DOTTRINA – LE VICENDE CIRCOLATORIE DELL’IMPRESA – NUMERO UNICO 2000 – Pag. 12
Le vicende circolatorie dell’impresa, nell’ipotesi di crisi, reversibile o meno, hanno costituito un argomento, per molto tempo, di interesse per molti autori che lo hanno affrontato, de iure condendo, atteso che, prima della legge comunitaria n.428 del 1990, di attuazione della direttiva sul trasferimento di azienda, e della successiva n.223 del 1991, conseguenza dell’altra direttiva relativa all’insolvenza, non esistevano, invero, nel nostro ordinamento disposizioni che avevano la finalità di disciplinare, per quanto possibile, il fenomeno successorio nell’ambito delle procedure concorsuali.
Queste, difatti, in quanto dirette a soddisfare i crediti pregressi attraverso la liquidazione dell’attivo e la distribuzione del ricavato tra i creditori, nel rispetto delle cause di prelazione, a loro volta collegabili a ciascuna delle “cose vendute” (art.111 L.F., n.2), apparivano istituzionalmente dirette ad operare la disgregazione dell’azienda, intesa, come struttura di persone e mezzi organizzata ad un fine produttivo e, come tale, non in grado di sopravvivere alla stessa procedura.
L’operata puntualizzazione non deve ritenersi contraddetta – ma, anzi, al contrario, confermata – dalla circostanza che la legge 3 aprile 1979, n.95 sull’amministrazione straordinaria – oggi abrogata e sostituita – abbia considerato il problema della salvaguardia dei livelli occupazionali unitamente alla tutela dei diritti del creditore utilizzando strumenti di politica industriale già, invero, approntati dal legislatore e dettati dalla eccezionale situazione economica del paese.
E, difatti, l’originario rapporto di esclusione che ha caratterizzato tale procedura, rispetto alle altre concorsuali, minori o meno, ha trovato giustificazione, in passato, nel fine principale di questa individuato nell’intento, voluto dal legislatore, di attuare il risanamento dell’impresa e, dunque, di comporre discutibili patologie verificatesi nella gestione piuttosto che operare la liquidazione del patrimonio di questa.
Ciò ha comportato la previsione, nel tempo, di norme speciali tutte dirette a consentire la realizzazione di quelle finalità di risanamento programmate secondo le modalità, i termini ed i controlli, di volta in volta stabiliti allo scopo di sottrarre l’impresa che avesse le caratteristiche prefissate dalla legge ad una sorte diversa da quella del suo titolare.
In particolare, per le imprese soggette ad amministrazione straordinaria, la legge 22 aprile 1985, n.143 – ancor prima, dunque, delle significative innovazioni introdotte dalla legge n.223 del 1991 – prevedeva, in caso di cessazione dell’esercizio dell’attività, un trattamento di integrazione salariale straordinaria, della durata di dodici mesi, al fine di consentire il graduale assorbimento dei lavoratori, da parte delle imprese cessionarie, che, ai sensi dell’art.2 della legge 212 del 1984 si erano impegnate ad assumere i lavoratori in esubero, nei limiti imposti dall’Autorità di vigilanza.
Ne costituisce ulteriore conferma la revisione della procedura attuata, di recente, attraverso l’emanazione del decreto legislativo 8 luglio 1999, n.270, nel quale non si parla più di imprese in crisi quanto, piuttosto, in stato di insolvenza per le quali l’accesso alla procedura è, ora, condizionato dalla presenza di “…concrete prospettive di recupero dell’equilibrio economico delle attività imprenditoriali” che può essere realizzato “in via alternativa” (art.27) o tramite la cessione dei complessi aziendali, sulla base di un programma di prosecuzione dell’esercizio dell’impresa di durata non superiore ad un anno o, ancora, tramite la ristrutturazione economica e finanziaria di questa, in relazione ad un programma di risanamento di durata non superiore a due anni.
Il legislatore ha, quindi, delineato due distinte finalità della procedura potendo questa assumere, a seconda dei casi, natura, sostanzialmente liquidatoria, seppure attraverso la conservazione dell’azienda mediante la cessione di essa, ovvero, eminentemente conservativa, cioè finalizzata al ritorno “in bonis” dell’impresa.
Sia, dunque, il vecchio modello, così come l’attuale, hanno costituito il primo concreto intervento legislativo diretto a limitare le conseguenze di un funzionamento non conforme ai criteri di una corretta gestione dell’impresa il cui risanamento può essere realizzato attraverso l’esecuzione di un piano di ristrutturazione, con la previsione della costituzione di nuovi assetti imprenditoriali diretti a ripristinarne gli equilibri.
In siffatto contesto il mantenimento dei livelli occupazionali rappresenta una conseguenza di quella avvertita esigenza, con riferimento a particolari motivi di interesse pubblico, di non disperdere rilevanti complessi produttivi e, soprattutto, di non distruggere l’importante patrimonio di imprese insolventi.
Sempre de iure condendo, può, ancora, osservarsi che nel progetto di riforma della legge fallimentare , era prevista una analitica disciplina sia dell’affitto che della vendita dell’azienda (cap. IV e V, rispettivamente, artt. 125 e 143 del Progetto Pajardi) che ha rappresentato il momento di sintesi delle diverse decisioni giurisprudenziali e dei contributi della dottrina sul tema tanto da aver ipotizzato, con riferimento ai lavoratori già alle dipendenze dell’impresa fallita, una “…preferenza nell’assunzione di nuovo personale”, in tal modo privilegiando la prosecuzione dei rapporti senza, tuttavia, dimenticare la necessità di superare gli ostacoli posti dall’art.2112 cod. civ., stabilendo, appunto, la recedibilità da parte del curatore una volta apertasi la procedura concorsuale.
I problemi, cui si è ora accennato, del diritto dei lavoratori al mantenimento del posto di lavoro, da un lato, e degli oneri discendenti dalla solidarietà, dall’altro, nelle ipotesi di vicende circolatorie dell’azienda, sono stati colti con attenzione, atteso che la soluzione di essi ha assunto decisiva importanza per la possibile realizzazione della fattispecie considerata.
I temi di immediata rilevanza sociale sono stati affrontati, dunque, con realismo nel senso che è stata trascurata la necessità di individuare una soluzione che, al tempo stesso, prendesse in considerazione, valutandoli, anche gli specifici interessi delle altre parti in causa.
E d’altronde, nelle procedure concorsuali, per lo stesso carattere pubblicistico del procedimento, risulta accentuato il perseguimento di finalità che, spesso, trascendono necessariamente obiettivi puramente economici o, comunque, di tipo privatistico e ciò in quanto il fine primario si sostanzia nell’intenzione voluta dal legislatore di soddisfare i diritti dei creditori concorrenti su un piano paritario, sicché la procedura di realizzazione delle attività deve essere, necessariamente, indirizzata in vista del conseguimento del maggior possibile realizzo oltreché per l’attuazione della concorsualità.
La legislazione degli anni ’90 si caratterizza, al contrario, per il fatto di aver individuato una possibile soluzione della crisi irreversibile, attraverso la realizzazione di ipotesi circolatorie, temporanee o definitive, dell’azienda, nell’intento di attuare una politica di intervento allo scopo di allentare la tensione sociale, mediante il possibile mantenimento dei livelli occupazionali.
La eventuale continuazione dell’esercizio dell’impresa viene inteso, ormai, quale mezzo per conservare i valori di funzionamento dell’azienda al fine di una sua liquidazione ed il dissesto non esclude, almeno nelle intenzioni del legislatore, il possibile risanamento di questa, sicché constatata l’inadeguatezza dell’esistente quadro normativo sono state emanate norme che, in quanto frutto di una politica di intervento per il salvataggio delle imprese ed, in pratica, per il mantenimento di complessi aziendali improduttivi, si prestano alla individuazione di nuove soluzioni nell’intento di consentire la realizzazione, non solo della tutela creditoria, ma anche di quella, concorrente, della conservazione dei posti di lavoro che il dissesto dell’impresa pone, inevitabilmente, in discussione.
Ebbene, l’attuale legislazione offre uno spazio non indifferente perché siano assunte iniziative di carattere transitorio dirette a realizzare, nei limiti del possibile, la conservazione dell’azienda in modo da evitare la disgregazione del complesso dei beni che la compongono nella prospettiva di una sua cessione.
Anche se l’impresa viene a cessare per effetto della sentenza dichiarativa di fallimento, non si nega, ma, al contrario, si ritiene che l’azienda, come complesso dei beni da realizzare per il soddisfacimento delle ragioni dei creditori, può restare in vita per il raggiungimento di finalità di carattere pubblicistico, oltreché privatistico.
Attraverso la continuazione è, pertanto, possibile mantenere efficiente una struttura economica produttiva che potrà, attraverso la successiva cessione a terzi, consentire il miglior soddisfacimento delle ragioni dei creditori.
Dunque, la sopravvivenza dell’impresa può essere realizzata e garantita attraverso la continuazione dell’esercizio da parte dello stesso organo della procedura, in vista della sua successiva cessione o, ancora, mediante l’affidamento a terzi della gestione temporanea, sempre e, comunque, in attesa di attuare, ricorrendone i presupposti e le condizioni, il definitivo trasferimento.
La continuazione dell’esercizio dell’impresa, di cui vi è cenno all’art.90 della legge fallimentare fa, ovviamente, presupporre che l’attività imprenditoriale – al momento della dichiarazione di fallimento – non sia cessata, in quanto, evidentemente, in tale ipotesi, venendo meno l’esigenza di una conservazione dell’azienda, sarebbe impossibile svolgere valutazioni circa l’opportunità di riprendere, da parte degli organi della procedura, una attività cessata anche perché amministrazione e sfruttamento dell’organizzazione dei beni non può mai discostarsi dal fine tipico della procedura concorsuale che, come si è avuto già modo di ribadire, si sostanzia, necessariamente, nella possibilità di una liquidazione dell’attivo più proficua e vantaggiosa per i creditori.
Ed infatti, l’esercizio provvisorio ha finalità diversa da quella di conservazione dell’azienda e, certamente, non ha lo scopo di risanamento di questa che può, invero, essere, solo accidentalmente, realizzato .
Il Tribunale, nel formulare la sua originaria valutazione circa l’opportunità, o meno, di disporre l’esercizio provvisorio, dovrà tener conto, nel caso disciplinato dal primo comma, dell’art.90 L.F., dell’esistenza di pericolo di un “danno grave ed irreparabile” ed, al contrario, della semplice “opportunità” – di cui vi è cenno al secondo comma della stessa norma – per l’ipotesi di “ripresa” dell’attività.
La scelta è, poi, inevitabilmente, condizionata, in ragione delle conseguenze che determina nei confronti delle posizioni dei creditori concorsuali a causa dell’ampliamento dei debiti di massa, atteso che quelli derivanti dall’esercizio provvisorio dell’impresa sono, formalmente, da imputare al fallito e dovendo essere soddisfatti in prededuzione, a norma dell’art.111, comma primo, n.1, L.F., finiscono col gravare sulla massa creditoria.
Volendo approfondire l’argomento può osservarsi che la dichiarazione di fallimento, se determina la cessazione dell’impresa, sotto il profilo soggettivo, tuttavia, attua una modificazione della stessa nel momento in cui il Tribunale viene a decretare la possibile continuazione dell’attività in precedenza svolta dal fallito.
In altre parole, non è possibile immaginare una fase di continuazione se non con riferimento ad una impresa preesistente ed ad una sopravvivenza, nel corso della procedura, di questa con la conseguenza che, se sotto un profilo oggettivo l’attività produttiva è destinata a trasformarsi in liquidatoria, tale situazione non esclude il compimento di singole operazioni, separate o coordinate tra loro, da parte del curatore, che, seppur non in grado di postulare la continuità dell’impresa, al tempo stesso, sotto il profilo soggettivo danno vita ad una amministrazione sostitutiva da parte di questo.
La prospettata soluzione risulta essere la più aderente alla realtà, in quanto mostra, chiaramente, come il momento della dichiarazione di fallimento di un’impresa, laddove sia seguito, senza soluzione di continuità (o quasi), dell’esercizio provvisorio, non determina la cessazione dell’attività, ma solo un eventuale suo rallentamento di questa per il proseguimento e la realizzazione di quelle operazioni che – pur se ritenute utili per una migliore realizzazione dell’attivo – non è escluso che possano, poi, dar vita ad un fenomeno traslativo dell’azienda nel suo complesso, sì da consentire anche la conservazione dei posti di lavoro.
Ora, pur senza aver l’intenzione di intrattenersi su una tematica così complessa, quale quella della individuazione dei limiti e dei contenuti dell’esercizio provvisorio, così come si ricavano dall’art.90 della legge fallimentare, non può trascurarsi che la teoria liquidatoria – che tende a rappresentare l’istituto come una gestione sostanzialmente passiva, nel tentativo di una migliore conservazione del potenziale attivo dell’impresa – è stata, oggi, sottoposta a revisione allo scopo di riconoscere allo stesso la possibilità di tutelare interessi anche diversi da quelli dei soli creditori concorrenti tutte le volte che possa risultare strumento idoneo, in presenza di determinati presupposti, alla conservazione, anche se non al risanamento, dell’organismo produttivo .
Si tratterà, pur sempre, di una conservazione diretta alla cessione dell’azienda e, quindi, al successivo possibile perfezionamento di una vicenda circolatoria.
Il venir meno dell’attività produttiva, in tutto o in parte, seppur non come conseguenza automatica dell’apertura della procedura concorsuale, lascia, in pratica, ritenere, inevitabilmente, venuta meno l’esigenza di attuazione di un qualsiasi possibile programma di ristrutturazione aziendale, con la conseguenza che la crisi irreversibile, determinata dalla procedura, ove accompagnata dal requisito della cessazione dell’attività produttiva, darà diritto, ai sensi dell’art.3, comma primo, della legge 23 luglio 1991 n.223 al trattamento di integrazione salariale da questo previsto, richiedendosi, specificamente, che non vi sia stata, appunto, continuazione dell’attività “..perché non disposta, o in quanto cessata”.
Il trattamento di integrazione salariale concorsuale, d’altronde, non ha la finalità di alleggerire i costi di gestione, in previsione ed alla condizione del perseguimento di un possibile risanamento (presupposto voluto e richiesto dall’art.1 della legge n.223 del 1991) quanto quello di operare come puro ammortizzatore sociale concesso ai lavoratori in organico, avendo inteso il legislatore garantire il reddito di questi in attesa della possibile ripresa dell’attività lavorativa se ed in quanto resa possibile dalla realizzazione di una vicenda circolatoria, temporanea o definitiva, dell’azienda.
Funzione analoga a quella dell’esercizio provvisorio è assolta dall’affitto di azienda, dal momento che questo consente la continuazione temporanea dell’attività economica esercitata dal fallito ed evita, quindi, che dall’interruzione possa derivare un danno grave ed irreparabile ed, in un certo senso, costituisce uno strumento contrattuale in grado di realizzare un esercizio provvisorio indiretto, con apporto di mezzi dell’affittuario ed assunzione da parte di costui del rischio di impresa .
L’affitto dell’azienda è, peraltro, destinato ad essere preferito all’esercizio provvisorio non solo perché consente la realizzazione di una prosecuzione dell’attività imprenditoriale che, in quanto non imputabile al fallito ma all’affittuario, permette la conservazione dei valori di funzionamento, eliminando i rischi conseguenti all’imputazione dei debiti maturati per la gestione, ma anche perché, per lo più, il curatore è privo di quelle conoscenze tecniche di mercato che appaiono essere indispensabili per un utile svolgimento della fase di provvisoria continuazione dell’impresa sicché, appunto, preferirà affidare la gestione temporanea ad altri, con conseguente accollo dei rischi propri di questa.
L’istituto, d’altronde, non svolge una funzione estranea alla procedura fallimentare ma, al pari dell’esercizio provvisorio, non può esser ritenuto, senza dubbio alcuno, mezzo di conservazione del patrimonio e di preparazione, al tempo stesso, della futura cessione dell’azienda nel suo complesso.
E, d’altronde, la liquidazione, anche se non è estranea, in generale, all’attività di impresa, certamente rappresenta il momento conclusivo di questa in una situazione normale essendo rappresentata da quel complesso di atti, più o meno numerosi e più o meno semplici, con il quale si procede a liberare gli elementi del patrimonio dalla soggezione al precedente vincolo per poter, poi, ripartire l’attivo, così realizzato, fra tutti i creditori concorrenti.
E’, appunto, attraverso la fase di liquidazione che si creano i presupposti per la definizione dei rapporti giuridici pendenti attraverso la realizzazione, da parte dei creditori, delle pretese pregresse nei confronti dell’imprenditore dichiarato fallito.
Il legislatore mediante la previsione dell’istituto in questione che, come si è visto, dà vita ad un’attività di amministrazione accessoria e puramente preliminare alla vendita dell’azienda, in quanto preparatoria di questa, ha inteso privilegiarlo ritenendo possibile la conservazione dei beni allo scopo di ottimizzare il rendimento del patrimonio sì da porre, appunto, attraverso l’affitto, le condizioni necessarie per un miglior realizzo del complesso dei beni in sede di liquidazione.
La previsione legale della prelazione, di cui all’art.3, comma quarto, della legge n.223 del 1991, per i soli contratti stipulati dal curatore dopo l’apertura della procedura tende a realizzare il soddisfacimento dell’interesse sociale al mantenimento dei livelli occupazionali ed, al tempo stesso, costituisce una speciale opportunità di scelta di gestione aziendale attuata dagli organi della procedura e senza operare, tuttavia, alcuna alterazione del potere di disposizione dei beni, nell’intento di privilegiare la condizione di colui che, investendo capitale di rischio nella gestione temporanea di impresa, non poteva non essere preferito ad altri in una situazione di pari risultato economico.
L’attribuzione del diritto di prelazione all’affittuario pone questo in una situazione giustificata di privilegio compatibile, certamente, con il sacrificio economico da questi sopportato e può, ragionevolmente, essere garantito senza alcun pregiudizio per gli interessi dei creditori concorrenti.
Le maggiori difficoltà derivano – come presto vedremo – dalla applicazione delle norme che, nel rendere possibile il meccanismo successorio e, dunque, la prosecuzione dei rapporti, pur se limitando o rendendo flessibile la disposizione per quel che concerne la solidarietà nel lato passivo, hanno previsto un iter procedurale per la cui attuazione dovrebbe essere, integralmente, rivisitata la normativa fallimentare, per quel che concerne la disciplina della vendita dell’azienda.
Ha, infatti, ritenuto il legislatore che la presenza di una procedura concorsuale non è condizione sufficiente perché sia disapplicato l’art.2112 cod. civ., occorrendo, laddove l’impresa occupi più di quindici dipendenti, che la continuazione “…non sia stata disposta ovvero sia cessata” , nonché la conclusione di un apposito accordo collettivo, nel corso della procedura prescritta e descritta dalla norma, venendo rimessa, appunto, alle parti sindacali la valutazione della opportunità ed entità delle deroghe e, pertanto, la possibilità, per queste, di rendere flessibili i principi ispiratori propri del trasferimento d’azienda sino al punto di prevedere l’esclusione di parte dei dipendenti in esubero e, soprattutto, del mantenimento dei diritti acquisiti e della responsabilità solidale dell’acquirente, per i crediti pregressi maturati nei confronti dell’alienante per il personale il cui rapporto prosegua con il cessionario .
La norma opera, dunque, una deroga ben più ampia rispetto a quanto stabilito, in precedenza, dalla legge 26 maggio 1978, n.215 (di conversione del D.L.30 marzo 1978, n.80, c.d. decreto Unidal) che aveva preso in considerazione, unicamente, il principio della continuità del rapporto, con riferimento, pertanto, alle conseguenze derivanti dalla conservazione dell’anzianità maturata precedentemente al trasferimento dell’azienda anche se, invero, già allora, non erano mancati tentativi di estendere la portata della deroga anche al principio della responsabilità solidale stabilito nel secondo comma dell’art.2112 cod. civ. .
Le difficoltà esistono sul piano applicativo e concernono, in particolare, lo svolgimento della fase di informazione e consultazione prevista dalla norma.
I vantaggi derivanti dall’accordo sono evidenti dal momento che questo, oltre a riguardare la conservazione dei diritti pregressi, si estende al principio della responsabilità solidale per i crediti vantati dal lavoratore e consente, attraverso l’intervento delle organizzazioni sindacali, di rendere flessibile la relativa disposizione.
La conclusione di esso permette all’impresa cessionaria di escludere la propria responsabilità per i crediti che il lavoratore aveva anteriormente al trasferimento, nel presupposto meritevole di considerazione, di voler liberare il cessionario dalle pregresse passività, ciò al fine di favorire la vicenda circolatoria.
L’accordo, ancora, può anche prevedere, come si è detto, che il trasferimento non riguardi tutto il personale e che quello eccedentario continui a rimanere, in tutto o in parte, alle dipendenze dell’alienante riconoscendo, espressamente, il sesto ed ultimo comma, per i lavoratori che non passano alle dipendenze dell’acquirente, dell’affittuario o del subentrante diritto di precedenza nelle assunzioni che questi abbiano ad effettuare entro un anno dalla data del trasferimento, ovvero entro il periodo di tempo maggiore stabilito dagli accordi collettivi.
Il procedimento descritto è, dunque, abbastanza semplice richiedendosi, per il suo perfezionamento, la trilatera partecipazione delle parti interessate alla vicenda circolatoria con la mediazione dell’organizzazione sindacale.
Esso, però, appare costruito e disegnato per un’ipotesi diversa dal trasferimento coattivo stabilendo, difatti, la norma che la comunicazione vada effettuata almeno venticinque giorni prima, con ciò comportando la prima difficoltà consistente nella individuazione dell’evento rispetto al quale il termine deve essere computato.
Ed infatti, nel caso di trasferimento volontario, la dottrina ha individuato il momento, a seconda dei casi, o con la mera intenzione manifestata di trasferire l’azienda, purché in presenza di un accordo anche non definitivo o, ancora, con la data dell’effettivo trasferimento, sì da permettere, comunque, al cedente di ritardare la traslazione sino alla definitiva attuazione della vicenda circolatoria.
Nell’ipotesi in cui questa debba essere attuata in sede concorsuale, sia in via temporanea (affitto) che definitiva (vendita), la soluzione risulta tutt’altro che agevole, dal momento che l’obbligo di comunicazione che deve precedere la successiva fase di consultazione non può farsi coincidere con la mera intenzione di rendere l’azienda oggetto di una vicenda circolatoria .
Non potrebbe essere di ausilio – così come è stato proposto – per la individuazione della soluzione del problema ritenere che, in effetti, il legislatore all’art.47 abbia utilizzato il termine acquirente atecnicamente e che la norma andrebbe, quindi, interpretata nel senso della sostituzione di questo con quello di offerente .
Ed infatti, quel che rileva non è la terminologia utilizzata, quanto la concreta impossibilità di ritenere esistenti, per lo svolgimento della fase di informazione e consultazione, uno dei soggetti – peraltro, il più direttamente interessato – per il perfezionamento dell’accordo cui la legge assegna la possibilità di individuare il personale eccedentario e, soprattutto, di sottrarsi agli obblighi derivanti dalla solidarietà nel lato passivo per quel che concerne i debiti pregressi.
La conclusione cui è possibile pervenire muove da una interpretazione della relativa disposizione normativa (art.47 della legge n.428/90) che è stato sottolineato dover essere analizzata cum grano salis, non potendosi prescindere, da un lato, dalle regole che realizzano il trasferimento coattivo e, dall’altro, dai termini previsti dal legislatore per l’avvio della fase informativa .
E d’altronde, relativamente alle operazioni di liquidazione dell’attivo trova applicazione – come presto vedremo – la disciplina degli artt.104 e segg. della legge fallimentare, e non già quella degli atti di straordinaria amministrazione (art.25, comma primo, nn.6 e 35, L.F.) né l’altra propria delle attività processuali del curatore (art.25, comma primo, nn.6 e 31, L.F.), con la conseguenza che la vendita fallimentare va inquadrata nella più ampia categoria di quella forzata regolata, nei suoi effetti, dagli artt.2919 – 2924 del codice civile, pur se con applicazione delle norme che disciplinano la vendita nell’ambito del codice di procedura civile relative al processo esecutivo.
La natura coattiva del trasferimento è, di per sé, sufficiente per poterlo considerare nettamente separato dalla vendita contrattuale, avvenendo esso, in tal caso, nell’ambito del procedimento di esecuzione ed attuandosi per effetto del provvedimento giurisdizionale del giudice .
L’attività, pertanto, spiegata nel corso del procedimento espropriativo dagli organi preposti al fallimento, non può essere considerata, in alcun modo, come esplicazione di una volontà negoziale di diritto privato, anche se si perfeziona mediante contratto di diritto comune.
E difatti, le operazioni di liquidazione avvengono, sempre e comunque, in esecuzione dei provvedimenti del giudice delegato, a norma dell’art.104, comma primo, L.F., attraverso l’adozione di “…speciali misure di pubblicità”, per l’ipotesi della vendita in massa (art.106, comma secondo, L.F.)
Non può, d’altronde, sfuggire che la vendita forzata – tranne che per l’effetto traslativo che consente di accostarla a quella contrattuale – si allontana dallo schema e dal congegno dell’ordinaria compravendita, che si perfeziona con l’incontro della volontà delle parti contraenti, sicché i principi di diritto applicabili alla prima non sempre sono o possono ritenersi compatibili con quelli del rapporto, meramente, contrattuale.
Il trasferimento dell’azienda, attuato dal fallimento, per la sua natura di vendita coattiva, non dà luogo nè ad un acquisto a titolo originario né costituisce l’effetto di un normale rapporto negoziale; da ciò consegue che l’oggetto del trasferimento e le obbligazioni a questo connesse vanno individuate, non già attraverso l’interpretazione della volontà negoziale dei contraenti – che non esistono nel senso tradizionale che una simile espressione ha – ma mediante un’indagine sul contenuto del provvedimento giurisdizionale .
Una siffatta interpretazione, peraltro, prima delle innovazioni introdotte dalla disciplina comunitaria, appariva perfettamente aderente ai principi generali previsti dal nostro legislatore in tema di esecuzione, richiamando, espressamente, l’art.105 della legge fallimentare, se ed in quanto compatibili, “…le disposizioni del codice di procedura civile sul processo di esecuzione”.
Dalle stesse, inevitabilmente, deriva l’esclusione della successione dell’acquirente nei debiti, anche se assistiti da diritti di garanzia sulla cosa (art.586, primo comma, cod. proc. civ.), salvo specifico e volontario accollo (art.508 cod. proc. civ.) -, dovendo, semmai, il ricavato della vendita servire a soddisfare quei debiti (artt.509, 541, 596 cod. proc. civ. ed art.111, n.2, L.F., che impone il rispetto delle cause di prelazione in relazione a ciascuna delle “cose vendute”) – sì da risultare esclusa la possibilità, per il creditore, di duplicare il titolo come avverrebbe, al contrario, laddove si ritenesse di dover onerare del relativo soddisfacimento l’acquirente per il quale il prezzo va, necessariamente, determinato, in concreto, con riguardo al valore del bene ed in misura coincidente con l’avvenuta aggiudicazione e non, dunque, con riferimento alle passività che questi abbia, o meno, deciso di accollarsi .
L’adozione di un diverso criterio verrebbe a tradursi in una evidente alterazione del principio del concorso tutte le volte che si ritenesse di dover riconoscere la responsabilità solidale dell’acquirente per i debiti risultanti dai libri contabili obbligatori – e, nel caso di quelli di lavoro, indipendentemente dall’avvenuta annotazione e conoscenza – atteso che questi, ovviamente, in tal caso, pretenderebbe di poter detrarre dal prezzo della cessione-aggiudicazione gli oneri accertati e di ottenere una garanzia (peraltro, impossibile) per quelli ancora non verificati, sì da rendere, poi, addirittura, del tutto impossibile la vendita qualora i debiti ammessi al passivo dovessero eccedere il valore dell’azienda che si intende trasferire .
L’aver previsto, ora, il legislatore – pur se limitatamente ai crediti derivanti dai rapporti di lavoro, per la durata di questi – la possibilità, per le parti, di rendere flessibile la norma, sì da escludere la solidarietà passiva e permettere l’individuazione del personale eccedentario condizionatamente, però, alla conclusione di un accordo trilatero, in assenza di una delle parti necessarie dello stesso- ha finito per complicare, incredibilmente, la situazione sino al punto di rendere più difficile la realizzazione di quella vicenda circolatoria che aveva, inteso, voluto, nelle intenzioni, agevolare.
Ed infatti, sebbene la normativa comunitaria, in relazione alla necessità di garantire l’integrità dei diritti dei lavoratori nelle vicende concernenti il trapasso dell’impresa, dall’uno all’altro imprenditore (art.1 del preambolo della direttiva comunitaria 77/187) abbia, più volte, giustamente, sottolineato l’opportunità di sancire, attraverso una disciplina di sostegno, il principio della assoluta indifferenza, rispetto ai rapporti di lavoro già costituiti, delle vicende attinenti al mutamento soggettivo nella titolarità dell’impresa, non par dubbio che non sia possibile ricondurre, tout court, nell’alveo dell’art.2112 cod. civ. ogni altra forma di trasferimento la cui matrice non sia volontaria o convenzionale nel senso proprio del termine.
Non si possono ignorare le evidenti difficoltà derivanti, per tali procedure, dal fatto di aver introdotto il legislatore un sistema rigido per la ricerca di un consensuale contemperamento degli interessi coinvolti nella vicenda circolatoria, soprattutto laddove si consideri che, nell’ambito di una procedura concorsuale, i motivi del trasferimento, relativamente ai quali è richiesto si svolga la fase di consultazione, così come l’individuazione delle conseguenze giuridiche, economiche e sociali per i dipendenti interessati ed, ancora, le misure di sostegno per quelli, eventualmente, eccedenti non possono che essere caratterizzati, da un lato, dal procedimento di liquidazione dell’attivo e, trovare tutela, dall’altro, nell’ambito delle norme dettate a garanzia del reddito.
In altre parole, anche se nell’ampia nozione di trasferimento di azienda deve ritenersi compresa ogni ipotesi in cui si realizzi una sostituzione nella titolarità dell’impresa, a condizione che rimanga immutato l’organismo aziendale e vi sia continuazione dell’attività per finalità non liquidatorie (art.4bis della direttiva 98/50 del Consiglio del 29 giugno 1998) non può ignorarsi il diverso atteggiarsi del fenomeno nell’ambito delle procedure concorsuali nelle quali alla vendita si procede con l’autorizzazione e sotto la sorveglianza del Giudice delegato e con l’osservanza di forme che risultano essere incompatibili con l’iter procedurale fissato dall’art.47 della legge 428/1990.
E’ certamente vero che il quinto comma di tale norma stabilisce il principio che i lavoratori, nell’ambito delle procedure concorsuali, possano essere privati dei diritti che la direttiva conferisce loro, a condizione, tuttavia, che sia stato raggiunto un accordo, in sede sindacale, e sempreché non vi sia stata continuazione dell’attività e questa sia cessata.
E’, però, altrettanto vero che l’informazione, prima, e la consultazione, poi, è previsto abbiano ad oggetto l’indicazione dei motivi del trasferimento, l’esame delle conseguenze giuridiche, economiche e sociali, per il personale interessato ed, ancora, le misure previste nei loro confronti, situazioni che, seppur meritevoli di tutela, per le finalità sociali che vi sono connesse, tuttavia, non possono incidere, negativamente, sulla possibile realizzazione della vicenda circolatoria e relativamente alla quale l’accordo si pone come condizione per rendere flessibile la norma, limitandone gli effetti.
Ma, dall’inevitabile confronto tra l’interesse alla conservazione dei livelli occupazionali e l’altro – pur meritevole di tutela – del soddisfacimento dei crediti possibile attraverso il miglior realizzo, emerge un quadro, nell’ambito del quale, l’attività di liquidazione è destinata a prevalere sul salvataggio della stessa impresa non potendo retrocedere rispetto all’interesse alla tutela dei posti di lavoro, essendo impensabile una gestione amministrativa dell’insolvenza, peraltro, incompatibile con lo stesso sistema normativo europeo che vieta siano forniti aiuti alle imprese insolventi.
Ora, non par dubbio che la procedura fallimentare risente delle funzioni che è chiamata ad assolvere nella realizzazione dei beni del fallito, tant’è che consente al Giudice delegato, nel caso di necessità o evidente utilità, di autorizzare la vendita in massa delle attività mobiliari, in tutto o in parte, con o senza incanto o a trattativa privata.
In particolare, è previsto che la vendita unitaria sia preferita a quella per singoli beni tutte le volte in cui si ritenga certo, o quantomeno probabile, realizzare un maggior vantaggio attraverso, appunto, tale forma di vendita che, purtuttavia, incontra un limite naturale nell’ipotesi in cui abbia, poi, ad oggetto compendi misti di mobili ed immobili, pur se diretti a costituire un complesso unitario inscindibile.
E, difatti, ai sensi dell’art.108 della legge fallimentare “…la vendita degli immobili ricompresi nell’attivo fallimentare può essere fatta con incanto o senza incanto” e “per quest’ultimo tipo di vendita si deve intendere quella disciplinata e prevista dagli artt.570 e segg. cod. proc. civ.” il che porta ad escludere la possibilità per il curatore di richiedere e di essere, conseguentemente, autorizzato a svolgere una vendita a trattativa privata .
D’altronde, il rinvio contenuto nell’art.105 della legge fallimentare, alle disposizioni del codice di procedura civile relative al processo di esecuzione – per quel che concerne la vendita di beni mobili o immobili – ha, costantemente, consentito alla giurisprudenza di ritenere che, mentre per i beni mobili il giudice delegato può autorizzare la vendita ad offerte segrete, ovvero all’incanto, e solo in caso di necessità o utilità evidente, la loro vendita in massa, al contrario, per le vendite immobiliari, l’alternativa è tra il sistema dell’incanto (art.576 cod. proc. civ.) e l’altro disciplinato dagli artt.570 e segg. del codice di rito.
Il procedimento, in tal caso, previsto dalla legge fallimentare si sostanzia, peraltro, a ben vedere, in un aggravamento delle forme previste per l’esecuzione individuale, giacché, mentre l’art.569 cod. proc. civ. consente al giudice di disporre con ordinanza la vendita senza incanto solo laddove non ritenga opportuno che si svolga con il sistema di cui all’art.576 cod. proc. civ., al contrario, l’art.108 della legge fallimentare prescrive, come regola, la forma dell’incanto, stabilendo che l’altra può essere disposta dal Giudice delegato solo nell’ipotesi in cui la ritenga più vantaggiosa.
E’ in tal senso che è stato ritenuto erroneo ogni tentativo di interpretare in modo diverso il rinvio contenuto nell’art.105 della L.F.; e difatti, il richiamo da questo operato nei confronti delle norme relative al processo di esecuzione non sembra, di per sé, sufficiente per far ritenere ammissibili la vendita a trattativa privata, in quanto la norma, a ben considerare – anche se interpretata nel senso di voler assicurare alle vendite fallimentari una maggiore agilità – non costituisce argomento sufficiente, essendo di serio ostacolo ad una simile interpretazione il significato delle parole usate dal legislatore .
In sostanza, la vendita fallimentare, seppur rappresenta, nel caso in cui riguardi l’azienda, una realtà sociale ben più complessa, è ammissibile a trattativa privata nella sola ipotesi in cui del complesso dei beni non facciano parte degli immobili ed alla condizione che sia stata, specificamente, autorizzata dal giudice delegato, laddove, al contrario, in presenza di unità immobiliari sarà possibile procedere alla relativa liquidazione o attraverso il sistema dell’incanto di cui agli artt.576-588 cod. proc. civ., o nelle forme di cui agli artt.570-575 cod. proc. civ. (vendita senza incanto), dovendosi escludere ogni altra forma di alienazione ed, in particolare, quella a trattativa privata potendosi accedere alla diversa tesi dell’ammissibilità di un tale tipo di liquidazione soltanto supponendo che la dizione contenuta nell’art.108, primo comma, L.F., sia impropria ed atecnica e, come tale, in grado di ricomprendere, dunque, ogni tipo di vendita.
Ma, così certamente, de iure condito, non è, anche se non può escludersi che, spesso, attraverso tale tipo di vendita, sarebbe possibile realizzare vantaggi ancora maggiori per gli interessi dei creditori, essendo, comunque, consentito al Giudice delegato di sospendere gli effetti dell’atto negoziale ancora non perfezionato, esercitando lo specifico potere riconosciutogli dall’art.108, terzo comma, della legge fallimentare, laddove dovesse ritenere il prezzo offerto inferiore a quello di mercato o, comunque, realizzabile in concreto dalla vendita a terzi. La giurisprudenza è concorde nel ritenere che la vendita di un complesso aziendale nel quale siano comprese delle unità immobiliari, deve avvenire nelle forme stabilite dall’art.108 L.F., e che, in ogni caso, laddove il Giudice abbia stabilito che la vendita debba aver luogo senza incanto, l’espressione va intesa in modo tecnico, così escludendo che la previsione contenuta all’art.108 L.F. possa essere intesa nel senso di una estensione anche alla vendita a trattativa privata.
Ogni tentativo di fornire una diversa interpretazione risulta contrario allo spirito della previsione contenuta nell’art.108, terzo comma, L.F., che appare ispirata all’interesse superiore del miglior realizzo, con la conseguenza che se è riconosciuto il potere al Giudice delegato di sospendere la vendita dopo l’aggiudicazione – e cioè quando all’offerente è stato già attribuito il diritto a conseguire il trasferimento del bene – anche nell’ipotesi in cui non si sia realizzata la condizione risolutiva dell’aumento del sesto, deve, al tempo stesso, necessariamente, ammettersi la revoca della concessa autorizzazione a vendere nell’ipotesi in cui il trasferimento non si sia ancora perfezionato e si ritenga, concretamente, possibile realizzare un prezzo superiore a quello offerto, così come, ancora – nell’ipotesi di vendita a trattativa privata – maggiore a quello da ultimo concordato.
Ed infatti, il provvedimento autorizzativo è previsto che possa essere revocato fin quando non abbia avuto concreta attuazione con la stipula del contratto di vendita trovando specifica applicazione, nel caso di specie, l’art.487 cod. proc. civ., il quale consente – come noto – al Giudice dell’esecuzione di revocare tutte le ordinanze emesse nell’ambito del processo esecutivo individuale, essendo precluso l’esercizio di tale potere solo dall’avvenuta esecuzione dell’ordinanza stessa .
E’ pur vero che la proposta di legge, presentata il 22 luglio 1987, dall’Onorevole Pallanti, prevedeva all’art.11, l’integrazione dell’art.106 della legge fallimentare, allo scopo di consentire la vendita senza incanto nel caso di aziende che ricomprendevano, a titolo di proprietà o altro diritto reale, beni immobili.
La norma, però, si è, poi, limitata, unicamente ed esclusivamente, a stabilire il trattamento di integrazione salariale straordinario (art.3 della legge n.223 del 1991) ed, ancora, a fissare le regole per l’esercizio di prelazione da parte dell’affittuario senza, dunque, innovare e modificare il sistema preesistente per la vendita della azienda .
Riteniamo, invero, però, che ogni tentativo di fornire una diversa interpretazione – affatto consentito de iure condito stante l’intento del legislatore di modificare la norma, poi, lasciata, tuttavia, immutata – risulta essere in contrasto con lo spirito della legge fallimentare che appare, ovviamente, ispirata all’interesse superiore del miglior realizzo, con la conseguenza, pertanto, che non si vede come sia possibile lo svolgimento di quella fase di informazione e consultazione, pur prevista per rendere flessibile l’art.2112 cod. civ., in assenza di un procedimento che consenta di individuare, nei termini previsti dalla norma, una delle parti necessarie dell’accordo trilatero in assenza del quale alcuna disapplicazione, in tutto o in parte, delle tutele legali previste per il trasferimento d’azienda è possibile ipotizzare.
Si tratta, a questo punto, di dover verificare se il sottosistema che ha dato luogo ad una regolamentazione speciale, per quel che concerne le vicende circolatorie nell’ambito della crisi di impresa disciplinata dall’art.47, quinto comma della legge comunitaria del 1990, sia stato ben congegnato, tanto da poter esser applicato, sia all’ipotesi disciplinata della crisi aziendale, che all’altra, affatto identica, di trasferimento dell’impresa insolvente.
In quest’ultima, difatti, le finalità liquidatorie prevalgono, comunque, sulle prospettive di un possibile risanamento, sicché non può, per alcuna ragione, essere operata una lettura della norma nel senso di ritenere la stessa necessario strumento di sostegno del reddito dei lavoratori e, per quanto possibile, di conservazione dei posti di lavoro.
La profonda differenza esistente fra l’ipotesi di crisi aziendale rispetto all’altra, irreversibile, conseguente alla apertura di una procedura concorsuale liquidatoria, ha sollecitato diverse interpretazioni al fine di giustificare la scelta operata dal legislatore di riunificare, sotto il profilo delle medesime conseguenze giuridiche, situazioni diverse e da parte di alcuni autori è stata individuata l’identità della ratio nella situazione di tensione che, comunque, deriva sia dallo stato di crisi che, a maggior ragione, dalla sottoposizione dell’impresa ad una procedura concorsuale.
Non sono, però, d’accordo, sebbene non posso ignorare l’apprezzabile sforzo interpretativo compiuto, sulla operata prospettazione che, peraltro, risulta smentita dalla stessa valutazione offerta dalla Corte di giustizia la quale ha, più volte, ribadito che rientrano nel campo di applicazione della direttiva quei trasferimenti effettuati nell’ambito di imprese che, seppur sottoposte a procedure concorsuali, tuttavia, perseguivano finalità di salvaguardia del patrimonio del debitore e di prosecuzione dell’attività di impresa .
E, d’altronde, la crisi aziendale, quando reversibile, non tende alla liquidazione dell’impresa, mirando, piuttosto, a favorirne la prosecuzione dell’attività, nella prospettiva di una sua ripresa, tant’è che il procedimento di accertamento dello stato di crisi non implica un controllo giudiziario né muove da un provvedimento di amministrazione del patrimonio dell’impresa, come avviene nel caso delle procedure concorsuali per le quali la norma va, dunque, interpretata nel senso di aver inteso, il legislatore agevolare e, comunque, rendere possibili quelle vicende circolatorie dell’azienda, nell’intento di mantenerne i valori di funzionamento ed, al tempo stesso, di evitare la perdita dei posti di lavoro.
La irreversibilità della crisi è, d’altronde, resa evidente dal presupposto individuato dal legislatore per le modalità applicative della norma richiedendosi, appunto, la intervenuta cessazione dell’attività di impresa o la non continuazione di questa.
Sarebbe, peraltro, erroneo, ritenere che un siffatto meccanismo possa trovare la sua giustificazione nel fatto di ritenere il sacrificio dei diritti maturati dai lavoratori, nella fase pregressa del rapporto, bilanciato, sul piano sistematico, dalla utilità che a questi deriverebbe, indiscutibilmente, dalla prosecuzione dei rapporti e, quindi, dalla garanzia del livello occupazionale.
E difatti, non sembra possano essere presi in considerazione, in un sistema ispirato alla realizzazione della par condicio creditorum, interessi diversi da quelli propri di tutti i creditori concorrenti e non già, esclusivamente, di una parte di questi per i quali la legge ha già previsto una collocazione privilegiata sull’attivo realizzato.
In altre parole, il conflitto, tra i diritti dei lavoratori e degli altri creditori, nell’ambito delle procedure concorsuali, non può essere risolto assicurando, attraverso il trasferimento dell’azienda, il mantenimento dei diritti economici dei primi, oltre che del rapporto di lavoro.
Tutto ciò si realizzerebbe, d’altronde, nell’ipotesi in cui le parti interessate alla vicenda circolatoria non abbiano potuto raggiungere quell’accordo che rende, inevitabilmente, flessibile l’art.2112 cod. civ. per le conseguenze, sotto il profilo della solidarietà passiva, oltreché della continuazione dei rapporti di lavoro, connesse al trasferimento, ancorché coattivo.
Né potrebbe trovare giustificazione la previsione di un prezzo inferiore, pur se collegata alla previsione di un obbligo da parte dell’acquirente di assumersi tutti gli oneri pregressi dei dipendenti e di garantire il mantenimento dei posti di lavoro, atteso che una tale scelta, se può essere giustificata su un piano sociale, per le conseguenze che, inevitabilmente, la crisi di impresa viene a determinare con riferimento ai rapporti di lavoro risolvendosi essa in crisi di occupazione, non può, tuttavia, far ignorare le ragioni degli altri creditori che, poi, non potranno che far affidamento sull’attivo realizzato dalla cessione.
La distinzione tra procedure conservative e liquidatorie – che, certamente, ha costituito il punto centrale della direttiva comunitaria n.77 del 1987 – risulta essere stata ancor di recente ribadita dalla direttiva n.50 del 1998, che è intervenuta, in modo incisivo, al fine di regolamentare la materia, stabilendo, appunto, l’art.4bis che le garanzie non si applicano ai trasferimenti, nell’ipotesi in cui l’impresa cedente sia assoggettata ad una procedura concorsuale o “…di insolvenza analoga aperta in vista della liquidazione dei beni e sotto il controllo di una autorità pubblica competente”.
La previsione è, tuttavia, nel senso che la limitazione, per quel che concerne le procedure concorsuali, o quelle analoghe, è sottoposta, ovviamente, alla condizione che gli Stati membri non dispongano diversamente (art.4bis, paragrafo 1).
La difficoltà di ricondurre ad un quadro, sostanzialmente, unitario la disciplina derivante dalla attuale previsione contenuta nella direttiva n.50 del 1998 è, dunque, evidente.
Non può essere ignorata, d’altronde, la difficoltà di distinguere tra loro l’ipotesi di procedure concorsuali di tipo, meramente, liquidatorio, e per le quali non via sia stata continuazione dell’attività (art.4bis paragrafo 2), dalle altre o non propriamente liquidatorie o dirette a realizzare la liquidazione dell’azienda ma caratterizzate, tuttavia, dalla continuazione dell’attività, pur se finalizzata ad una migliore realizzazione dell’attivo.
La direttiva, dunque, individua soluzioni distinte e stabilisce specifiche deroghe nel caso di procedure concorsuali liquidatorie, anche se ne prevede, al fianco di queste, altre non necessariamente volte alla liquidazione o, ancora, che intendano realizzare tale fase attraverso la continuazione dell’esercizio dell’attività di impresa .
Le vicende circolatorie dell’azienda sono state prese, quindi, in esame dal nostro ordinamento in attuazione del procedimento di conformazione alle direttive comunitarie senza, tuttavia, una verifica della possibilità, o meno, del sistema di integrarsi con quello previsto dalla legge fallimentare per la liquidazione dell’attivo.
In passato, al contrario, era stato svolto un tentativo e la soluzione adottata era apparsa anche appagante.
In particolare, il sistema individuato nel capo sesto, sezione prima, degli artt.143-150 del progetto di riforma della legge fallimentare, predisposto dalla Commissione Pajardi, si era fatto carico di tali questioni e ne aveva individuato la soluzione riconoscendo la possibilità per l’Ufficio Fallimentare di procedere alla vendita dei beni, non solo nel loro insieme, ma riconoscendo, in particolare, al Giudice delegato un’ampia discrezionalità di scelta con possibilità, pertanto, di alienazione dell’azienda, nel suo complesso o nelle sue parti, senza incanto, mediante gara sull’offerta più alta, secondo la previsione del codice di procedura civile, ovvero anche ad offerta privata, pur se con l’onere di prevedere, nell’ordinanza relativa, lo svolgimento di una adeguata pubblicità commerciale per la migliore diffusione dei dati di interesse per i possibili partecipanti.
Il progetto, pur mantenendo l’originario inquadramento della vendita fallimentare nella più ampia categoria di quella giudiziale o forzata – disciplinata, nei suoi effetti, dagli artt.2919 e segg. del codice civile – consentiva, con riferimento all’azienda, il superamento delle inevitabili incertezze derivanti dalla interpretazione ed applicazione del sistema normativo vigente .
Il ricordato progetto di riforma aveva, dunque, il pregio di aver eliminato non solo le incertezze in ordine alla possibilità di alienazione dell’azienda, ma anche le altre esegetiche connesse all’applicabilità, o meno, ai trasferimenti coattivi delle disposizioni contenute negli artt.2112 e 2560 cod. civ., stabilendone la disapplicazione.
Non sarebbe, d’altronde, possibile una applicazione analogica delle norme relative alla vendita di aziende appartenenti ad imprese soggette ad amministrazione straordinaria laddove si consideri che, nel caso del fallimento, il prezzo in alcun modo può essere determinato in relazione alle diverse finalità tuttora riconosciute alla procedura di amministrazione straordinaria delle grandi imprese, pur se insolventi, per la quale, in precedenza, gli artt.2, comma secondo, 5bis e 6bis della legge 3 aprile 1979, n.75 ed, ora, l’art.63 del D. Lvo 8 luglio 1999, n.270, hanno fissato regole particolari per la determinazione del prezzo di cessione dell’azienda ispirate a criteri di calcolo della redditività anche negativa di questa avendo il legislatore, espressamente, previsto che “…ai fini della vendita di aziende o di rami di aziende in esercizio, l’acquirente deve obbligarsi a proseguire per almeno un biennio le attività imprenditoriali e a mantenere per il medesimo periodo i livelli occupazionali stabiliti all’atto delle vendita”.
Nel fallimento, e così anche nelle altre procedure concorsuali tipicamente liquidatorie, non si può tener conto, nella determinazione del prezzo di cessione, del prevedibile risultato anche negativo della gestione, nell’intento ed al fine di realizzare il mantenimento e, dunque, la tutela del livello occupazionale.
Vi è più di un motivo, pertanto, per ritenere il voluto sottosistema introdotto dall’art.47, quinto comma, della legge comunitaria, inadeguato non in sé e per sé, quanto, piuttosto, perché destinato a recedere con riferimento alle altre primarie esigenze che la legge fallimentare ha inteso garantire e non avendo, peraltro, questa previsto un sistema di vendita dell’azienda che possa permettere il funzionamento della procedura prevista dal legislatore per consentire l’attuazione della vicenda circolatoria mediante la disapplicazione della disciplina legale prevista per il trasferimento.
NOTE
Il testo del progetto di riforma della legge fallimentare può leggersi in Il fallimento, 1983, 1263.
Alcuni Autori non hanno, tuttavia, escluso questa eventualità. In tal senso: Verrucoli, La nozione di impresa nell’ordinamento comunitario e nel diritto italiano: evoluzioni e prospettive, in La nozione di impresa nel diritto comunitario, Milano, 1977, 392 e segg.; Gambino, Profili dell’esercizio dell’impresa nelle procedure concorsuali alla luce della disciplina dell’amministrazione straordinaria delle grandi imprese, in Giur.comm., 1980, I, 559.
Bione, Crisi dell’impresa e procedure concorsuali, in Giur.comm., 1974, I, 516 e segg.; Minervini, L’evoluzione del concetto di impresa (appunti per una ricerca), in Riv.soc., 1976, 496 e segg.; id., Nuove riflessioni sulla crisi di impresa, in Giur.comm., 1977, I, 689 e segg.; Jaeger, Crisi dell’impresa e poteri del giudice, in Giur.comm., 1978, I, 689; Di Lauro, Salvataggio o liquidazione dell’impresa in crisi?, in Dir.fallim., 1982, I, 786; Jorio, Salvataggio o liquidazione delle imprese in crisi?, in Giur.comm., 1983, I, 541; D’Alessandro, Interesse pubblico alla conservazione dell’impresa e diritti privati sul patrimonio dell’imprenditore, in Giur.comm., 1984, I, 53; Caiafa, L’azienda: suoi mutamenti soggettivi nella crisi di impresa, Padova, 1990, 513.
In precedenza il curatore, difatti, procedeva al licenziamento immediato dei dipendenti i quali, a seconda dei casi, potevano godere o del trattamento di integrazione salariale speciale loro riconosciuto dalla legge n.301 del 1979, oppure, di quello di disoccupazione stabilito dalla legge 5 novembre 1968, n.1115, posto a carico del fallimento in forza dell’interpretazione autentica dell’art.8, resa dal legislatore attraverso l’art.25 della legge 23 aprile 1981, n.155.
Difatti, attraverso tale disposizione il legislatore ebbe a stabilire, appunto, che il lavoratore che avesse cessato il rapporto, a seguito della dichiarazione di fallimento, avesse diritto al trattamento speciale che, prima di allora, era stato ritenuto non dovuto, per effetto di una interpretazione restrittiva compiuta da parte della giurisprudenza che, nell’individuare nell’esercizio provvisorio, unicamente ed esclusivamente, lo strumento per realizzare una migliore liquidazione dell’azienda (cui venvia conservata unità al solo fine della vendita in blocco) aveva escluso che al curatore fosse riferibile quella connotazione imprenditoriale, ritenuta presupposto indefettibile per il riconoscimento del diritto dei dipendenti trattenuti in servizio di poter beneficiare del trattamento di disoccupazione successivamente alla cessazione dell’esercizio provvisorio (in termini: Cass. 26 febbraio 1988, n.2069, in Il fallimento, 1988, 522; Cass.6 febbraio 1986, n.719, ivi, 1986, 966; Cass.18 dicembre 1984, n.6624, ivi, 1985, 416).
Tribunale di Roma, 10 agosto 1995, in Dir.fallim., 1996, II, 391.
In tal senso: Cass.10 febbraio 1999, n.1124; Cass. 3 novembre 1994, n.9052.
Magnani, Imprese in crisi nel diritto del lavoro, in Riv.it.dir.lav., 1991, I, 153, nota 25, che ha ritenuto operanti le conseguenze derivanti dall’art.2112 cod.civ. allorchè la continuazione dell’impresa sia stata autorizzata e l’esercizio sia in corso al momento del trasferimento.
La giurisprudenza ha ritenuto che la disapplicazione dell’art.2112 cod.civ. per i lavoratori passati alle dipendenze dell’acquirente deriva, in via automatica, dal fatto materiale della mera stipulazione dell’accordo e non già dal contenuto di questo che può – così come previsto – introdurre solo condizioni di miglior favore: Cass. 18 febbraio 1997 n.1462 in Riv.it.dir.lav., 1998, II, 150.
Cass. 28 marzo 1985, n.2187, in Foro it., 1986, I, 172; la stessa Suprema Corte 24 gennaio 1987, n.686, ha ritenuto che la norma di cui al secondo e terzo comma dell’art.1 della legge n.215 del 1978, che sancisce l’inoperatività delle disposizioni di cui all’art.2112 cod.civ., è, invero, espressione del principio generale di preminenza della salvaguardia del posto di lavoro sull’interesse della continuità dei singoli rapporti ed, in quanto tale, operante anche prima dell’entrata in vigore della norma stessa e della direttiva 77/187 che quel principio ha accolto.
Fimmanò, Fallimento e circolazione della azienda socialmente rilevante, Milano, 2000, 310.
In tal senso: Fimmanò, Fallimento e circolazione dell’azienda socialmente rilevante, cit., 295.
Tribunale L’Aquila, 27 ottobre 1999, in Mass.giur.lav. 2000 1/2, 27 con nota di Caiafa, Concordato preventivo con cessione dei beni, vendita dell’azienda da parte del liquidatore giudiziale e comportamento antisindacale.
E’ stato, difatti, precisato che la vendita forzata non si inquadrerebbe nello schema tipico del contratto, ma essendo il risultato dell’incontro di una volontà negoziale dell’aggiudicatario, o assegnatario, e di una imposizione coattiva dell’organo giurisdizionale, deve trovare più corretta sistemazione tra i provvedimenti giurisdizionali. Cass.17 giugno 1959, n.1872, in Giust.civ., 1960, I, 576.
Cass.9 dicembre 1966, n.2884, in Giust.civ., 1967, I, 955, con nota di Colasurdo, Questioni vecchie sempre nuove in materia di vendita immobiliare nel fallimento e fuori del fallimento; Cass.30 luglio 1980, n.4869, in Giust.civ., rep.1980, voce Esecuzione forzata, n.103, che ha ritenuto la vendita forzata una autonoma fattispecie complessa, rientrante nello schema dei trasferimenti coattivi, completata e perfezionata dal provvedimento di assegnazione.
Caiafa, L’azienda: suoi mutamenti soggettivi nella crisi di impresa, cit., 552.
Sull’argomento si veda la pregevole analisi svolta, in modo articolato ed esaustivo, da Bozza, La vendita dell’azienda nelle procedure concorsuali, Milano, 1988, 53.
Bonsignori, Vendita a trattativa privata di un complesso di immobili e mobili, in Dir.fallim., 1974, II, 667; Schettini, Natura dell’amministrazione fallimentare e liquidazione dell’attivo, in Dir.fallim., 968, II, 238; Valserra, Vendita (immobiliare) senza incanto e vendita a trattativa privata, in Dir.fallim., 1976, II, 492; Montesano, Sulla vendita fallimentare dell’azienda, in Riv.dir.proc., 1973, 19; Greco, Il fallimento da esecuzione collettiva ad espropriazione dell’impresa, Milano, 1984, 33; Scanzano, Relazione di sintesi, in La liquidazione dell’attivo nelle procedure concorsuali, in Il fallimento, 1987, 313.
Bonsignori, “La liquidazione dell’attivo”, nel commentario alla legge fallimentare a cura di Scialoja- Branca, Bologna-Roma, 1976, 120; Andrioli, voce “Fallimento”, in Enciclopedia del diritto, XVI, 440. Per la giurisprudenza: Cass.2 aprile 1985, n.2259, in Il fallimento, 1985, 1039; Cass.22 novembre 1978, n.5437.
Cass. 7 maggio 1999, n.4584, in Dir.fallim. 1999, II, 449 con nota critica di Ragusa-Maggiore, La circolazione dell’azienda in sede fallimentare; Cass.23 aprile 1998, n.4187; Cass.20 maggio 1993, n.5751.
Cass.29 aprile 1988, n.3236, in Il fallimento, 1988, 958, con nota di Bozza, La revoca dei provvedimenti del Giudice delegato autorizzativi della vendita dei beni mobili al miglior offerente.
Più di un Autore ha sottolineato la necessità di stabilire forme di vendita specifiche e, soprattutto, di sottrarre queste alle regole volute dalla disciplina concorsuale: Tarsia, La liquidazione dell’attivo nel fallimento, in Esecuzione forzata e procedure concorsuali, Padova, 1994, 647; Sparano, Il trasferimento di azienda, affitto e cessione nelle procedure concorsuali, in Dir.fallim., II, 1202; Fimmanò, Fallimento e circolazione dell’azienda socialmente rilevante, cit., 332 che, peraltro, ritiene la vendita in massa e quella senza incanto le uniche forme di liquidazione compatibili con sistema, per il loro necessario coordinamento, delle procedure di consultazione.
Lambertucci, La tutela del lavoratore nella circolazione dell’azienda, Torino, 1999, 71.
Corte di giustizia CEE, 17 dicembre 1995 – causa C472/93 – in Dir.lav., 1996, II, 123, con nota di Caiafa “Trasferimento di azienda in crisi e normativa comunitaria”.
La Corte Costituzionale ha riconosciuto la possibilità, peraltro, dei giudici di merito di disapplicare direttamente la norma interna, nell’ipotesi di incompatibilità di questa con disposizioni comunitarie, suscettibili di immediata applicazione, ed ha individuato questa oltre che nelle norme dei regolamenti e del trattato istitutivo anche in quelle presenti in direttive alla condizione, però, che abbiano requisiti di chiarezza e non siano subordinate ad ulteriori interventi degli Stati membri (efficacia c.d. verticale).
Al contrario nell’ambito delle controversie tra privati il giudice dovrà verificare se sussistano le condizioni, o meno, per applicare la norma interna in modo conforme alla direttiva, dovendo, ove ciò non sia possibile, chiedere l’intervento della stessa Corte di Giustizia (efficacia c.d. orizzontale).
Per la dottrina si vedano i contributi di Roccella, “La Corte di Giustizia e il diritto del lavoro”, Torino, 1997, 48; Santoro Passarelli G., “L’applicabilità e l’efficacia dell’ordinamento italiano delle norme comunitarie in materia di lavoro”, ADL, 1995, fasc.I, 59; De Luca, “Trasferimenti d’azienda e diritti dei lavoratori nell’ordinamento comunitario: inadempienza”, in Dir.lav., 1991, I, 232.
Silvestri, Liquidazione dell’attivo nelle procedure concorsuali e garanzia per i vizi della cosa, in Il fallimento, 1983, 1100, secondo il quale “…il carattere giudiziale coattivo della vendita fallimentare non dipenderebbe dalle modalità adottate per la liquidazione dell’attivo, ma dell’essere l’atto inserito nel processo esecutivo concorsuale e dal porsi, perciò, lo stesso, come momento necessario per il conseguimento della finalità espropriativa”.
Caiafa, L’azienda: suoi mutamenti soggettivi nella crisi di impresa, Padova, 1990, 548; id., Vicende circolatorie dell’azienda nel progetto di riforma della legge fallimentare, in Legalità e giustizia, 1987, I, 388.
Fimmanò, Fallimento e circolazione dell’azienda socialmente rilevante, cit., 200; Tarzia, “L’alienazione dell’azienda nell’amministrazione straordinaria”, in Riv.dir.proc., 1991, 33, id., L’alienazione dell’azienda nelle procedure concorsuali: profili giuridici, in Atti del Convegno S.I.S.C.O., su Gestione e alienazione dell’azienda nelle procedure concorsuali, Milano, 1991, 115; id., La liquidazione dell’attivo nel fallimento, in Giur.comm., 1989, 563.
Comments are closed
Sorry, but you cannot leave a comment for this post.