L’Opera di Roma tra vizi e virtù Intervista all’avvocato Vittorio Ripa di Meana, già commissario alla Sovrintendenza del Teatro dell’Opera di Roma
Se c’é una qualità che riesce subito a comunicare Vittorio Ripa di Meana, quella è la consapevolezza. Una pacata, autorevole consapevolezza. La stessa che gli ha permesso di condurre contemporaneamente, come avvocato d’impresa, uno degli studi più avviati e prestigiosi di Roma e come Presidente degli Ospedali Riuniti assumersi in un recente passato anche la responsabilità di una struttura con 12.000 dipendenti, fra cui 3.000 medici ospedalieri. A confronto l’incarico di Commissario del Teatro dell’Opera di Roma, rilevato in un momento di grande difficoltà, finanziaria e operativa e ormai traguardato verso la salvezza, sembra infinitamente più leggero.
Ha sentito, avvocato, il peso di questa responsabilità?
“Diciamo che all’Opera di Roma ho potuto esprimere la mia passione e forse anche la mia competenza di musicofilo – sono Presidente dell’Associazione Amici di Santa Cecilia – coniugandola con il ruolo che mi è più congeniale, quello manageriale.
Quando ho ereditato la gestione delle Ente Lirico, c’erano miliardi di passivo, causati non solo da sprechi, ma anche da grandi fermenti culturali. Quella del Soprintendente Cresci è stata infatti una gestione artistica vivace e futuribile, ma sproporzionata rispetto alle esangui finanze del teatro. Lei mi chiede se siamo stati sull’orlo del fallimento; in un certo senso questo è stato lo spauracchio più terribile, anche perché non ne avremmo potuto godere i benefici.
Così sono stato costretto a prendere decisioni impopolari: avevamo i creditori alle porte, arredi e poltrone pignorate, lavoratori in grande agitazione. Ho tagliato tutto quello che potevo, quasi senza interrompere la programmazione, anche se con stagioni all’insegna dell’austerity. Ho dovuto ridefinire contratti di lavoro e intervenire pesantemente nel risanamento del bilancio. Mi sono guadagnato delle antipatie, come se fossi una controparte, e addirittura mi sono trovato stretto in un paradosso, cioè quello di ospitare all’interno del teatro una manifestazione contro di me.
Ma l’esperienza maturata negli Ospedali Riuniti, e anche il mio amore per la musica, sono riusciti a farmi condurre la barca in porto; ora, non solo non siamo “falliti”, ma anzi, stiamo ristrutturando una parte del Teatro e siamo pronti ad affrontare il secondo, travagliato passaggio verso una più profonda trasformazione e il completo sviluppo di tutte le nostre potenzialità”.
Vittorio Ripa di Meana sorride ricordando i suoi “autunni caldi”, consapevole, appunto, di aver fatto, come commissario, il massimo, a cavallo tra il suo studio e gli uffici del Teatro con ritmi di lavoro pazzeschi, che rasentano le 14/16 ore al giorno. “Non potrò continuare così, mi sembra sempre di trascurare qualcosa, anche perché bisogna assicurare l’aggiornamento della vita artistica, attualizzandola, promuovendo incontri, presenziando a stagioni e prime, e per fare tutto questo viaggi e spostamenti sono all’ordine del giorno”. Mentre ci guardiamo intorno tra mobili d’epoca e quadri del ‘700 – “opera del Chiaruttini, un regalo della famiglia di mia moglie, una Buitoni” – l’avvocato Vittorio Ripa di Meana ricostruisce per noi il possibile scenario dell’impresa del Teatro dell’Opera di Roma, tra passato e presente e con un futuro proiettato verso una concezione europeistica per la conduzione del mondo della lirica.
Possiamo dire che l’impresa teatro sia in crisi? Ci sono grandi difficoltà a progettare soluzioni?
“Più che parlare di crisi del teatro, che conta un pubblico fedele in continuo incremento, direi piuttosto che è sorpassata e obsoleta la gestione attraverso la struttura dell’Ente Lirico. Con le attuali modalità di gestione, è quasi impossibile funzionare agilmente, tutto è burocraticamente lento, pesante: devo indire gare di appalto anche per soddisfare le esigenze più elementari, che dirle, per comperare la carta per le fotocopie. Così rischio continuamente e personalmente, perché mi trovo a dover forzare le norme di urgenza per mandare avanti i lavori durante la preparazione e la messa in scena delle opere e per poter soddisfare le più semplici necessità delle maestranze e dei registi.
Quando l’Ente Lirico sarà trasformato in Fondazione, potremo fare un salto di qualità incalcolabile. Infatti, improvvisamente, si potrà agire come in un’azienda privata, a cominciare dai finanziamenti più semplici, ottenibili dalle forme di merchandising: vendita di cd, libretti d’opera, video, libri e ricordi dell’Opera di Roma. Per arrivare fino al fortissimo apporto di capitali privati per singole operazioni, in modo da poter ottenere in cambio dei benefici d’immagine. In questi anni, infatti, la sponsorizzazione culturale è divenuta un vero e proprio fiore all’occhiello delle grandi imprese, quasi una forma di nuovo mecenatismo che mette in gara le industrie tra di loro e che sarà possibile incrementare ulteriormente con l’arrivo delle norme per una più completa defiscalizzazione che sono state appena deliberate (1).
Insomma, è in declino il finanziamento pubblico e questo declino è inarrestabile soprattutto in un Italia, che deve adeguarsi e confrontarsi con le nuove istanze di federalismo. Se il Teatro dell’Opera di Roma è una ricchezza della città e del suo territorio, ebbene la città si paghi il suo teatro. Questo concetto di base porterebbe ad un risanamento dei conti e a un incremento di potenzialità. La Fondazione può muoversi con stile e modi da privato, può vendere ed acquistare, può accordarsi con altri teatri e permette una gestione snella ed efficiente, con tempi adeguati al veloce evolversi della cultura dello spettacolo.
Perché comunque l’opera lirica non regge più la concorrenza con altri tipi di spettacolo?
Per tradizione l’Opera, che pure è trainante nell’ambito della cultura artistica, non riesce a ripartire il costo dell’evento sul numero dei posti anche se moltiplicandolo per il numero delle repliche. Anche l’Arena di Verona, con i suoi 12.000 spettatori riesce a coprire solo il 40% delle spese. Nella lirica il rapporto costi-ricavi è il più strano che ci sia. Per uscire da questa situazione, bisogna aumentare la domanda, migliorare l’offerta e soprattutto allungare le stagioni, monetizzando tutti i possibili indotti. Per prima cosa bisogna creare un “circolazione artistica” scambiando con altri teatri europei il nostro patrimonio di cultura, di uomini e di mezzi. Ora ho una trattativa con Londra. In alcuni stati esteri, come in Germania, la stagione artistica dura 12 mesi; tenendo conto di questa opportunità il nostro coro, la nostra orchestra e lo stesso corpo di ballo potrebbero continuamente essere impegnati in tournée. Insomma potremmo esportare intere produzioni laddove la domanda lo consenta e soprattutto potremmo valorizzare le scuole che sorgono all’ombra del teatro: la scuola di danza, la scuola di canto. E questo favorirebbe anche un ricambio generazionale di artisti.
Assicurando la mobilità della nostra produzione artistica non solo otterremmo vantaggi economici, ma anche vantaggi d’immagine. Abbiamo scenotecnici tra i migliori d’Europa, e potremmo anche attingere alle nostre “riserve auree” di scenografie e sartorie: potremmo ad esempio riportare alla luce costumi bellissimi, progettati con infinita cura, che spesso languono improduttivi nei magazzini. Un’altra maniera per contenere i costi è quella di concepire e progettare delle scenografie che con qualche variazione possano servire per più opere. E ciò è possibile se il periodo storico è lo stesso e lo consente. A primavera abbiamo messo in scena l’Andrea Chenier e la Bohème riuscendo a mantenere lo stesso fondale per tutte e due. L’effetto è cambiato completamente modificando solo le prescene, le sovrascene e alcune finestrature. Abbiamo attinto, sempre per problemi di budget, al grande serbatoio degli artisti dell’Est, molto bravi e professionali ma con poche pretese. Alcuni addirittura li abbiamo lanciati noi a livello internazionale e mondiale, come è successo per la Kulagina due o tre anni fa.
Un altro modo per far vivere il teatro fuori stagione potrebbe essere la costituzione di un Museo del Teatro. Il Teatro dell’Opera di Roma possiede bozzetti e scenografie straordinari, addirittura di De Chirico, senza contare il grandissimo patrimonio di costumi, scene e macchine che hanno visto avvicendarsi le più grandi firme artistiche del mondo. Con il Museo il turista del “villaggio globale”, anche arrivando fuori stagione, potrebbe passare all’Opera e goderne l’atmosfera e la storia. Anzi alcune mostre a temi monografici all’interno dello stesso museo potrebbero diventare eventi itineranti in tutto il mondo.
Qual é il comportamento degli artisti verso la crisi dell’evento culturale?
In Italia non si riescono ad allestire facilmente stagioni con star come Pavarotti, ormai imprendibile per il suo cachet. Diciamo che oscilliamo tra gli eventi americani estremamente costosi, vere e proprie “imprese”, e quelli mittel-europei dove l’opera è un fatto cosi popolare e che non richiede investimenti così massicci. In Germania non esistono calendari brevi, come abbiamo detto, ma un medio buon livello artistico con ottimi professionisti e un continuo susseguirsi di rappresentazioni, per cui la stagione non finisce mai e il teatro è aperto dodici mesi l’anno. Questo continuo avvicendamento di artisti e maestranze fa in modo che il personale dell’opera abbia gli organici raddoppiati con tutto vantaggio dell’occupazione e del consumo da parte del pubblico del melodramma. Basti pensare che quasi non esistono le prove. In Italia invece l’accento è posto sulla raffinatezza, sulla cura del particolare, sulla novità. Eppure da noi la grande affermazione di pubblico la scatena, non solo la star, ma l’opera di grande repertorio: Verdi , Donizetti. Il pubblico accorre per l’Aida e la Turandot, meno per lo opere di minore fama.
Possiamo avere qualche anticipazione della nuova stagione?
Il nuovo direttore artistico, Vincenzo De Vivo, ha deciso di inaugurare con i Vespri Siciliani e chiudere con il Barbiere di Siviglia. Comunque le novità non sono finite: la stagione estiva a piazza di Siena è andata benissimo e il mio sogno è quello di ipotizzare un prossimo ritorno dell’Opera a Caracalla. Stiamo studiando dei sistemi rispettossisimi dell’aerea archeologica, addirittura con degli impianti scenografici montati completamente su pianali mobili, basculanti, insomma dei tir che scaricano e poi spariscono per ritornare alla fine della stagione, smontare tutto e portarlo via. Non è una cosa facile: Veltroni è molto favorevole ma i tempi di realizzazione per una simile impresa tra autorizzazioni, concessioni e benestare sono abbastanza lunghi Con un po’ di ottimismo potremmo pensare di tornare alla stagione estiva a Caracalla alla fine del 1999, alla vigilia del Giubileo.
Dunque il Comune di Roma e la nuova Giunta sono sensibili al problema dell’Ente Lirico del Teatro dell’Opera di Roma?
Direi di più. Rutelli ci aiuta moltissimo.Il governo Prodi – in particolare Veltroni, che ne ha fatto una questione personale – ha promesso di trasformare il decreto delegato approvato in extremis dal governo Dini in legge e questo dovrebbe accelerare il passaggio dall’Ente in Fondazione prima dell’estate prossima. Poi la trasformazione completa dovrebbe avvenire in tre anni, così i cambiamenti saranno graduali. Ma già il Comune e la Giunta contribuiscono in modo vigoroso non solo al sostegno ma anche alla sopravvivenza e al restauro del Teatro dell’Opera.
Ma insomma, avvocato, come ha fatto a risanare questa gestione?
Diamo lavoro a 250 tecnici, 311 dipendenti artistici e 111 dipendenti amministrativi e dobbiamo ripianare ogni anno 70 miliardi. Venti miliardi li stanzia lo Stato, 20 il Comune di Roma, 7/8 miliardi sono di introiti e poi ci sono le economie e gli sponsor istituzionali, tra i quali la fedelissima Telecom. Ma come ho detto bisogna passare dal contenimento dei costi allo sviluppo dell'”impresa melodramma”.
In questi ultimi anni sono spariti teatri come il Petruzzelli a Bari e la Fenice a Venezia. Non è una perdita per la cultura, e la civiltà delle nostre città?
Diciamo la verità: i teatri sono vecchi, costruiti con tecniche ottocentesche e sarebbero tutti da ristrutturare. Una volta il fuoco era un evento assolutamente prevedibile, anzi messo nel capitolo delle cose possibili. A Stratford On Avon è stato inaugurato poco tempo fa il Teatro di Shakespeare, distrutto dal fuoco come tanti altri e oggi ricostruito identico a quello che vide calcare le scene dal grande Maestro. E’ stato rifatto con una cura quasi ossessiva dei dettagli e un’assoluta fedeltà nella ricostruzione, addirittura una parte del pubblico assiste all’aperto e se piove apre l’ombrello. Dunque i teatri risorgono, ma certo non bisognerebbe lasciare che le strutture diventino fatiscenti fino a provocare la tragedia.
Anche il Teatro dell’Opera di Roma era “a rischio”, in pratica quasi non era più agibile; abbiamo avuto un contributo di 45 miliardi e ormai siamo in piena ristrutturazione. Tutto l’impianto elettrico è stato sostituito adattandolo alle nuove norme di sicurezza, abbiamo dovuto cambiare con materiali ignifughi tende, tappezzerie , scenari, scenografie. Ogni volta che entro e lo vedo così smobilitato, le poltrone smontate, le gallerie in disuso, un andirivieni di carpentieri, muratori, ho un tuffo al cuore. Ancora non so come faremo a riaprire il 9 gennaio eppure per quella data sarà tutto nuovo e tutto lucido: è il miracolo dello spettacolo.
Avvocato, ci dica dall’alto della sua professionale consapevolezza e del suo amore per la musica, dov’è l’anima del teatro? Esiste il “fantasma dell’Opera”?
I miei uffici sono proprio dietro i palchi, al primo piano. Spesso è notte quando smetto di lavorare e non c’è più nessuno. Le luci sono spente, qua e là solo la luminescenza opaca delle luci di emergenza. Scricchiolii. E come un soffio, le pareti vibrano nel ricordo della grande musica, la restituiscono, si sente, aleggia quà e là qualcosa di indefinibile e anch’io sono colto dall’emozione. E’ quando è buio che il teatro vive, nel ricordo di quello che tornerà ad essere. Come certe maestranze, artisti che del teatro hanno fatto la loro vita e che in fondo ne incorporano l’anima. Luoghi e oggetti carichi di storia e di emozioni che, anche se coperti di polvere, conservano l’aura dell’arte. Un’atmosfera piena di attesa prima che le rappresentazioni ricomincino e che si accendano ancora le luci della ribalta. Sì, credo che il fantasma dell’Opera esista, anche se non l’ho mai incontrato. Del resto, atarda sera, preferisco uscire dalla scala degli uffici.
Nota: pubblicato su “La rivista dei Curatori Fallimentari” ottobre/dicembre 1996
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