L’ELOGIO DELL’INGIUSTIZIA E I RISCHI DELLA DEMOCRAZIA
da “La Repubblica” di Platone (discepolo di Socrate – 429-347 A.C.)
Una sera – narra Platone – a casa di Cefalo, padre di Polemarco, si trovano riuniti Socrate con Lisia, Eutidimo, Trasimaco ed altri. Mancando la televisione, si discute dei grandi temi e di cosa sia la giustizia. Ad un certo punto della conversazione, Trasimaco si lancia in un elogio dell’ingiusto che costringerà Socrate, il quale sostiene che nelle cose grandi anche i particolari più piccoli risultano meglio visibili, a costruire il più giusto degli stati. La Repubblica che Platone fa inventare al personaggio di Socrate, si fonda su tre idee rivoluzionarie: affidare il potere ai filosofi, assegnare identica dignità alle donne, se opportunamente educate alla filosofia e spossessare i governanti di ogni loro bene. Questa repubblica verrà anche confrontata con le altre forme di costituzione: il regno, l’oligarchia, la democrazia e la tirannide dando luogo a passi sconvolgenti per la loro attualità.
Trasimaco “E devi poi tenere presente questo, semplicione d’un Socrate, che in qualunque modo un uomo giusto ci perde rispetto ad un ingiusto.
Ciò vale anzitutto nei contratti d’affari: ogni volta che si associano un giusto e un ingiusto, non troverai mai che allo sciogliersi della società il giusto ci guadagni sull’ingiusto, bensì che ci perde. Poi, nei rapporti con lo stato: quando ci siano dei tributi da pagare, il giusto a parità di condizioni paga di più, l’altro di meno; e quando c’è da ricevere, l’uno non guadagna nulla e l’altro molto.
Quando l’uno e l’altro ricoprono una carica pubblica, al giusto succede, anche se non gli capitano altri guai, di veder andare sempre peggio i propri affari, non potendosene occupare, e di non ricavare dalla cosa pubblica profitto alcuno, a causa della sua giustizia; e di venire poi in odio ai familiari e ai conoscenti se non vuole favorirli per rispettare la giustizia. All’ingiusto accade tutto l’opposto. Mi riferisco a chi dicevo poco fa, a chi è assai abile a soverchiare. Ed è a questi che devi guardare, se è vero che vuoi giudicare quanto maggior utile egli ritragga dalla ingiustizia che dalla giustizia. Lo comprenderai senza fatica se ti spingerai fino a realizzare l’ingiustizia assoluta, che rende sommamente felice chi la commette e sommamente infelice chi la subisce e rifugge dal commetterla.
Parlo della tirannide, che con inganno e violenza porta via i beni altrui, sacri e profani, privati e pubblici, non un po’ alla volta, ma tutti in un colpo: e quando in ciascuno di questi ambiti uno viene sorpreso a commettere un atto contro giustizia, non solo viene punito, ma riceve anche i titoli più disonorevoli. A coloro che, ciascuno nel proprio àmbito, si rendono colpevoli di simili misfatti contro giustizia, si dà il nome di sacrileghi, di schiavisti, di sfondamuri, di rapinatori, di ladri.. Ma quando uno, oltre che delle sostanze dei concittadini, s’impadronisce delle loro persone e se ne serve come schiavi, anziché ricevere questi turpi titoli, ecco che è chiamato felice e beato non soltanto dai concittadini, ma anche da quanti vengono a sapere che ha realizzato l’ingiustizia assoluta. Chi biasima l’ingiustizia lo fa non perché tema di commettere le azioni ingiuste, ma perché teme di patirle. E così, Socrate, sempre che sia realizzata in misura adeguata, l’ingiustizia è più forte e più degna di un uomo libero e di un signore di quanto lo sia la giustizia; e, come dicevo fin da principio, la giustizia consiste nell’utile del più forte, e l’ingiustizia in ciò che comporta vantaggio e utile personale.
Platone, “La repubblica”, I, 343,344
Molte pagine dopo, quasi al termine dell’opera di edificazione dello stato giusto cui si è sobbarcato per contrastare Trasimaco, Socrate dice:
“E ora ci resterebbero da esaminare la più bella costituzione e il più bel tipo umano, secondo Trasimaco, ossia la tirannide e il tiranno. – Precisamente. – Su, caro amico, quale è il carattere della tirannide? E’ pressoché chiaro che risulta da una trasformazione della democrazia. – E’ chiaro. – Ora, non nascono in maniera pressappoco identica la democrazia dall’oligarchia e la tirannide dalla democrazia? – Come? – Quel bene, dissi, che i cittadini si erano proposti come obiettivo e che comportava l’instaurazione dell’oligarchia era la ricchezza eccessiva, non è vero? – Sì. – A rovinare l’oligarchia furono dunque l’insaziabilità di ricchezza e la noncuranza del resto, provocata dall’avarizia.. – E’ vero, disse. – Ora, a distruggere la democrazia, non è pure l’insaziabilità di ciò che essa definisce un bene? – Secondo te, che cosa definisce così? – La libertà, risposi. In uno stato democratico sentirai dire che la libertà è il bene migliore e che soltanto colà dovrebbe perciò abitare ogni spirito naturalmente libero. – Sì, ammise, è una frase molto comune. – Ebbene, feci, come or ora stavo per dire, l’insaziabilità di libertà e la noncuranza del resto non mutano anche questa costituzione e non la preparano a ricorrere fatalmente alla tirannide? – Come?, chiese. – Quando, credo, uno stato democratico è alla mercè di cattivi coppieri e troppo s’inebria di schietta libertà, allora, a meno che i suoi governanti non siano assai miti e non concedano grande libertà, li pone in stato d’accusa e li castiga come oligarchici. – Sì, si comporta così, disse. – E coloro, continuai, che obbediscono ai governanti li copre d’improperi, trattandoli da gente contenta di essere schiava e buona a nulla, mentre loda e onora privatamente e pubblicamente i governanti che sono simili ai governati e i governati che sono simili ai governanti. Non è inevitabile che in uno stato siffatto il principio di libertà si allarghi a tutto? – Come no? – E così, mio caro, dissi, vi nasce l’anarchia e si insinua nelle dimore private e si estende fino alle bestie. – Come possiamo dire una cosa simile ?, chiese. – Per esempio, risposi, nel senso che il padre si abitua a rendersi simile al figlio e a temere i figlioli, e il figlio simile al padre e a non sentire né rispetto né timore dei genitori, per poter essere libero; e che il meticcio si parifica al cittadino e il cittadino al meticcio, e così dicasi per lo straniero. – Sì, avviene così, rispose. – A questo si aggiungono, ripresi, altre bagattelle, come queste: in un simile ambiente, il maestro teme e adula gli scolari, e gli scolari s’infischiano dei maestri e così pure dei pedagoghi. In genere i giovani si pongono alla pari degli anziani e li emulano nei discorsi e nelle opere, mentre i vecchi accondiscendono ai giovani e si fanno giocosi e faceti, imitandoli, per non passare da spiacevoli e dispotici. – Senza dubbio, disse. – Però, mio caro, feci io, l’estremo della libertà cui la massa può giungere in un simile stato si ha quando uomini e donne comperati sono liberi tanto quanto gli acquirenti. E quasi ci siamo scordati di dire quanto grandi siano la parificazione giuridica e la libertà nei rapporti reciproci fra uomini e donne. – Ebbene, fece, con Eschilo non “diremo quel che ora è venuto alle labbra”? – Senza dubbio, risposi, così dico anch’io. Consideriamo le bestie soggette agli uomini: nessuno potrà persuadersi, senza farne esperienza, di quanto siano più libere qui che in un altro stato. Le cagne, per stare al proverbio, sono esattamente come le loro padrone; e ci sono cavalli e asini che, abituati a camminare in piena libertà e solennità, cozzano per le strade contro i passanti, se non si scansano. E dappertutto c’è questa libertà. Ora, ripresi, non pensi quanto l’anima dei cittadini si lasci impressionare dal sommarsi di tutte queste circostanze insieme raccolte, al punto che uno, se gli si prospetta anche la minima schiavitù, si sdegna e non la tollera? E tu sai che finiscono con il trascurare del tutto le leggi scritte o non scritte, per essere assolutamente senza padroni. – Certo che lo so, disse.
Platone, “La repubblica” 561, 562, VIII
Nota: pubblicato su “La rivista dei Curatori Fallimentari” gennaio /marzo 1997
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