IN FAMIGLIA |
Mentre le cronache recenti riportano alla ribalta il tema della
violenza sui minori e finalmente l'argomento accende i dibattiti alla Camera,
abbiamo voluto approfondire con la lente del giurista un tema legato al
complesso mondo dell'infanzia e della famiglia.
L'intervista
che pubblichiamo propone un osservatorio particolare e le considerazioni di un
giudice del
Tribunale per i Minorenni,
Vittoria Correa, che ha rivissuto con noi
la sua esperienza, a volte drammatica, a volte dagli esiti felici. E’ comunque un osservatorio impietoso, la punta di un iceberg
dal quale prendere le mosse per un'analisi distaccata della famiglia in
difficoltà, non priva tuttavia di aperture alla speranza.
Vittoria
Correa, giudice da dieci anni al Tribunale per i Minorenni di Roma, per sei
anni al Civile e ora al
Penale, madre di due figli, è una donna dal magnetismo vibrante: capelli
cortissimi, zigomi alti, ironica, scattante, facile a rabbuiarsi e altrettanto
facile ad aprirsi nel sorriso. Sembra uscita da una sceneggiatura televisiva,
così efficiente e sicura, piena di energia,
rassicurante nel coniugare il peso di grandi responsabilità con il coraggio di
affrontarle.
Quali sono i mali della
coppia e in che modo il costume e la società ne partecipano? Come si arriva
alla violenza e come si rimedia? Cerchiamo in principio di
capire come la famiglia si sia trasformata e perché.
La
famiglia che ho sotto gli occhi, quella che è oggetto
delle cure del "Tribunale per i Minorenni", è prevalentemente una
famiglia malata, preda di gravi disagi. Diciamolo subito, il mio è un
osservatorio patologico: bambini che subiscono pesanti privazioni, quando non
violenze, genitori tossicodipendenti, condizioni sociali e sanitarie spesso estremamente carenti, ragazzi emarginati, magari perché
sieropositivi, bimbi abbandonati a poche ore dalla nascita, affidamenti,
adozioni...
Quando va bene, poi, ci sono le cosiddette "famiglie
normali", con le loro vicende di separazioni, liti, ragazzi contesi tra
padre e madre e quindi al centro di conflitti, contrasti che sul piano
psicologico non si rivelano meno gravi.
C’è
stata una evoluzione soprattutto dopo l'introduzione
del divorzio: la famiglia ha acquisito dimensioni "allargate",
fisionomie diversificate e inedite: ci sono le famiglie di fatto, quelle che
rinascono dalla decomposizione delle famiglie precedenti, nuove coppie che
devono convivere con i figli di lui e di lei, nuove parentele.
Alchimie
diverse e a volte difficili, equilibri fragili, anche perché privi di modelli
nelle precedenti generazioni.
Ma non è tanto questo che ha cambiato la sostanza della vita
familiare, quanto un modificato atteggiamento degli individui che hanno formato
le nuove famiglie.
Sono cioè
cambiati i protagonisti della vita familiare?
E'
proprio così. Da una parte ci troviamo di fronte ad un eterno protrarsi del
tempo dell'adolescenza e cioè ad adulti che non
vogliono uscire dalla tutela paterna, tardano a prendere contatto con il mondo
del lavoro e non si fanno carico di nessuna responsabilità.
Ma dall'altra ci sono bambini troppo informati, troppo
sollecitati dalle immagini prepotenti del video, dalle emozioni forti, dalle
comunicazioni violente. E il continuo assorbimento
percettivo determina un'intelligenza che si sviluppa per immagini e non per
concetti, che rende più difficile distinguere la realtà dalla fantasia e
allarga il confine tra l'io e l'ambiente circostante.
L'infanzia
tende a scomparire, mentre la vecchiaia è rimossa e allontanata, evitata in
ogni modo e, tra le due, si dispiega una lunga adolescenza che si vorrebbe non finisse mai. I vecchi concetti di maturità e di crescita,
affidati alle possibilità di correlare i fenomeni tra di
loro e al principio di causa-effetto, sono in disuso; la sicurezza non è più la padronanza di sé, ma
l'appoggiarsi alla soluzione sociale che bene o male, prima o poi, provvederà.
Oltre a queste trasformazioni
psicologiche, negli ultimi venti anni è accaduto qualcos'altro di nuovo?
Sì,
molte cose. Tra queste ha assunto grande importanza, in senso negativo, la
droga. L'estendersi in maniera stabile dell'uso di sostanze stupefacenti a
fasce di adulti in condizioni di procreare, ha colpito
profondamente la famiglia. Entrare nella spirale della droga determina una fase
critica, che coinvolge, oltre agli adolescenti, un segmento di persone, uomini
e donne tra i 20 e i 35 anni, alla fine della quale o c'è la morte o la
disintossicazione.
E
in questo lasso di tempo i figli che sono nati hanno
genitori che si chiudono in loro stessi, incapaci di prendersi cura di
alcunché. Il genitore drogato incide pesantemente sullo sviluppo del minore,
non solo per motivi sociosanitari, ma anche perché rappresenta un modello di
comportamento instabile, fragile e velleitario, in preda a forti crisi emotive.
I
ragazzi che crescono, dai più piccoli fino all'età difficile dell'adolescenza,
hanno bisogno di certezze, di ambienti tranquilli e
sicuri, di abitudini stabili e di limiti che non possono avere da chi non li
pone a se stesso. E non sempre i nonni, gli zii, le
persone vicine in qualche modo al tossicodipendente, sono in grado di offrire
queste certezze. Il mix diventa esplosivo se alla droga si aggiunge
l'indigenza.
Ed è così che nei casi più gravi il giudice deve decidere se e
come allontanare il minore dalla sua famiglia. E sono
decisioni pesanti. Certo, la legge prescrive dei
criteri oggettivi che vanno puntigliosamente rispettati: si cercano prima di
tutto referenti nella cosiddetta "famiglia allargata", cioè i parenti
fino al 4° grado. Purtroppo, più aumentano le condizioni di povertà
socioculturale e più è difficile coinvolgere il
contesto. Per questo motivo, può avvenire che la stessa situazione, rapportata
a classi sociali diverse, comporti da parte del giudice scelte differenti.
In quali condizioni nascono
gli abusi sessuali commessi sui minori tra le mura domestiche?
Sicuramente
la promiscuità è una delle cause; le altre sono la cultura della forza bruta e
quella dell'impunità, l'alcolismo e l'uso di qualunque sostanza che scardini i freni inibitori.
Purtroppo
la violenza sui minori all'interno del nucleo familiare non è una novità; ad
esempio, l'incesto esiste da sempre e, con tutta probabilità, non è un
fenomeno in aumento E' l'intervento dei
mass-media che oggi ci rende più sensibili e partecipi. La violenza maschile,
spesso di nonni, zii e cugini sulle bambine è sempre esistita, senza contare
quella di alcuni padri veri o acquisiti. Quello che è
cambiato è il comportamento delle donne all'interno della famiglia: ora escono
dal silenzio e dalla paura e, denunciando senza riserve, esercitano una
maggiore tutela nei confronti dei figli. Questo accade anche perché le donne
sono socialmente più forti e quindi hanno minore spirito di subordinazione.
Esistono
in verità anche quelle che chiamiamo "madri maltrattanti", ma sono
più rare. Si rendono colpevoli soprattutto di violenza fisica e psicologica e
talvolta di violenza sessuale, alle quali si aggiunge, particolarmente in
ambiti territoriali più ristretti rispetto alla metropoli, quella della
riprovazione sociale. Da queste esperienze il bambino o l'adolescente resterà
marcato a vita. Al giudice non resta
che il tentativo, se praticabile, di sradicare questi minori, strapparli
da un ambiente malato e ricontestualizzarli in una nuova situazione.
Quello dello “strappo” è un
momento particolarmente critico?
Certo, qualunque sia la causa che lo
determina, soprattutto perché spesso si trascina nel tempo. Non sempre si possono prendere
provvedimenti immediati. Una fatica che dura certe volte anche due-tre anni,
tra minacce, disperazione, pianti, promesse quando si deve decidere
sull'adottabilità, cioè togliere dalle braccia dei
genitori i figli e viceversa. E non conta che queste braccia siano
letali. Nella confusione di valori e di ruoli tutto acquista le fosche tinte
del dramma. A volte non abbiamo dubbi, a volte la situazione
è meno chiara. É un lavoro che ti fa riflettere, che non ha orari, né vacanze, né feste comandate. Lo “strappo” non è
solo una metafora. Si tratta di una vera e propria lacerazione di affetti e di abitudini, alle quali il giudice è chiamato
a provvedere istituzionalmente, ma il coinvolgimento personale è dei più
logoranti.
Quanto contano
i desideri dei piccoli? Sono rispettati come persone?
Non
sempre si può tenere conto delle loro preferenze, che talvolta si formano
distorte e su presupposti sbagliati. D’altronde, ritengo anche che ad ogni
bambino debba essere lasciata la sua infanzia e che non debba sentirsi
responsabile, non debba decidere della sua vita. Anche questo, secondo la mia opinione, significa rispettarlo
come persona.
I
minori non hanno la possibilità di valutare e, per di più, a volte tra genitore
maltrattante e bambino maltrattato si instaura un
rapporto morboso e patologico, un attaccamento viscerale. É
una sindrome ben nota agli psicologi, che si protrae nel tempo. E’
chiaro, comunque, che le inclinazioni affettive del
minore, se possibile, vengono tendenzialmente favorite.
Esiste una Carta dei diritti
dei minori?
Certo,
si tratta della convenzione delle Nazioni Unite sui diritti dell'infanzia
ratificata dall'Italia nel 1994 e quindi divenuta legge dello Stato. Questo
agevola molto i rapporti interstatuali, ma non cambia nulla nella sostanza
delle nostre leggi interne, già adeguate alla Convenzione ed
anzi più avanzate di quelle degli altri Paesi Europei.
Passiamo dai mali
dell'infanzia al difficile periodo dell'adolescenza. In quale misura se ne
interessa il Tribunale per i minori?
Vorrei
dire subito che la scolarizzazione è il più forte
antidoto alla delinquenza minorile. Invece, specialmente
nelle fasce meno abbienti, si sottraggono i ragazzi anche alla scuola
dell'obbligo, senza parlare delle scuole superiori. Questi adolescenti
si riversano senza controllo sulle strade, si formano piccole bande,
all'interno delle quali si sviluppa la mini-criminalità.
La
strada è "la scuola della vita" peggiore: si comincia dai piccoli
reati cosiddetti "bagatellari", per proseguire con le prevaricazioni,
ed approdare al vandalismo, agli atti contro il patrimonio, al furto, alla
ricettazione, al piccolo spaccio.
Queste
situazioni sono spesso transitorie, e
trovano a volte fine in un impegno maggiore della famiglia o in una soluzione
affettiva dei problemi, se ad esempio l'adolescente trova la sua anima gemella.
Diventano invece situazioni permanenti quando l'influenza funesta della strada
prevale e la piccola banda si sostituisce alla famiglia.
Le
cose non migliorano di molto se questi giovani cercano un inserimento
lavorativo: vengono spesso sfruttati per i lavori più
pesanti e più sporchi, sono pagati male e non hanno gratificazioni, così
smettono e ritornano in strada. Va quindi riconfermato il ruolo primario della
scuola nella prevenzione.
In questa situazione
generale, la problematica dei minori nomadi assume aspetti particolari?
I
nomadi hanno una storia a parte, con diverse tradizioni. Molti conoscono le
possibilità di aggirare la legge. Io, ad esempio, per molto tempo mi sono
ritrovata davanti, arrestata, una nomade
con ben 52 precedenti giudiziari, per la maggior parte furti, che continuava a
dichiararsi minore di quattordici anni nonostante ci "conoscessimo" da tempo e avesse già due figli.
Un
altro problema sono gli extracomunitari clandestini;
adolescenti senza esercenti la potestà genitoriale e senza documenti, in totale
abbandono e lontani da tutto. Un esercito di disperati. Abbiamo diversi casi di
questi figli "senza terra" e senza nessuno che si occupi di loro, che
non sono in grado di ipotizzare che potrebbero fruire
degli aiuti che pure sono previsti dalla legge. Paradossalmente, l'unico
momento in cui possiamo aiutarli è quando commettono reati perché vengono messi in condizioni di raccontare la propria storia.
Spesso ritengono di essere impunibili: credono di
poter fare qualunque cosa, forniscono false generalità e raccontano che un
tempo avevano i documenti, ma che gli extracomunitari adulti, o più esperti,
hanno consigliato loro di buttarli per sfuggire ad ogni controllo e per
rimanere per sempre in Italia.
I 14 anni sono una barriera
tra la condizione di non imputabilità e una assunzione
di maggiore responsabilità?
Sotto
i 14 anni c’è la presunzione assoluta di non imputabilità; tra i 14 e i 18
anni, il giudice deve decidere caso per caso se sussista o
meno la capacità di intendere e di volere del minore.
Ad
esempio un ragazzo che ha commesso circa 50 furti di motorini e che si è fatto
prendere tutte le volte per il modo in cui agiva, è stato ritenuto immaturo;
come pure un altro che aveva la mania dei taxi, quelli gialli, e
immancabilmente, dopo averli rubati, li posteggiava, sotto casa.
Va
detto che il codice di procedura penale minorile pone l’accento sia sulla necessità
di non interrompere i processi educativi in atto in favore del minore, sia sul
suo reinserimento.
Conseguentemente
sono previsti alcuni istituti, quali ad esempio, il perdono giudiziale e la
messa alla prova, che possano essere applicati, quando ne ricorrano
i presupposti, proprio per favorire il processo di crescita del ragazzo e farlo
uscire dal circuito penale nel modo più indenne possibile.
Come fa un giudice del Tribunale per i Minori sia Penale che Civile ad avere la
competenza e la serenità nell'affrontare casi tanto diversi?
Nel
momento cardine del giudizio il giudice minorile non è mai solo in quanto le decisioni sono prese in Camera di Consiglio. A
questa partecipano sempre due giudici onorari che per legge devono essere un
uomo ed una donna (psicologi, sociologi o esperti della materia) i quali hanno nella decisione lo stesso “peso” dei giudici
“togati” ed apportano la propria specifica competenza.
Questi
esperti coadiuvano il giudice anche in situazioni particolarmente delicate: ad
esempio, può essere loro delegato l’interrogatorio di un bambino molto piccolo
o che abbia subito un forte shock. Le difficoltà che abbiamo sono enormi, ma
esiste una grande tensione e una grande ansia per non
aggiungere violenza a violenza.
Esiste dunque una specie di
cuscinetto, un filtro tra il giudice e la famiglia, costituito dal lavoro degli
assistenti sociali?
Il
servizio sociale del Ministero, circoscrizionale o delle UU.SS.LL., è il grande coadiutore del giudice minorile: sono gli
assistenti sociali ad esercitare il difficile compito di controllo e di
sostegno nei singoli casi. Quindi la collaborazione
tra giudice e servizio sociale è massima; meno facile è quella tra servizio
sociale e famiglia d'origine.
Dopo aver accennato alle
forze distruttive che possono operare all'interno della famiglia, passiamo alla
fase della ricostruzione, funzione non meno importante del Tribunale per i
Minori. Ci sembra di capire che il ruolo del giudice si capovolga, diventando
soggetto attivo nella ricerca di una soluzione. In cosa consiste questo tipo di attività?
Questo
è il momento più delicato del nostro intervento. Infatti,
come ho accennato prima, il distacco dalla famiglia d'origine comporta tempi
lunghi. Successivamente si esaminano le
caratteristiche delle coppie per scegliere il nucleo familiare più idoneo alle
esigenze del bambino. Sono momenti di somma responsabilità, quelli in cui si
devono "abbinare" i bambini ai nuovi genitori. E' forte la paura di
sbagliare e capita di incontrare fino a 70/80 coppie per ogni caso. Tale minuzioso lavoro porta a ridurre
enormemente le possibilità di errore, come deve
avvenire in momenti così delicati per la vita di un individuo.
Vorrei
soffermarmi a parlare dell'“affido” come di un istituto grandemente riparativo
ai mali dell'infanzia abbandonata. Ci sono famiglie affidatarie di profonda
generosità, che riescono ad essere molto serene,
equilibrate e neutrali, esercitando la potestà genitoriale per un tempo
definito. Queste famiglie valutano la loro opera per quella che è: offrire al
ragazzo la possibilità di fare un pezzo di strada della sua vita insieme a qualcuno che gli offra disinteressatamente amore,
educazione e assistenza. Queste persone sanno di servire moltissimo, ma sanno
anche che il loro coinvolgimento è a termine.
In
genere questo tipo di supporto funziona meglio con bambini non piccolissimi. I
piccolissimi ispirano tenerezza e creano legami che poi è
difficile recidere. Vi è molto bisogno di queste famiglie e vorrei sollecitare coloro che hanno disponibilità umana e sufficienti mezzi, a
valutare la possibilità di offrirsi per un atto di dedizione temporanea. Spesso
è un'esperienza bellissima. Sono stati istituiti dei corsi preparatori per
aiutare le persone che si vogliono impegnare in questo atto
di amore che alla fine arricchisce entrambe le parti.
Ci sono più domande di adozione o di affidamento?
Molte
coppie vorrebbero adottare un bambino e lo vorrebbero: neonato, biondo, bello,
sano e possibilmente maschio. E la domanda è molto
superiore all'offerta. Solo nel Lazio ci sono ogni anno circa 800 domande per
circa 70 bambini dichiarati adottabili
che, talvolta, sono di colore, qualche
volta sieropositivi, e, se non abbandonati alla nascita, di almeno 18 mesi di età (il tempo per determinarne l'adottabilità) e
fortemente problematizzati.
Ecco
che allora il futuro genitore pensa che sia meglio rivolgersi all'adozione
internazionale per pescare in un più ampio “mercato” che
gli garantisca di soddisfare i suoi desideri. L'adozione internazionale
presenta tuttavia problematiche particolari: infatti, i bambini che arrivano da
parti lontane della terra, quali il Perù, il Brasile, l'Ecuador, l'India, hanno
maggiori possibilità di integrarsi completamente solo se in età prescolare.
Quando il bambino supera i 6- 7 anni ha già subito un
imprinting culturale, qualunque esso sia, ed è più difficile inserirlo. Spesso
si è osservato che i ragazzi che vengono da lontano, dimenticano la lingua
d'origine, probabilmente per un fenomeno di rimozione totale del passato.
Ci può raccontare anche
storie positive, i successi, le soluzioni scelte per
dare una nuova serenità a questi bambini?
Ma certamente! Questo è il lato più bello dell'incarico di un
giudice minorile, quello costruttivo e riparativo: è così che ho avuto modo di
conoscere le persone straordinarie che gestiscono con incredibile energia e
dedizione le case-famiglia o, per esempio, la Casa della mamma (rifugio per le
ragazze-madri).
Ci
sono anche atti che si potrebbero definire di eroismo,
come quello di una coppia che ha accolto volentieri una bambina malata di AIDS,
già manifesto, solo per assisterla nella fase terminale della malattia e per
farla morire serena in casa, dove infatti è venuta meno, ma dopo 2 anni di
cure.
Altri
due coniugi hanno adottato un bambino
sieropositivo di otto mesi, che si è negativizzato ad
un anno e mezzo. Persone straordinarie, sostenute anche da una grande fede religiosa. Dopo qualche tempo, è stata affidata
loro un'altra neonata sieropositiva, ed anche questa si è
a sua volta negativizzata a 18 mesi. Due persone benedette, che mi hanno fatto
pensare che, forse, “ non bisogna credere nei miracoli, ma contarci
ciecamente”. Tante storie incredibili, come quella di
un'altra famiglia, molto forte e coesiva, che ha accettato di adottare quattro
fratelli, dai 4 ai 9 anni, con un impegno e uno sforzo, anche economico,
davvero immensi.
Ci sembra di capire che tutte
le persone che ruotano intorno alla maternità e alla paternità spirituale siano assolutamente fuori dal comune.
Posso raccontare ancora qualche episodio:
un giorno, si è proposta come mamma adottiva una signora elegantissima:
gioielli, abiti firmati, tutto molto griffato. Io, giudicandola superficialmente, le ho
domandato se avesse delle preferenze. Lei mi ha
risposto che avrebbe accolto quello che le avessi
proposto, anche bambini malati, come del resto aveva già fatto. Quella signora
metteva a disposizione degli altri tutto il suo tempo e le sue risorse, pur non
rinunciando alla sua femminilità.
Mi è capitato un caso anche più significativo. E stata data in adozione ad
una coppia una bambina che credevo sana: il medico le aveva diagnosticato
soltanto un leggero disturbo cardiaco, ma dopo sei mesi che la bambina stava
con loro, i nuovi genitori si sono accorti che era tetraplegica. Mi sono
sentita morire. Pensavo che sarebbero tornati dicendomi: "Signor giudice, con tutta la buona volontà non ce la
facciamo". Invece tutti e due erano lì a
tranquillizzarmi, assicurandomi che il problema non esisteva, che l'avrebbero
curata come e di più che se fosse stata una figlia loro. Hanno cercato il
miglior supporto al problema e l'hanno trovato, tra l’altro, in un'associazione specializzata. La bimba è
tuttora curata benissimo ed ha fatto grandi progressi.
Lei ci sta raccontando delle
storie così toccanti che trasformano l'immagine del giudice da un
amministratore di punizioni ad un "tessitore di destini".
Dovendo
intervenire in momenti cardine dell'esistenza, in un certo senso è vero che i
giudici minorili dipanano la matassa del destino; a volte la responsabilità
diventa enorme, quasi soffocante.
Perciò, dopo alcuni anni ho deciso di passare dal settore civile a
quello penale. Non mi occupo più di bambini piccoli, ma solo di ragazzi dai 14
ai 18 anni. A questa età, i ragazzi non sono poi così
candidi e, se vogliamo continuare ad usare la metafora, qui invece che
"tessere" devo "rammendare" il destino e questo,
psicologicamente, è più gestibile.
La gratificazione compensa lo
stress?
Non
sempre. A volte c’è la coscienza dell'inadeguatezza del meccanismo
istituzionale giudiziario e la tensione, professionale e morale, non basta mai.
Si rischia di perdere il senso comune della vita.
Tuttavia
alcuni incontri che ho avuto, come quelli che ho prima ricordato, cambiano
spiritualmente una persona. Vedere che c'è chi riesce a
concepire un amore che prescinde dal sangue, dai cromosomi e dai legami di
parentela, fino a dimenticare se stesso e il proprio egoismo, fa capire che
l'istinto può essere superato da un'umanità più profonda.
C’è nel nostro Paese molta più bontà di quanto si pensi. E’ un fenomeno sommerso, cui non mi sembra che si presti molta attenzione. Invece credo che dovrebbe essere più conosciuto e diffuso, anche per stimolare verso i problemi dell’infanzia coloro che si sentono disponibili.
Nota: pubblicato su "La rivista dei Curatori Fallimentari" luglio/settembre 1997