giudizio di opposizione al fallimento.
Ad avviso delle predette parti private tra le vicende della morte o della perdita della qualità di socio, da un lato, e quella della trasformazione della società, dall’atro, sussistono, diversamente da quanto il Tribunale rimettente assume, differenze tali da giustificare la diversità di disciplina quanto all’assoggettabilità al fallimento. Nel primo caso, infatti, si tratta di eventi che attengono alla sfera personale del socio e determinano il venir meno della stessa appartenenza alla compagine sociale; nel secondo caso l’evento incide sulla vita della società e produce, quale conseguenza, la mera modifica dello statuto del partecipante, il quale mantiene, comunque, la qualità di socio.
Le esigenze di equità che sembrano essere, tra le altre, alla base della sentenza n. 66 del 1999 non ricorrerebbero, poi, nella fattispecie della trasformazione sociale, in quanto la permanenza dei soci, già illimitatamente responsabili, nella compagine sociale pur diversamente strutturata varrebbe ad escludere il rischio che l’assoggettamento alla procedura colpisca, come avviene nel caso di fallimento dell’ex socio, un soggetto ormai estraneo da anni alla vita della società.
Nemmeno ricorrerebbero, nella ipotesi di trasformazione, le esigenze di certezza dei rapporti giuridici alla quali fa riferimento la sentenza in questione, proprio in quanto farebbe difetto, in questo caso, un evento che tronchi la relazione tra il socio e la società, rendendo opportuna la fissazione di un termine oltre il quale non sia più possibile provocare il fallimento dell’ex socio illimitatamente responsabile.
Ulteriore significativa diversità tra le due ipotesi sarebbe poi rappresentata dal fatto che, nel caso di trasformazione della società, il persistere della responsabilità illimitata dei soci non è automatico – come nel caso di cessazione del rapporto sociale – ma subordinato, ai sensi dell’art. 2499 cod. civ., alla mancata liberazione da parte dei creditori, alla quale dovrebbe dunque attribuirsi il valore di una manifestazione di volontà diretta a tener ferma la fattibilità dei soci senza limiti temporali.
Le parti private osservano quindi che la giurisprudenza di legittimità è consolidata nel senso di ritenere l’art. 10 della legge fallimentare inapplicabile all’ipotesi di fallimento dei soci già illimitatamente responsabili di una società di persone trasformata in società di capitali e che la tesi favorevole all’estensione è assai contrastata in dottrina.
Rilevano inoltre che con l’ordinanza n. 180 del 1998 la stessa Corte costituzionale ha escluso l’illegittimità dell’art. 10 della legge fallimentare nella parte in cui, secondo l’interpretazione prevalente, esige la liquidazione di ogni rapporto passivo per affermare la cessazione dell’impresa collettiva ed esentarla dal fallimento. Tale pronuncia, ad avviso delle medesime parti private, non si pone in contrasto con la successiva sentenza n. 66 del 1999 proprio per la netta distinzione che deve operarsi tra l’ipotesi di cessazione del rapporto sociale relativamente al socio illimitatamente responsabile di società di persone, avente in quanto tale la veste di coimprenditore, e l’ipotesi di cessazione dell’imprenditore collettivo.
Concludono quindi le parti private, in via principale, per una declaratoria di infondatezza della questione che escluda altresì l’applicabilità al caso di specie del principio affermato nella sentenza n. 66 del 1999; in via subordinata, chiedono che la Corte, con sentenza interpretativa, accerti che il termine di assoggettamento a fallimento per ripercussione non possa incominciare a decorrere prima che venga interrotto dal deposito della domanda di estensione del fallimento al socio già illimitatamente responsabile.
3. Il Tribunale di Bologna, con ordinanza emessa il 5 ottobre 1999, ha sollevato, in riferimento all’art. 3 Cost., questione di legittimità costituzionale degli artt. 10 e 147, primo e secondo comma, della legge fallimentare, “in quanto tali norme impongono il fallimento delle società di persone e dei loro soci illimitatamente responsabili senza limiti di tempo, anche dopo la cancellazione dal registro delle imprese, a fronte del termine di preclusione annuale viceversa previsto per l’imprenditore individuale che abbia cessato la propria attività d’impresa”.
Premessa la rilevanza della questione – avendo il giudizio a quo ad oggetto l’opposizione al fallimento dichiarato, nei confronti di soci illimitatamente responsabili di società di persone, oltre un anno dopo la cancellazione della società dal registro delle imprese – il giudice rimettente osserva che, secondo la giurisprudenza ormai unanime, né la cessazione dell’esercizio dell’impresa da parte della società né la cancellazione della società stessa dal registro delle imprese assumono rilevanza al fine della decorrenza del termine di cui all’rt. 10 della legge fallimentare, essendo a tal fine necessaria la conclusione effettiva della fase liquidatoria, ravvisabile soltanto nell’esaurimento di tutti i rapporti pendenti.
Nella recente sentenza n. 66 del 1999 la Corte costituzionale ha peraltro affermato, con riguardo ai soci cessati o defunti, che l’ammissibilità del loro fallimento “dev’essere tuttavia circoscritta entro un rigoroso limite temporale, proprio al fine di non pregiudicare … l’interesse generale alla certezza delle situazioni giuridiche” e che tale limite, non risultando fissato dall’art. 147, “va rinvenuto all’interno del sistema della stessa legge fallimentare e precisamente nella norma dettata dagli artt. 10 e 11, che in considerazione della sua ratio assume una portata generale”.
Siffatta portata generale dell’art. 10 della legge fallimentare sarebbe tuttavia vanificata – secondo il Tribunale rimettente – dalla già ricordata interpretazione giurisprudenziale della norma, secondo la quale l’imprenditore collettivo si estinguerebbe soltanto con il pagamento dell’ultimo debito sociale, allorché ovviamente non può esservi più alcuna insolvenza. Con la conseguenza di determinare una illegittima disparità di trattamento tra due categorie di soggetti, i soci di società di persone già cancellate e gli imprenditori individuali non più operanti, che viceversa l’ordinamento mostra di considerare in modo unitario.
L’assoluta prevalenza dell’orientamento giurisprudenziale sottoposto a critica non consentirebbe tuttavia – ad avviso ancora del rimettente – una mera interpretazione adeguatrice della norma da parte dello stesso giudicante ed imporrebbe quindi l’intervento del giudice delle leggi.
3.1 E’ intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, mediante atto di contenuto analogo ai precedenti.
Considerato in diritto
1. Il Tribunale di Palermo solleva, in riferimento all’art. 3 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 147, primo e secondo comma, del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267 (disciplina del fallimento, del concordato preventivo, della amministrazione controllata e della liquidazione coatta amministrativa), in relazione all’art. 10 dello stesso regio decreto, nella parte in cui detta norma – per diritto vivente – prevede, in caso di fallimento di società, anche il fallimento dei soci illimitatamente responsabili pure se abbiano perso tale qualità, per trasformazione del tipo sociale, da oltre un anno.
Il Tribunale di Milano solleva invece questione di legittimità costituzionale della stessa norma, sempre con riferimento al parametro di cui all’art. 3 Cost., non esplicitamente evocato ma desumibile chiaramente dalla motivazione dell’ordinanza, nella parte in cui non contiene la fissazione di un termine ragionevole – che si assume comunque dover essere diverso dal termine annuale previsto dall’art. 10 dello stesso regio decreto – entro il quale possa essere dichiarato il fallimento dei soci illimitatamente responsabili, dopo che essi abbiano perso tale qualità a seguito di trasformazione societaria.
Il Tribunale di Bologna, infine, solleva, in riferimento ancora all’art. 3 Cost., questione di legittimità costituzionale del combinato disposto degli artt. 10 e 147, primo e secondo comma, della legge fallimentare in quanto tali norme impongono – sempre secondo il diritto vivente – la declaratoria di fallimento delle società e dei loro soci illimitatamente responsabili senza limiti di tempo, anche dopo la cancellazione della società dal registro delle imprese, a fronte del termine di preclusione annuale fissato dall’art. 10 per l’imprenditore individuale che abbia cessato l’attività di impresa.
I tre giudizi, comportando la risoluzione di questioni sostanzialmente identiche, vanno riuniti per essere decisi con unica sentenza.
2. Le ordinanze di rimessione muovono tutte dalla pronuncia con cui questa Corte, nel dichiarare non fondata una analoga questione di legittimità costituzionale dell’art. 147 della legge fallimentare, ha affermato che “la disposizione denunciata va interpretata nel senso che, a seguito del fallimento dei soci illimitatamente responsabili defunti o rispetto ai quali sia comunque venuta meno l’appartenenza alla compagine sociale può essere dichiarato solo entro il termine, fissato dagli artt. 10 e 11 della legge fallimentare, di un anno dallo scioglimento del rapporto sociale” (sentenza n. 66 del 1999).
I rimettenti escludono, per motivi diversi, che l’interpretazione adeguatrice sopra riferita sia direttamente applicabile alle diverse fattispecie sottoposte al loro giudizio. Rilevano peraltro – sotto profili non del tutto coincidenti – come la previsione di un termine per la declaratoria di fallimento dell’imprenditore individuale e dell’ex socio (secondo l’interpretazione contenuta nella sentenza n. 66 del 1999) e la mancanza invece di qualsiasi termine per la declaratoria di fallimento delle società commerciali e dei soci illimitatamente responsabili, pur dopo la perdita della responsabilità illimitata di questi ultimi a seguito della trasformazione del tipo sociale, comporti una irragionevole disparità di trattamento fra situazioni omogenee, così risultando lesiva dell’art. 3 Cost.
3. Nella sentenza n. 66 del 1999 questa Corte ha osservato che, così come l’assoggettabilità a fallimento dell’imprenditore cessato o defunto postula, in applicazione del generale principio di certezza delle situazioni giuridiche, la fissazione di un limite temporale entro cui debba seguire la dichiarazione di fallimento -–limite fissato negli artt. 10 e 11 della legge fallimentare in un anno dalla cessazione dell’impresa (o dalla morte dell’imprenditore) – analogamente ed a maggior ragione deve essere circoscritta entro un prestabilito limite temporale l’ammissibilità del fallimento dell’ex socio, la cui sottoposizione alla procedura fallimentare prescinde del tutto dalla sussistenza dei presupposti di cui agli artt. 1 e 5 della legge fallimentare, che vanno accertati solo nei confronti della società.
In coerenza all’affermazione, costante nella giurisprudenza di questa Corte, secondo cui le leggi “in linea di principio non si dichiarano costituzionalmente illegittime perché è possibile darne interpretazioni incostituzionali (e qualche giudice ritenga di darne) ma perché è impossibile darne interpretazioni costituzionali” (così, ex plurimis, sentenze n. 200 del 1999 e n. 65 del 1999) si è individuato, in via interpretativa, il limite temporale all’ammissibilità del fallimento dell’ex socio all’interno della stessa legge fallimentare, e precisamente nella norma dettata dagli artt. 10 e 11, attribuendo quindi ad essa, in considerazione della sua ratio, una portata generale e non limitata al solo imprenditore individuale.
La giurisprudenza dei giudici ordinari, successiva alla citata sentenza di questa Corte, ha tuttavia mostrato un’evidente contrarietà ad abbandonare l’interpretazione restrittiva da lungo tempo consolidata in sede di legittimità. Gli stessi rimettenti – come si è detto – muovono dal presupposto che l’art. 10 della legge fallimentare non sia suscettibile di diretta applicazione al di fuori della fattispecie espressamente esaminata nella sentenza n. 66, con ciò stesso implicitamente negando il carattere generale della norma, affermato invece nella predetta sentenza.
Da qui l’opportunità – onde evitare il perpetuarsi di una grave incertezza interpretativa – che l’esame delle sollevate questioni di legittimità costituzionale, per molti versi connesse a quelle affrontate nella richiamata sentenza n. 66 del 1999, venga questa volta condotto sulla base della diversa interpretazione della denunciata normativa, consolidatasi nella giurisprudenza di legittimità ed assunta dai rimettenti quale diritto vivente.
4. Alla luce di tale premessa, è da ritenersi innanzitutto fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 10 della legge fallimentare, sollevata dal Tribunale di Bologna.
Il termine annuale, previsto da tale norma, oltre il quale non può darsi declaratoria di fallimento, nel caso di impresa collettiva decorre – appunto secondo il diritto vivente – non già dalla cessazione dell’attività o dallo scioglimento della società medesima, bensì dal compimento della fase liquidatoria, che non coincide con la chiusura formale della liquidazione ma con la liquidazione effettiva dei rapporti facenti capo alla società, sicché questa si considera esistente, e dunque assoggettabile a fallimento, finché rimangono rapporti, attivi o passivi, da definire.
E’ evidente peraltro che la norma stessa, così interpretata, risulta sostanzialmente inapplicabile, atteso che il termine di un anno entro il quale può essere dichiarato il fallimento della società, nonché il fallimento in estensione dei suoi soci illimitatamente responsabili, inizia a decorrere solamente dal momento in cui, essendo stato definito ogni rapporto passivo che fa capo alla società stessa, non può nemmeno ipotizzarsi l’esistenza dello stato di insolvenza, costituente il presupposto della dichiarazione di fallimento.
Va chiarito, a tale proposito, che rientra sicuramente nella discrezionalità del legislatore individuare diversamente, per l’impresa individuale e per quella collettiva, il dies a quo del termine entro il quale il fallimento deve essere dichiarato dopo la cessazione dell’impresa, così come prevedere, eventualmente, in riferimento alle due fattispecie, termini diversi. La discrezionalità del legislatore incontra peraltro un limite nel principio di ragionevolezza di cui all’art. 3 Cost., il quale postula che la norma con la quale viene fissato un termine non sia congegnata in modo tale da vanificare completamente la ratio che presiede alla fissazione di quel termine, rendendolo così del tutto inutile.
Va perciò dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 10 della legge fallimentare – risultando assorbita in tale pronuncia la censura relativa all’art. 147 – nella parte in cui prevede che il termine di un anno dalla cessazione dell’impresa, entro il quale può intervenire la dichiarazione di fallimento, decorra, per l’impresa collettiva, dalla liquidazione effettiva dei rapporti facenti capo alla società, invece che dalla cancellazione della società stessa dal registro delle imprese.
5. Parimenti fondate, nei limiti di seguito precisati, sono le questioni sollevate dai Tribunali di Palermo e Milano.
Questa Corte, come si è detto, ha affermato nella sentenza n. 66 del 1999 che il generale principio di certezza delle situazioni giuridiche – in considerazione delle conseguenze che dalla declaratoria di fallimento discendono, non solo per chi ne è colpito ma anche per i terzi che con lui siano entrati in rapporto – impone che l’ammissibilità del fallimento dell’ex socio sia ristretta entro un congruo limite temporale, così come previsto, in ragione di una identica esigenza, dagli artt. 10 e 11 delle legge fallimentare dell’imprenditore deceduto o che abbia cessato l’attività di impresa.
Tale affermazione va ora ulteriormente precisata – con riguardo all’ipotesi, cui le questioni si riferiscono, di fallimento del socio che abbia perso la responsabilità illimitata a seguito di trasformazione del tipo sociale – nel senso che deve ritenersi la necessità di un limite temporale alla assoggettabilità al fallimento del socio di società commerciale, allo stesso modo e per le medesime ragioni già illustrate nella sentenza n. 66 del 1999, in tutti i casi di perdita, per qualsiasi causa, della responsabilità illimitata.
Poiché, secondo l’interpretazione prospettata dai rimettenti, la norma di cui agli artt. 10 e 11 della legge fallimentare non può intendersi riferita – come si è visto – anche al fallimento in estensione del socio, ne consegue l’illegittimità costituzionale dell’art. 147, primo comma, della legge fallimentare, nella parte in cui prevede che il fallimento della società produce il fallimento dei soci illimitatamente responsabili, pur dopo che sia decorso un anno dal momento in cui costoro abbiano perso per qualsiasi causa la responsabilità illimitata.
Va precisato, ancora una volta, che ben potrebbe il legislatore – nel bilanciamento tra le opposte esigenze di tutela dei creditori e di certezza delle situazioni giuridiche – fissare, per la assoggettabilità al fallimento dei soci illimitatamente responsabili, un termine diverso da quello annuale previsto dagli artt. 10 e 11 della legge fallimentare. Laddove evidente appare che, da parte di questa Corte, il rilevato vizio di illegittimità costituzionale non possa essere sanato in altro modo che uniformando, sul punto, la disciplina del fallimento del socio illimitatamente responsabile a quella dettata per l’imprenditore individuale o collettivo dai menzionati artt. 10 e 11 della legge fallimentare.
6. Restano assorbite, in quanto prive di autonoma rilevanza nei giudizi a quibus, le censure relative all’art. 147, secondo comma, della legge fallimentare.
Per questi motivi
La Corte costituzionale
riuniti i giudizi,
dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 10 del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267 (Disciplina del fallimento, del concordato preventivo, della amministrazione controllata e della liquidazione coatta amministrativa), nella parte in cui non prevede che il termine di un anno dalla cessazione dell’esercizio dell’impresa collettiva per la dichiarazione di fallimento della società decorra dalla cancellazione della società stessa dal registro delle imprese;
dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 147, primo comma, del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267 (Disciplina del fallimento, del concordato preventivo, della amministrazione controllata e della liquidazione coatta amministrativa), nella parte in cui prevede che il fallimento dei soci a responsabilità illimitata di società fallita possa essere dichiarato dopo il decorso di un anno dal momento in cui essi abbiano perso, per qualsiasi causa, la responsabilità illimitata.
Nota dell’Avv. Alessandro Ferretti
Negli anni ‘70 e ’80 si è più volte parlato del processo di costituzionalizzazione della legge fallimentare operato dalla Consulta nella cronica inerzia da parte del legislatore circa la necessità di adeguamento alla Carta fondamentale di una legge, quella appunto fallimentare, entrata in vigore in epoca anteriore alla Costituzione.
In tale quadro si è posta la sentenza n. 66 del 12 marzo 1999 della Corte Costituzionale, la quale ha aperto una nuova strada, diametralmente opposta, rispetto al consolidato orientamento giurisprudenziale, risalente al lontano 1956 e più volte ribadito dalla Corte di legittimità e dai giudici di merito, in ordine all’applicabilità o meno del termine annuale, previsto dall’art. 10 della l. fall. per l’imprenditore individuale, all’ex socio illimitatamente responsabile, che, per l’appunto, abbia cessato di essere socio (qualunque sia la causa dello scioglimento del vincolo contrattuale).
Come noto, la predetta sentenza, c.d. interpretativa di rigetto, contiene il principio, in virtù del quale la disposizione ex art. 147 l. fall. va interpretata nel senso dell’applicazione del termine annuale, contenuto negli artt. 10 e 11 stessa legge, anche agli ex soci illimitatamente responsabili.
Prima di esaminare le argomentazioni e le reazioni a corredo della scelta operata dal Giudice delle Leggi, risulta di fondamentale importanza ricordare che la stessa Corte, con la sentenza n. 319 dell’11 luglio 2000, ribadendo l’indirizzo espresso per la decisione n. 66/99 ha, per così dire, “mostrato i muscoli”, precisando ed ampliando la portata della precedente pronuncia, mandando un messaggio particolarmente incisivo a quei giudici di merito, che, come si dirà oltre, avevano ritenuto non applicabile il principio espresso dalla Consulta.
Infatti la Corte, in tale seconda occasione, non ha limitato il proprio intervento ad una sentenza interpretativa di rigetto (sulla cui portata si dirà nel prosieguo), ma, di contro, è arrivata a pronunciare l’illegittimità costituzionale degli artt. 10 e 147 l. fall. nelle parti ivi indicate.
Come detto, varie sono state le voci e le reazioni alla prima pronuncia del Supremo Collegio: alcuni hanno denunciato il rischio di frettolose fughe, attuabili attraverso il recesso da parte del socio nel momento in cui si venga a profilare la crisi irreversibile dell’impresa; altri hanno sottoposto ad un’attenta critica di ripensamento in seno alla Consulta, partendo dalle fondamenta del concetto di imprenditorialità.
La giurisprudenza di merito, dal canto suo, si è diversamente orientata, o adeguandosi pienamente al principio espresso dal Giudice delle Leggi, ovvero manifestando il proprio dissenso con riferimento a particolari fattispecie.
In una breve rassegna, tra le prime decisioni, ricordo Trib. Cassino 10.12.99, Trib. Roma 22.09.94, 06.10.99; in senso contrario si sono espressi Trib. Padova 10.05.99, che individua in cinque anni il termine per la declaratoria fallimentare del socio cessato, in analogia al termine quinquennale previsto in materia di responsabilità degli amministratori. Tale soluzione non contrasterebbe con la sentenza della Corte Costituzionale, sia perché il termine annuale contenuto nell’art. 10 l. fall. è troppo breve per essere applicato in via analogica, sia perché la Corte ha censurato l’art. 147 l. fall. per la sola mancanza di un termine ad quem, ma non necessariamente per il fatto che non sia previsto il termine annuale, potendo pertanto il termine essere più lungo, purché individuabile in altre norme.
Ancora, nell’ambito del secondo indirizzo giurisprudenziale, ricordo Trib. Genova 23.10.99, secondo il quale la pronuncia della Corte Costituzionale non risulta applicabile nell’ipotesi di trasformazione della società, atteso che in questo caso, segnatamente nella trasformazione da società di persone a società con personalità giuridica, ovvero nel caso più limitato di mutamento dello status di socio da accomandatario ad accomandante, il socio stesso mantiene tale status, modificandosi unicamente il regime della sua responsabilità, ma non venendo meno il vincolo societario.
Con riferimento, peraltro, a tale ipotesi, segnalo l’ordinanza 16 luglio 1999 del Tribunale di Palermo, con la quale il Collegio ha rimesso alla Corte Costituzionale la questione di legittimità, rilevando la disparità di trattamento tra l’imprenditore individuale o il socio illimitatamente responsabile cessato o defunto da oltre un anno e il socio che, a seguito della trasformazione, ha mantenuto il suo status di socio, mutando esclusivamente la portata della propria responsabilità.
Ancora, ricorso l’ordinanza del Tribunale di Milano, 13 maggio 1999, in forza della quale la Corte Costituzionale è stata investita della questione non manifestamente infondata della legittimità dell’art. 147 l. fall. nella parte in cui non prevede un termine ragionevole per la dichiarazione di fallimento degli ex soci illimitatamente responsabili.
Infine il Tribunale di Bologna, con ordinanza del 5 ottobre 1999, ha sollevato, in riferimento all’art. 3 Cost., questione di legittimità costituzionale degli artt. 10 e 147, primo e secondo comma, l. fall. in quanto tali norme impongono il fallimento della società di persone e dei loro soci illimitatamente responsabili senza limiti di tempo, anche dopo la cancellazione dal registro delle imprese, a fronte del termine di preclusione annuale viceversa previsto per l’imprenditore individuale che abbia cessato la propria attività d’impresa.
Da tali ordinanze è scaturita la seconda decisione in esame da parte del Giudice della Consulta.
Prima di commentare la pronuncia della Corte Costituzionale e i successivi orientamenti da parte dei giudici di merito, ritengo opportuno sottolineare la portata della prima pronuncia della Corte. Come già detto, la sentenza, rivestendo natura interpretativa di rigetto, ha una finalità chiaramente adeguatrice ed esprime, con il valore ed il vigore propri di tale tipo di pronuncia, con cui certamente gli altri giudici, ancorché non vincolati dovevano fare i conti, la necessità di tutela del principio di certezza delle situazioni giuridiche.
Ancorché fossero sorte questioni sulla forza vincolante della prima sentenza, le stesse possono considerarsi superate in seguito al secondo intervento della Consulta con la segnalata decisione del luglio 2000.
Ciò premesso, con specifico riferimento alla problematica dell’estensione del fallimento prevista dall’art. 147 l. fall., la Corte ritiene che il termine per la dichiarazione di fallimento, in armonia con l’intero sistema fallimentare, debba essere rinvenuto all’interno della stessa legge fallimentare e precisamente agli artt. 10 e 11.
Del resto, questa esigenza di armonia e di certezza delle situazioni giuridiche all’interno di uno stesso sistema è stata avvertita dallo stesso legislatore, il quale, nel dettare la nuova disciplina dell’amministrazione straordinaria delle grandi imprese in crisi, all’art. 4 D.Lgs. n. 270/99 ha previsto che la dichiarazione dello stato di insolvenza di un’impresa individuale è soggetta alle disposizioni di cui agli artt. 10 e 11 l. fall. e al successivo art. 23, esattamente al 2° comma, ha disposto che l’estensione della dichiarazione dello stato di insolvenza nei confronti del socio illimitatamente responsabile receduto, escluso o defunto ha luogo se la dichiarazione dello stato di insolvenza è pronunciata entro l’anno successivo alla data in cui il recesso o l’esclusione sono divenuti opponibili ai terzi e a quella della morte, sempre, ovviamente, che l’insolvenza della società attenga in tutto o in parte a debiti sorti prima di quella data (non è questa la sede per discutere della data di opponibilità ai terzi dell’esclusione o del recesso).
Alla luce di tale esigenza, appare logico ricondurre la problematica nell’alveo del concetto, rectius, dello status di imprenditore con quanto da esso conseguente sotto il profilo del diritto fallimentare, sottolineando che il presupposto soggettivo per la dichiarazione di fallimento è, come noto, la qualità di imprenditore commerciale.
Orbene, due sono sempre state le motivazioni a corredo dell’orientamento giurisprudenziale che nega l’applicazione del termine annuale all’ipotesi di estensione del fallimento ai sensi dell’art. 147 l. fall..
La prima, squisitamente giuridica, negando la qualità di imprenditore al socio illimitatamente responsabile, attribuisce all’art. 147 la natura di grave deroga al principio generale, assoggettando al processo esecutivo speciale soggetti non imprenditori commerciali. Unico imprenditore rimane la società, il cui dissesto, manifestatosi sin dall’epoca in cui all’ex socio, poi fallito, era riconducibile tale status, produce anche il fallimento dei soci illimitatamente responsabili.
Sul punto ricordo la stessa ordinanza del Tribunale di Roma del 15.10.97, da cui è poi scaturita la sentenza n. 66 da parte della Consulta, che, negando la qualità di imprenditore al socio illimitatamente responsabile, rimetteva, con riferimento all’art. 3 Cost., la questione di legittimità costituzionale dell’art. 147 l. fall. in relazione all’art. 11 stessa legge, nella parte in cui prevede che la sentenza che dichiara il fallimento della società di persone produce anche il fallimento del socio illimitatamente responsabile defunto da oltre un anno.
La seconda motivazione attiene a criteri di opportunità, poiché l’eventuale applicazione del limite temporale incentiverebbe la fuga dei soci e comprometterebbe un’idonea tutela della garanzia patrimoniale a favore dei creditori.
Sotto il primo aspetto, invero, non può non cogliersi che, nel caso in esame e più in generale nella disciplina della società personale, parimenti a quanto avviene per l’impresa individuale, ciò che rileva è il dato personale riferibile all’imprenditore persona fisica.
Se da un lato appare inconfutabile il riconoscimento della qualità di imprenditore commerciale alle società, appare più coerente, in armonia con l’intero sistema, riconoscere tale qualità al singolo socio illimitatamente responsabile. Infatti, a fronte degli obblighi propri dell’impresa collettiva, quali l’iscrizione nel registro delle imprese, la tenuta delle scritture contabili, il fallimento della società, vi è una serie di rapporti giuridici che, nell’ambito della stessa attività d’impresa, sono direttamente riferibili ai soci: mi riferisco alla capacità di agire, alla soggezione a fallimento, alla responsabilità penale per i reati commessi durante l’esercizio d’impresa. Come è stato autorevolmente osservato, in tale contesto non si può parlare di regole ed eccezioni, bensì di regole concorrenti.
Appare quindi iniquo attribuire al socio la qualità di imprenditore al solo fine di applicare norme più rigide, per poi negarla in fattispecie, come quella in esame, ove il legislatore ha previsto regole più favorevoli.
Cerco di spiegare meglio il motivo di questa mia scelta sotto il profilo sistematico, necessariamente muovendo dal concetto di soggetto imprenditore nell’ipotesi di società personali commerciali.
Ebbene, non sembra che la qualità di imprenditore commerciale possa essere separata dalla persona fisica o dalla persona giuridica. Ed invero, nelle società munite di sola autonomia patrimoniale, i soci illimitatamente responsabili non rispondono delle obbligazioni della società come terzi, perché essi stessi sono la società, in quanto contitolari dell’impresa, cioè coimprenditori .
Né valga obiettare che il socio illimitatamente responsabile è imprenditore indiretto, mentre è la sola società che deve essere considerata imprenditore diretto; in assenza, infatti, nella fattispecie di società munita di sola autonomia patrimoniale, di distinzione tra persona fisica-socio e persona giuridica-società, non è dato cogliere il fondamento del perché l’impresa dovrebbe appartenere a distinti soggetti (la società da una parte ed i soci dall’altra), peraltro in via gradata. Appare quindi più corretto parlare di impresa o imprenditore e coimpresa o coimprenditore, non già di impresa indiretta. Sul punto non sembra altresì condivisile l’opinione di chi, in relazione alle esigenze del processo fallimentare, ritiene il socio illimitatamente responsabile imprenditore indiretto soggetto alla declaratoria fallimentare, ancorché solvibile, sul presupposto della sua responsabilità di fronte ai terzi, che è sussidiaria rispetto a quella della società. A tal riguardo rilevo che la responsabilità del socio di società di persone per i debiti d’impresa ha natura diretta e principale ed è conseguenza dell’assenza di soggettività della società di persone; né, a tal riguardo, appare invocabile il beneficium excussionis, atteso che tale istituto non inerisce al carattere della responsabilità sotto il profilo sostanziale, incidendo esclusivamente sull’aspetto processuale dell’azionalibità del credito.
Per doverosa chiarezza ritengo opportuno sottolineare, qualora ciò non fosse sufficientemente emerso nelle considerazioni che precedono, che quanto sin qui sostenuto va riferito ai soli soci illimitatamente responsabili di società personali, con conseguenziale esclusione dei soci accomandanti, la cui partecipazione alla società è esclusivamente limitata all’aspetto patrimoniale, dovendosi escludere quel potere d’impresa, consistente nel partecipare globalmente all’attività imprenditoriale, il cui rovescio della medaglia è costituito dalla responsabilità d’impresa, propria dell’imprenditore individuale e dei soci illimitatamente responsabili coimprenditori.
A ciò si aggiunga che la contitolarità di impresa nulla toglie alla natura ed alla responsabilità dei soci circa la personale partecipazione alla vita dell’impresa stessa, tenuto conto che il solo limite individuabile consiste nel limitare all’interno della compagine il singolo potere di iniziativa, in funzione e a garanzia dello scopo comune.
Proiettando le considerazioni che precedono all’esigenza di tutela di uniformità di disciplina nell’ambito di uno stesso sistema normativo, quello fallimentare, sembra in tal modo assumere logico fondamento l’applicabilità al socio illimitatamente responsabile di società di persone della disciplina dettata dal legislatore fallimentare per l’imprenditore individuale in tutti quei casi, come quello in esame, ove sussiste una lacuna del sistema normativo.
In altri Paesi, come l’Italia, di grande tradizione giuridica, si è unanimemente concordi nel riconoscere la qualità di imprenditore commerciale al socio illimitatamente responsabile: si guardi alla Germania e alla Francia ove, addirittura, quella che era la costante interpretazione ha trovato esplicito riconoscimento nell’art. 10 della legge 24.07.1966 n. 537.
Né, sotto il profilo dell’opportunità, appare giustificato il pericolo di fuga, cui in precedenza ho fatto cenno, poiché in via analogica, tale circostanza si può parimenti verificare per l’impresa individuale; inoltre, perché, a prescindere dalla declaratoria fallimentare, la responsabilità patrimoniale dell’ex socio continua comunque a sussistere. E’ ben vero che, in questo caso, non sarebbe possibile applicare il sistema revocatorio speciale, ma lo stesso non avviene forse per il singolo imprenditore commerciale, la cui insolvenza viene accertata dopo un anno dalla cassazione?
Pertanto, qualora permangano creditori insoddisfatti, l’ex socio continuerà a rispondere delle obbligazioni sociali sorte in costanza di rapporto, senza che perciò debba necessariamente calare la “Spada di Damocle” del fallimento, decorso l’anno dallo scioglimento del contratto di società limitatamente al singolo; non appare corretto abusare dell’istituto del fallimento, previsto a tutela di un interesse pubblico, distorcendone le finalità per scopi esclusivamente privatistici.
Ritengo comunque che il principio espresso dal Giudice delle leggi sia del tutto coerente all’esigenza di uniformità della disciplina regolatrice del fallimento.
Pertanto le sentenze in precedenza ricordate da parte di quei Tribunali che cercano di superare il principio contenuto nella sentenza n. 66/99 e ribadito nella decisione n. 319/00 appaiono, invero, l’estremo tentativo di una giurisprudenza che si ostina a mantenere posizioni spazzate via da tali pronunce, confondendo, anzi, volendo confondere, l’assoggettabilità della persona fisica al fallimento rispetto alla sua responsabilità patrimoniale che, ovviamente, è concetto ben distinto e soggiace a regole diverse da quelle contenute nella legge fallimentare.
Piuttosto, penso sia condivisibile l’opinione di chi, come il Tribunale di Milano e lo stesso Tribunale di Roma, comunque uniformandosi al dettato della sentenza della Corte Costituzionale, denuncia la necessità, nel rispetto della stessa uniformità della disciplina, della previsione di un termine congruo; ciò che non appare più essere quello previsto in una legge, che sta per compiere sessant’anni, rispetto all’evoluzione della prassi dei rapporti di natura commerciale.
L’unico rimedio appare quindi, more solito, l’intervento del legislatore, ancora una volta (mi riferisco alla citata legge di riforma della disciplina dell’amministrazione straordinaria da cui poteva nascere una nuova spinta con riferimento al termine per la dichiarazione di fallimento dell’imprenditore individuale e per l’ex socio illimitatamente responsabile cessati o definiti) poco attento a fare tesoro di un’occasione che aveva creato a proprio favore.
Allora, la soluzione potrebbe risiedere nella declaratoria di incostituzionalità degli artt. 10 e 11 della L.F., che, a tutt’oggi, contengono un termine del tutto inadeguato all’esigenza di tutela del ceto creditorio; in fondo si ripeterebbe nient’altro che il fenomeno verificatosi con la sentenza n. 570 del 1989, in virtù della quale sempre la Corte Costituzionale dichiarò l’illegittimità dell’art. 1 L.F., che ancora prevedeva il criterio distintivo delle lire 900.000 quale confine tra il piccolo imprenditore e l’imprenditore commerciale.

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