STORIA E STORIE – GENNAIO/MARZO 99 – PAG. 71
Appunti storici sull’insolvenza ed i suoi effetti di Maria Stefania Lazzari e Francesco Viroli 1. E’ più che noto che la storia dei singoli istituti giuridici dimostra che essi vengono lentamente specificandosi, fino a divenire un tutto organico, governato da leggi speciali, contrassegnate da caratteri propri. Queste, già presso i popoli più antichi, gli Ebrei, gli Egizi, i Greci, hanno in comune, come nota peculiare, il trattamento severissimo contro il debitore insolvibile: “qui non habet in aere, luat in corpore”, chi non ha denaro, paghi con il corpo. Invero, nei rapporti tra creditore e debitore, il vincolo patrimoniale si tramuta in vincolo personale, cosicché la principale garanzia del primo è costituita non dai beni, ma bensì dalla persona del secondo, che, in caso di inadempienza, è costretto al pagamento, ad esclusiva scelta del creditore, con le sevizie, con la schiavitù, con la morte. A questo principio si ispirò anche la primitiva legislazione romana. Le leggi delle XII Tavole (emanate nel 453 – 452 a.C.) attribuirono il debitore nella piena proprietà del creditore, che acquistava il diritto di tradurlo, con una catena al collo, nella propria casa, di percuoterlo con un nerbo di bue, di porlo in ceppi, di peso non maggiore di quindici libbre, con il solo obbligo di dargli giornalmente un pane di farro (“secum ducito, vincito, aut nervo aut compedibus quindecim pondo ne maiore, aut si volet, minore vincito, libra farris in dies dato”). Trascorso il termine di trenta giorni, se il debitore non pagava, o se in seguito alle pubblicazioni che dovevano farsi per tre mercati consecutivi, nessuno si presentava a pagare per lui, egli era posto in schiavitù del creditore, che poteva eseguirne la vendita agli stranieri al di là del Tevere, oppure ucciderlo, spartendone le membra con gli altri creditori: “tertiis nundinis partis secanto; si plus minusve secuerunt, ne fraude esto” (Tab. III, 6): dopo il terzo mercato sia fatto a pezzi; non commettono reato (i creditori che, in proporzione al credito vantato), ne dissezionano una parte maggiore o minore. Aulo Gellio, nel suo commento alla legge, che definisce “horrificam atrocitatis ostentu … nihil profecto immitius, nihil immanius … tanta immanitas poenae denuntiata est, ne ad eam unquam perveniretur”, si affretta a concludere: “dissectum esse antiquitus neminem neque legi, neque audivi”.[1] Ma questa del buon Aulo non è che una pia asserzione, seccamente e nettamente smentita dalla realtà storica. Soltanto nell’anno 428 di Roma (326 a.C.), autorevolmente afferma Tito Livio[2], una sommossa popolare, provocata, in generale, dal continuo susseguirsi del macabro rituale di cui erano vittime i debitori insolventi, e, nel caso particolare, dalla sodomizzazione del debitore, portò all’emanazione della “Lex Poetelia Papiria” che, ponendo il principio per cui la vera garanzia dei creditori doveva ricercarsi nel patrimonio e non nella persona del debitore, (“pecuniae creditae bona debitoris, non corpus obnoxium esse”), sovvertì radicalmente le basi del precedente regime dell‘insolvibilità. Inoltre il valore e l’importanza della legge Petelia sono accresciuti dal fatto che con essa venne introdotto il criterio distintivo tra due categorie di debitori. Essi furono assoggettati ad un diverso trattamento, a seconda che fossero di buona o di mala fede, prendendo cioè in considerazione se la loro inadempienza derivasse da mero infortunio o dalla frode. I primi furono sottratti all’esecuzione personale e per essi fu vietato l’uso del nerbo e dei ceppi (“ne quis in compedibus aut in nervo tenetur”). I debitori di mala fede, invece, (“qui noxam meruissent”), rimasero soggetti all’esecuzione personale e costretti “in compedibus”, come mezzo di coazione al pagamento e, al tempo stesso, come pena della frode, “donec poenam luerent”. Tutto ciò, tuttavia, non servì mai ad eliminare la pena dell’infamia che, sempre ed ovunque, marchiò i debitori insolvibili, denominati, nelle fonti romane di tutti i tempi, con i termini più disonorevoli: infames, fraudatores, diminuentes patrimonium, deceptores, conturbatores. I debitori, anche incolpevoli, soggetti alla “capitis deminutio”, erano pertanto esclusi dalle dignità civili e militari, dalle cariche giudiziarie, e da qualunque altro ufficio; non potevano essere accusatori nei giudizi penali, erano indegni di essere sentiti come testimoni, non potevano alienare, contrattare, prestare fideiussione. Neppure potevano essere spettatori dei pubblici spettacoli, fino a che l’Imperatore Adriano ebbe la brillante idea di consentire ai deceptores di assistervi, ma a condizioni anche peggiori dell’esclusione: costretti a sedere in un settore dell’arena loro riservato, da tutto il pubblico presente dovevano essere “catamidiati”, ossia sbeffeggiati, derisi, insultati, bersagliati da ogni genere di immondizie. Ma, con il passare del tempo, tutto questo si rivelò insufficiente, tanto che l’Imperatore Valentiniano ripristinò contro i debitori fraudolenti la pena capitale, che fu confermata anche da una successiva legge di Graziano. 2. Avvenuta la completa distruzione dell’Impero Romano di Occidente, nella seconda metà del secolo VI, causata dalla tremenda invasione in Italia dei Longobardi, al diritto dei vinti si sostituì quello dei vincitori, che comunque, per la ferocia, eguagliò quello decemvirale romano: la sorte riservata al debitore inadempiente rimase lo stato di schiavitù o la perdita della vita. 3. La dottrina, costretta a svilupparsi in un siffatto ambiente, (il quale, oltre tutto, era permeato dalla massima del diritto canonico “negotiantes, intendentes principaliter ad lucrum, eiciuntur de Regno Paradisi”), vi si adattò completamente e confermò la fondatezza delle norme del “jus decemvirale”, per cui gli insolventi, senza alcuna distinzione, dovevano essere posti in balìa dei creditori affinchè ne spartissero tra di loro le membra. Note [2] Titus Livius, Historiarum quod extat, editio Amsterdolami MDCLXXIX, liber VIII, cap. XXVIII, pag. 529. [3] F. Milone, Il concorso o il fallimento: studio di legislazione comparata, Bologna 1882, pag. 17. [4] E. Cuzzeri, Del Fallimento, Torino 1927, pag. 13, nota 4. [5] B. Straccha, De Mercatura seu mercatore tractatus, editio Venetiis MDLIII, tit. de conturbatoribus et decoctoribus, c. 172, part. VIII, cap. II, nu. 6. [6]Baldus, Opera omnia super varias partes iuris romani, editio Venetiis MDXCV Consiliorum, vol. V, cons. 399, nu. 3. [7]Baldus, Opera omnia super varias partes iuris romani, editio Venetiis MDXCV Consiliorum, vol. V, cons. 399, nu. 3. [8] A. Morri, Vocabolario Romagnolo – Italiano, Faenza 1840, sub voce “fali”, pag. 310. [9] G. Quondamatteo, Tremila modi di dire dialettali in Romagna, Imola 1973, volume primo, lettera C, pag. 47. |
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