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GIURISPRUDENZA COSTITUZIONALE – Non più a costo zero, presentare (avventate)istanze di fallimento – Numero unico 2000 – Pag. 44

 
 

Corte Costituzionale – Sentenza 20 luglio 1999 n. 328  – Pres. Granata – Red. Marini – (con nota di Italo Scalera)

FALLIMENTO – ISTANZA DEL CREDITORE PER DICHIARAZIONE DI FALLIMENTO DEL DEBITORE – DOMANDA DEL DEBITORE DI RIMBORSO SPESE E DI RISARCIMENTO DANNI – DECRETO DI RIGETTO DELLA PRIMA E DELLA SECONDA – RECLAMO ALLA CORTE D’APPELLO EX ART. 22, SECONDO COMMA, R.D. 16 MARZO 1942 N.267 – LEGITTIMAZIONE DEL DEBITORE – MANCATA ATTRIBUZIONE – ILLEGITTIMITÀ COSTITUZIONALE PER VIOLAZIONE ARTT. 3 E 24 COST.

E’ costituzionalmente illegittimo, per violazione degli articoli 3, primo comma, e 24 della Costituzione, l’art.22,
secondo comma, del r.d. 16 marzo 1942 n.267, nella parte nella quale non attribuisce al debitore, nei confronti del
quale sia stato proposto ricorso per dichiarazione di fallimento, la legittimazione a proporre reclamo alla Corte
d’appello avverso il decreto di rigetto di tale ricorso, in relazione al mancato accoglimento delle domande dallo
stesso debitore.

La Corte (omissis…).

1. – La Corte d’appello di Trento dubita, con riferimento agli artt. 3 e 24 della Costituzione della legittimità
costituzionale dell’art. 22 del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267 (Disciplina del fallimento, del concordato
preventivo, della amministrazione controllata e della liquidazione coatta amministrativa), e più precisamente del
secondo comma di tale articolo, nella parte in cui non consente al debitore di reclamare avverso il decreto di rigetto
dell’istanza di fallimento avanzata nei suoi confronti, per la parte riguardante il mancato accoglimento della
domanda di condanna al rimborso delle spese processuali ed al risarcimento del danno per responsabilità aggravata
da lui proposta nei confronti del creditore.

2. – La questione è fondata, nei termini di seguito precisati.

3. – L’art. 22, secondo comma, della legge fallimentare dispone che avverso il decreto di rigetto del ricorso per la
dichiarazione di fallimento “il creditore istante può, entro quindici giorni dalla comunicazione, proporre reclamo
alla corte d’appello, la quale provvede in camera di consiglio, sentiti il creditore istante e il debitore”. Il
rimettente, con interpretazione non implausibile fondata sulla sentenza di questa Corte n. 127 del 1975, ritiene che,
atteso il carattere tassativo della previsione legislativa, deve escludersi la legittimazione del debitore a proporre
reclamo avverso provvedimento negativo di cui alla norma denunciata. Provvedimento che non appare
necessariarnente limitato al rigetto del ricorso per la dichiarazione di fallimento, ma può abbracciare anche la
statuizione consequenziale a detto rigetto, su eventuali domande proposte dal debitore. Ed è appunto in relazione a
tale più ampio contenuto che il precludere al debitore la legittimazione al reclamo accordandola, invece, al creditore
viene a determinare un evidente quanto ingiustiticato squilibrio tra le parti in causa. Il principio sancito dall’art. 3,
primo comma, della Costituzione posto in correlazione con quello di cui all’art. 24 Cost., implica necessariamente
come affermato da questa Corte, ‘la piena uguaglianza delle parti stesse dinanzi al giudice ed impone al
legislatore di disciplinare la distribuzione di poteri, doveri ed oneri processuali secondo criteri di pieno equilibrio”
(sentenza n. 253 del 1994). Considerazioni tutte che non possono non valere anche riguardo al procedimento, di
natura sostanzialmente contenziosa, introdotto dal ricorso del creditore per la dichiarazione di fallimento, “essendo
indubbia la contrapposizione di posizioni ed interesse tra il creditore istante ed il debitore che resiste all’istanza di
fallimento” (Cass. 20 novembre 1996 n. 10180).

Il principio di “parità delle armi” impone, dunque, che la.legittimazione a proporre reclamo avverso il decreto di
rigetto del ricorso per la dichiarazione di fallimento sia riconosciuta al debitore, nei cui confronti l’istanza è
proposta, negli stessi termini in cui è riconosciuta al creditore istante, con conseguente dichiarazione di illegittimità
costituzionale della norma denunciata.

(Omissis…)

 

Non più a costo zero, presentare (avventate) istanze di fallimento!

di Italo Scalera

Sommario: 1. La vicenda di merito. – 2. Il quadro normativo e giurisprudenziale precedente all’intervento della
Corte. – 3. La decisione della Corte. – 4. L’ambito dell’accoglimento: 4.1 Quadro giurisprudenziale sulla
proponibilità da parte del debitore della domanda di rimborso delle spese e di risarcimento danni nel procedimento
per dichiarazione di fallimento. – 4.2 Il “dribling” della Corte. – 5. Conclusioni: cosa è cambiato.

1. La vicenda di merito

Un (asserito) creditore chiede al tribunale la dichiarazione di fallimento del suo (asserito) debitore. Il debitore, nel
contrastare la fondatezza della istanza avversaria, chiede che il creditore istante sia condannato al pagamento delle
spese processuali ed al risarcimento dei danni ex art. 96 c.p.c..

Il tribunale rigetta l’istanza di fallimento e rigetta anche la domanda del debitore di rimborso delle spese e di
condanna ai danni.

Il debitore propone reclamo ex art. 22 legge fallimentare contro il capo del decreto di primo grado relativo al rigetto
della sua domanda di rimborso spese e di risarcimento danni e la Corte d’appello solleva questione di legittimità
costituzionale “in relazione agli artt. 3 e 24 Cost., dell’art. 22 legge fallimentare nella parte nella quale non
consente al debitore di promuovere reclamo avverso il provvedimento del tribunale, che pur respingendo l’istanza
di fallimento proposta nei suoi confronti, abbia rigettato, o comunque non accolto, la sua domanda di rimborso
delle spese processuali e di risarcimento per responsabilità aggravata proposta nei confronti del creditore” (1)

2. Il quadro normativo e giurisprudenziale precedente all’intervento della Corte.

La regula iuris, oggetto della questione sottoposta alla Corte, era quella dettata dall’art.22, secondo comma, della
legge fallimentare, a norma del quale – come la sentenza annotata puntualmente ricorda nell’incipit del paragrafo 2
della motivazione in diritto, “contro il decreto”, con il quale secondo la previsione del comma precedente il
tribunale si pronuncia quando respinge il ricorso per la dichiarazione di fallimento, “il creditore istante (2) può…
proporre reclamo alla Corte d’appello”. (3)

Anteriormente all’intervento della Corte Costituzionale, quindi, il testo della disposizione inequivocabilmente
indirizzava l’interprete a ritenere che al solo creditore, con esclusione d’ogni altro soggetto, fosse attribuita la
legittimazione a proporre reclamo contro il decreto di rigetto del tribunale.

Sul punto, peraltro, la dottrina appariva divisa, una parte, forse prevalente, di essa aderendo alla interpretazione
letterale, confortata dalla stessa Relazione ministeriale (4), e quindi riconoscendo tale legittimazione al solo
creditore istante; altri Autori, invece riconoscendo detta legittimazione anche al debitore quando avesse egli stesso
richiesto l’apertura della procedura, e – alcuni fra questi – anche al P.M. (5).

E l’interpretazione restrittiva appariva, almeno implicitamente, recepita dalla stessa Corte costituzionale, come può
desumersi dalla sentenza n.127 del 1975, la quale, dopo avere con pronuncia additiva sull’art.147, secondo comma,
della legge fallimentare riconosciuto anche al debitore fallito la legittimazione a chiedere l’estensione del fallimento
al socio illimitatamente responsabile, aveva avvertito, ai sensi dell’art.27 della legge n.87 del 1953, la
consequenziale necessità di rendere altra pronuncia additiva sull’art.22 della stessa legge fallimentare per
riconoscere al fallito la legittimazione a proporre reclamo alla Corte d’appello contro il decreto del tribunale che
avesse rigettato la sua domanda d’estensione (6). Così all’evidenza mostrando di presupporre che la norma sulla
legittimazione al reclamo dettata dal citato art.22 limitasse, in linea generale, la relativa attribuzione al solo
creditore.

Conviene, peraltro, tenere presente che la discussione sul tema della legittimazione al reclamo ex art.22, ora
ricordata, prescindeva del tutto dal considerare l’ipotesi che nel procedimento per dichiarazione di fallimento fosse
introdotta dal debitore una domanda di rimborso spese e di risarcimento del danno, e ciò anche da parte degli Autori
(7) che si sono occupati del tema in tempi più recenti e cioè dopo sul problema della proponibilità di siffatta domanda
e della possibilità di un suo accoglimento da parte del giudice si era venuta affermando, anche a livello di
Cassazione, l’opinione affermativa (8).

3. La decisione della Corte

Appunto nel contesto così innovato, ha potuto trovare spazio la questione di legittimità costituzionale sollevata dalla
Corte d’appello di Trento, sul rilievo che, se era ormai “diritto vivente” (9) la proponibilità e giustiziabilità di siffatta
domanda, non poteva essere negato al debitore, suo proponente, la legittimazione a reclamare avverso il capo di
pronunzia che su tale punto fosse a lui contraria pure in presenza di una decisione di rigetto della istanza del
creditore d’apertura del fallimento.

E dal canto suo la Corte Costituzionale – che, come già ricordato (10), dal riconoscimento in capo (anche) al fallito
della legittimazione a richiedere, ex art.147 legge fallimentare, l’estensione del fallimento al socio illimitatamente
responsabile aveva dedotto l’ineluttabilità del riconoscimento in capo al medesimo della legittimazione al reclamo
avverso la pronuncia negativa del tribunale – non poteva non pervenire, attraverso il medesimo schema
argomentativo, ad analoghe conseguenze in tema di reclamo avverso il capo di pronunzia reiettiva della domanda
del debitore.

4. L’ambito dell’accoglimento della questione.

4.1 Quadro giurisprudenziale circa la proponibilità da parte del debitore della domanda di rimborso spese e di
risarcimento nel procedimento per dichiarazione di fallimento.

Peraltro, una precisazione circa l’ambito della sentenza additiva resa dalla Corte merita di essere messa a punto.

Si è in precedenza riferito che nel procedimento di merito il debitore aveva chiesto la condanna del creditore istante
al rimborso delle spese, ex art. 91 c.p.c., nonché al risarcimento del danno per responsabilità aggravata, ex art.96
stesso codice.

E si è riferito pure che il giudice rimettente aveva sollevato la questione di legittimità costituzionale dell’art.22 con
riguardo al diniego, da tale disposizione desumibile, della legittimazione in capo al debitore a proporre reclamo in
relazione al mancato accoglimento sia dell’uno che dell’altro capo di domanda.

In tal guisa mostrando, all’evidenza, di presupporre che egli fosse ritualmente investito di entrambe le richieste.

In realtà tale aspetto del problema era, ed è, tutt’altro che pacifico perché, mentre riguardo alla domanda di
rimborso delle spese può ormai ritenersi consolidata l’opinione che la ritiene proponibile dal debitore nello stesso
procedimento per dichiarazione di fallimento, non altrettanto può dirsi quanto alla domanda di risarcimento del
danno per responsabilità aggravata.

Quanto, infatti, alla domanda di rimborso delle spese, in un primo tempo la Cassazione, investita, come oggetto del
decisum, della sola questione concernente tale rimborso, aveva negato la proponibilità della relativa domanda nel
procedimento per dichiarazione di fallimento – da proporsi invece, come perentoriamente si precisava, in autonomo
giudizio di cognizione – ragionando in termini d’applicazione (se estensiva o analogica non era in motivazione
precisato) anche al caso di rigetto della istanza di fallimento della regula juris dettata dall’art.21 della legge
fallimentare per il (diverso) caso di revoca della dichiarazione di fallimento, conseguentemente accomunando, sia
pure in obiter, in tale conclusione anche la domanda di risarcimento danni (11).

Successivamente la stessa Corte (12), questa volta investita come oggetto proprio del decisum della questione
concernente la proponibilità nello stesso procedimento per dichiarazione di fallimento della domanda avanzata dal
debitore di risarcimento danni ex art. 96 c.p.c., confermava al riguardo la conclusione negativa, ancora optando per
la proponibilità in un autonomo giudizio di cognizione, sul rilievo, di natura del tutto attuale secondo l’art. 96 c.p.c.
“la competenza funzionale del giudice della causa di merito” a conoscere di tale domanda “sussiste solo se il
processo viene definito con sentenza”, di laddove il rigetto della istanza di fallimento è pronunciato, ex art. 22 della
legge fallimentare, con decreto.

Argomento testuale, questo, chiaramente esportabile al caso della domanda di rimborso delle spese, posto che
anche nell’art. 91 c.p.c. si fa riferimento alla “sentenza” con la quale “il giudice … chiude il processo davanti a
lui”.

Tuttavia per quest’ultima domanda – quella a punto di rimborso delle spese – la Corte di Cassazione ha in tempi più
recenti rovesciato l’indirizzo precedente, riesaminando funditus il problema e risolvendolo nel senso che il decreto
con cui il giudice rigetta l’istanza di fallimento ben può contenere la liquidazione delle spese in favore del debitore
che ne abbia domanda. (13)

E nello stesso senso è orientata la giurisprudenza di merito. (14)

Per contro, la posizione della Cassazione appare immutata quanto alla domanda di risarcimento del danno. Infatti
proprio nella sentenza, prima citata, con cui ha operato l’overruling in tema di rimborso delle spese, la Corte ha
motivato l’affermazione della proponibilità della relativa domanda nel procedimento per dichiarazione di fallimento
con l’esplicita sottolineatura che rispetto ad essa non è richiesta la colpa del debitore istante essendo sufficiente il
mero dato obiettivo della soccombenza, al contrario – come in sentenza viene puntualmente e perentoriamente
precisato – di quanto è richiesto per la condanna ai danni, in ordine alla quale proprio la necessità dell’accertamento
della colpa impone che la relativa domanda sia proposta in separato ed autonomo giudizio di cognizione. (15)

E questo è l’indirizzo seguito da una parte della giurisprudenza di merito (16), mentre altra parte (17) segue l’indirizzo
opposto, affermando che anche per i danni, così come per le spese, la domanda va proposta nello stesso
procedimento per dichiarazione di fallimento.

4.2 Il “dribling” della Corte

La Corte Costituzionale era investita, come si è detto, di una questione con la quale si chiedeva che fosse al
debitore riconosciuta la legittimazione a proporre reclamo avverso il capo del decreto del tribunale che, pur
rigettando l’istanza di fallimento, non accogliesse la domanda del debitore stesso di essere rimborsato delle spese e
di ottenere il risarcimento del danno per responsabilità aggravata: era cioè investita di una questione che
presupponeva la proponibilità, nello stesso procedimento apertosi sulla istanza del creditore, sia del primo che del
secondo capo di domanda. La Corte, quindi, avrebbe dovuto in primo luogo prendere posizione sul problema della
proponibilità, o meno, nel procedimento per dichiarazione di fallimento anche della domanda di risarcimento del
danno, problema ancora fortemente controverso, come si è riferito, davanti ai giudici ordinari.

Ma la Corte, facendo uso di quella prudenza con la quale il più delle volte, (ancora se non sempre) evita, quando
possibile, di entrare nel dibattito interpretativo della legge ordinaria portata allo scrutinio di costituzionalità (18), ha
con raffinata eleganza aggirato lo scoglio, usando una formula lessicale che fa generico riferimento alle domande
proposte dal debitore così rendendo una pronunzia additiva, sul punto della legittimazione al reclamo, in certo senso
“in bianco” circa l’individuazione delle domande sulle quali il reclamo del debitore può, a seguito della sua
pronunzia, innestarsi; individuazione che viene di conseguenza ad essere rimessa alla giurisprudenza dei giudici
ordinari. Nel senso, cioè, che l’ambito d’operatività della facoltà di reclamo ex art. 22 riconosciuta al debitore è
fatto coincidere con l’ambito delle domande proponibili dal debitore nel procedimento per dichiarazione del
fallimento su istanza del creditore, ambito – quest’ultimo – la cui precisa delimitazione è lasciata alla competenza
interpretativa del giudice ordinario. Laonde, in forza della sentenza della Corte Costituzionale qui annotata, in tanto
sarà dal debitore reclamabile davanti alla Corte d’appello il mancato accoglimento di una sua domanda di
risarcimento del danno sofferto in dipendenza della presentata dal debitore, in quanto una tale domanda sia ritenuta
proponibile in quel procedimento dal giudice ordinario competente a conoscere del procedimento stesso. (19)

5. Conclusioni. Cosa è cambiato, ora.

Nel 1999 al Tribunale di Roma sono stati dichiarati n.1792 fallimenti e sono stati rigettati 578 ricorsi per
dichiarazione di fallimento. (20)

Il che, sia pure rozzamente da un punto di vista scientifico statistico, potrebbe significare che un forte numero
d’istanze sono state rigettate, mentre circa altrettante istanze sono state archiviate per desistenza.

All’affollamento degli affari contenziosi avanti la Sezione fallimentare si deve aggiungere quello ovviamente
minore, ma non insignificante, avanti la Corte d’Appello in sede di reclamo ex art. 22 L.F. Purtroppo non è un dato
extrapolabile in quanto il Ruolo Generale di questo Ufficio non li contraddistingue rispetto agli altri affari di
Volontaria Giurisdizione.

Fino ad oggi la presentazione di ricorso per dichiarazione di fallimento era il mezzo meno costoso, più rapido, più
efficiente per bypassare le paludi stigie dell’esecuzione forzata singolare, al contrario costosa, lunga, poco
efficiente.

Il rischio era zero. Non vi era condanna alle spese anche se il ricorso per dichiarazione di fallimento presentato era
al limite della liceità, in quanto tra gli altri pregi questi aveva anche quello di costituire un’indubbia pressione di
suasione a pagare comunque anche se vi fossero fondate (o quasi fondate) ragioni per non farlo o per farlo in
misura minore.

Ed allora perché perdere tempo e danaro? Una semplice istanza al Tribunale fallimentare ed il gioco era fatto: la
mostruosa macchina giudiziaria dello Stato si metteva in moto ed il rischio diventata troppo forte.

Con la sentenza annotata le cose sono cambiate.

In tutti quei casi nei quali si sia voluta privilegiare la “suasione” solo per fini egoistici, senza che vi fosse
un’effettiva insolvenza, senza considerare i gravi danni che il ricorso a questo mezzo processuale poteva provocare,
il soggetto passivo, effettivo debitore o no, ora potrà esercitare un fondamentale diritto alla applicazione di un
principio processuale ineludibile per tutti: quello della soccombenza, del quale quello susseguente della
responsabilità processuale aggravata è in netta connessione.

Ora quindi presentare un’istanza per dichiarazione di fallimento non è più a costo (e rischio) zero: potrà costare
qualcosa e – ci auguriamo – anche di significativo.

Italo Scalera

 

N O T E

1.Ordinanza Corte Appello Trento 27 gennaio 1998, in Gazz. Uff. n.24 del 1998 (iscritta al n.413 del registro
ordinanze della Corte Costituzionale, anno 1998).

2.La sottolineatura – forse è superfluo avvertire – è dell’autore di questo commento.

3.Sulla natura del decreto che rigetta l’istanza di fallimento, interessanti osservazioni – che traggono spunto
dalla stessa sentenza qui commentata – si leggono nella nota alla medesima dedicata da G.R.M., in
Dir.Fallim.1999, II,673.

Del tutto autonomo rispetto a tale problema è l’oggetto del presente commento, volto alla individuazione
dell’ambito parziale dell’art.22 legge fallimentare.

4.Vedi Relazione ministeriale sulla legge fallimentare, n.6.

5) Cospicua e contrastante, come si avverte nel testo, era la dottrina sul tema. Per brevità di rinvia ad
AJELLO, Sul punto del rigetto della domanda di fallimento, in Dir. Fallim, 1977, I,73, spec. 104-105, testo e
note 40-41. In sintesi, come analiticamente ricordava questo Autore, che aderiva alla opinione negativa, tale
opinione era condivisa, quanto al debitore, da AZZOLINA, favorevole invece alla legittimazione del P.M., per
il quale ultimo era per conto negativo PROVINCIALI, favorevole invece al debitore. Pure negativi, quanto al
P.M., CAMMARATA e ANDRIOLI, laddove SATTA era favorevole sia al debitore che al P.M. Pure
negativo TEDESCHI, in Commentario Scialoja e Branca. Legge fallimentare, Bologna – Roma 1974, p.644,
testo e nota 4; p.645, testo e note 13,14,15; p.647. testo e nota 17, il quale concludeva (p.647) “che, secondo il
sistema della legge fallimentare, l’impugnazione avverso il decreto che respinge la domanda di dichiarazione
… del fallimento è consentita solo se espressamente prevista”.

6.Corte Costituzionale 28 maggio 1975 n.127, Monit.trib. 1975,I,842, con nota di PADOVA; Foro it.
1975,I,2435, Giur.cost. 1975, 1303; Giust. Civ. 1975,III,290.

7.RAGUSA MAGGIORE- COSTA, Il fallimento, Torino 1997, p.277; PAJIARDI, Codice del fallimento,
Milano 1997, p.132.

8.Cass. 20 novembre 1996 n.10180, in Dir. Fallim.1997, II, 255; Foro it. 1997,I,1537; Fallimento 1997, 294;
Giur. it. 1997, I,1,1548, con nota di FRASSINETTI. Per l’analisi della evoluzione giurisprudenziale, anche di
merito, sul punto, vedi amplius il paragrafo 4.1, testo e note.

9.Così l’ordinanza di rinvio.

10.Vedi nota 5.

11.Cass. 13 settembre 1985 n.4685, in questa Rivista 1986,II,258; Giust.civ. 1986,I,829; Fallimento 1986,299;
Giur.it. 1986.I,1,568.
12.Cass. 8 febbraio 1990 n.875, Fallimento 1990,604.
13.Vedi Cass. 10180/96, citata in nota 7.

14.Trib. Genova, Decr. 13 novembre 1992, Fallimento 1993,873, con nota di RIELLO; Trib. Vallo della Lucania,
Decr. 22 marzo 1995, Arch.civ 1995, 968, con nota di CORREALE; Trib. Cassino, Decr. 10 maggio 1996, Il
fallimento 1996, 1031 (che per la domanda ex art. 96 c.p.c. esige invece un autonomo giudizio di cognizione).

15.Cass. 10180/96, citata in nota 7.

16.Trib. Cassino, Decr. 10 maggio 1996 citato in nota 13.

17.Trib. Gorizia, Decr. 23 febbraio 1978, Giur. merito1979, 328, con nota di CAPUTO; Trib. Salerno, Decr. 1°
Giugno 1971, Dir. Giur. 1971,700, con nota di DI LAURO; Monit.trib. 1971,854, con nota di PAJARDI;
Giust. civ. 1971,1319.

18.Da ultimo GRANATA, Corte di Cassazione e Corte Costituzionale nella dialettica fra controllo ermeneutico e
controllo di legittimità. Linee della giurisprudenza, Foro it. 1998,I,14.

19.A diversa conclusione previene, in un recente commento alla sentenza qui annotata, DIDONE, Prime
riflessioni sulla dichiarazione di illegittimità costituzionale (parziale) dell’art. 22, legge fallimentare, Gazz.
Giur. Giuffrè Italia Oggi, n.44/99, p.1 e ss. Anche l’Autore citato osserva come si pongano “non pochi dubbi in
ordine alla portata della disciplina risultante dalla dichiarazione parziale di illegittimità costituzionale “avuto
riguardo alla formulazione del dispositivo della sentenza in relazione al duplice capo di domanda – rimborso
spese e risarcimento del danno – proposto al giudice a quo (e da questo, come già si è sottolineato nel testo,
incluso nella questione sollevata con l’ordinanza di rimessione). A suo avviso, peraltro, si dovrebbe essere
indotti “a restringere l’operatività della pronuncia della Corte Costituzionale alla condanna alle spese del
creditore istante ex art. 91 c.p.c., “sia alla luce della sentenza 4685/85 della Cassazione (ricordata nel testo e
menzionata alla nota 10), la quale fa leva sul testuale riferimento alla “sentenza” contenuto nell’art. 96 c.p.c.,
sia tenendo presente che, se fosse consentito al giudice del procedimento per dichiarazione di fallimento di
pronunziare, nel decreto di rigetto della istanza, (anche) sulla domanda di risarcimento ex art.96 c.p.c., ne
conseguirebbe che tale decisione sarebbe ricorribile in Cassazione soltanto ai sensi dell’art. 111 Cost. e
quindi soltanto per violazione di legge e non anche per vizi di motivazione ex art.360 c.p.c. Sembra però
agevole replicare che entrambi gli argomenti “provano troppo”, nel senso che il primo dovrebbe valere anche
per il rimborso delle spese posto che (come si è rilevato nel testo) anche l’art.91 c.p.c. fa riferimento alla
“sentenza” e che altrettanto è a dirsi pure per il secondo giacché, ancora una volta, la situazione non sarebbe
diversa per quanto riguarda la condanna alle spese, pur essa – trattandosi di pronunzia egualmente per
decreto – ricorribile nei limiti dell’art.111. Occorre tener presente la nuova formulazione di tale norma
introdotta con la Legge Costituzionale 23 novembre 1999 n.2 e quanto stabilito con il D.L. 07 gennaio 2000 n.
2

E’ da confermare, in definitiva, la lettura della sentenza proposta nel testo: il debitore è legittimato ad
impugnare il decreto, che rigetta l’istanza di fallimento, nella parte in cui il provvedimento rigetta (anche) le
domande da lui promosse nello stesso procedimento sommario; però quali siano – anzi: possano essere – tali
domande la Corte non dice, sicché il suo decisum deve intendersi riferito a tutte le domande del debitore che
il giudice ordinario, investito del procedimento sommario per dichiarazione di fallimento, riterrà proponibili in
quella stessa sede.

La sentenza annotata è pubblicata anche in Foro it. 1999, I,2769, con nota redazionale; ivi 1998,I,1604 è
pubblicata anche l’ordinanza di rimessione.

20) Per la precisione occorrerebbe differenziare alcuni dati, ma non ne abbiamo la possibilità: è evidente
come alcune sentenze di dichiarazione di fallimento specie le prime d’ogni anno si riferiscano ad istanze
presentate l’anno precedente e così come le istanze presentate negli ultimi mesi dell’anno troveranno
decisione in quello seguente. Ai fini del presente lavoro e sul lungo periodo le variazioni vanno però quasi
compensandosi.

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