Stefano
Gargiullo, commercialista, professore di statistica all’Università di Siena, ci
racconta la sua esperienza di archeologo subacqueo e
di editore
M.
Gabriella Belisario
e
Maurizio
Calò
Sepolti nelle acque del Mediterraneo giacciono innumerevoli
tesori archeologici ancora legalmente non ben tutelati, di cui l’anfora è il
testimonial più eccellente
Verdi diceva che la musica bisogna
averla in corpo. Tutto bisogna averlo in corpo. La poesia, la letteratura, la
fisica, la chimica, l’amore, tutto; aver dentro una cosa non vuol dire solo
amarla, vuol dire conoscerla da sempre. Nelson odiava il mare... lo vomitava...
e non c’è stato marinaio più marinaio di lui” (Vittorio G. Rossi, Maestrale,
1976, Mondadori).
Anche Stefano Gargiullo, dottore commercialista, professore di
Statistica aziendale e industriale all’Università di Siena, ha il mare dentro,
una passione che ha dato un’impronta profonda alla sua vita, ai suoi studi,
alle sue scoperte, alle sue letture. Con il mare e per il mare è diventato editore fondando
l’IRECO, l’Istituto di Ricerche Ecologiche ed Economiche che, tra l’altro,
pubblica i suoi libri. E mentre lo intervistiamo
cerchiamo di capire perché l’acqua sia il secondo elemento naturale di questo
solido professionista che come un vero uomo di mare è di poche parole e riesce
a trasmettere quella pacatezza che sembra conservare in ogni circostanza, sia
essa una burrasca o un amico sub in difficoltà: “Quando avevo sei anni mio
padre mi portò per la prima volta sott’acqua con la maschera. Andavamo a zonzo
in apnea lungo le coste laziali, poi cominciammo
a sondare le coste
dell’Argentario per arrivare a Giannutri e a Ponza. Da allora non ho smesso
mai. La visione del mondo sottomarino mi ha conquistato per sempre: questa
realtà capovolta, gli scogli vellutati di alghe brune,
fasciati di organismi vibranti, le diverse altimetrie del fondale, valli,
foreste, montagne improvvise e l’acqua piena di vita, di pesci che ti appaiono
all’improvviso prima di fuggire con una rapida virata. Con il
fondo ora gremito di ricci, ora come un letto di sabbia un po’ opaco e
polveroso. Fra le rocce forate dai balani e quelle
rese ruvide dalle chiocciole di mare, ogni tanto un collo d’anfora, un
frammento di dolium, un’ancora, colonne di marmo, il fasciame di una
nave e poi un relitto, a volte adagiato, a volte sommerso sotto la sabbia. Un segno, il segno dell’uomo riposto chissà da quanto tempo laggiù
per sempre”. Una vita di esplorazioni, di
viaggi e di immersioni. Stefano Gargiullo prosegue: “Il mare non invecchia, si
rinnova continuamente, non c’è storia sul mare, non c’è traccia, non c’è solco
di ruota o incisione del ferro. Nel mare l’uomo si immerge,
ma l’acqua si richiude sopra. Il mare prende, nasconde, ripara, conserva, solo
nel profondo dei suoi abissi perché lassù, sulla superficie, tutto è ogni
giorno completamente nuovo. Anche Alessandro Magno
provò l’impulso di scendere sott’acqua e si fece costruire una campana di vetro
per immergersi per
pochi metri.
A venti metri di profondità tutto è omogeneamente grigio o blu e ti chiedi perché alcuni pesci o alcuni coralli siano così colorati quando laggiù le gamme cromatiche non sono percepibili. Da quella prospettiva diversa, senza gravità, si é andato delineando, per me, un altro mondo vastissimo, punteggiato da testimonianze che il mare conserva e di cui la storia ha bisogno.
Notai che le cose conservate nel mare erano talmente numerose e
ricche da costituire un enorme tesoro attingibile da chiunque. L’analisi dei
relitti e dei manufatti conservati nelle profondità marine serve
a ripensare le abitudini e la vita dei popoli che navigarono nel Mediterraneo.
Da un modello di anfora e dal suo contenuto possiamo
ricostruire il luogo di produzione e la destinazione, la rotta della nave. Ma
perché tutto questo avvenga bisogna avere “l’anagrafico” del ritrovamento, cioè il luogo, la profondità, il contesto. Uno scavo
condotto male o, peggio, un asporto, cancella questa identità.
L’archeologia marina avrebbe bisogno di un intervento normativo perché ci
troviamo in assenza di leggi specifiche”.
Dunque l’uomo di legge prende il
sopravvento sull’uomo di scienza e di cultura? C’è un vuoto legislativo che
espone le risorse sommerse dell’Italia e del Mediterraneo ad essere depredate?
La legge ancora in vigore è la 1089 del 1/6/39
sulla scoperta fortuita dei tesori ed è l’unica normativa vigente. Certo non è
possibile, |
C’è un vuoto legislativo
che espone le risorse sommerse dell’Italia e del Mediterraneo ad essere
depredate?
La legge ancora in vigore è la 1089 del 1/6/39
sulla scoperta fortuita dei tesori ed è l’unica normativa vigente. Certo non è
possibile, attraverso di essa, né salvaguardare né
tutelare adeguatamente i nostri beni sommersi. Dopo un periodo non breve, in
cui le scoperte continue di reperti e relitti dovute a sub dilettanti avevano
colto impreparati gli archeologi “terrestri”, oggi è stato creato un apposito “Servizio Tecnico dell’Archeologia Subacquea”
(STAS), presso il Ministero dei Beni Culturali ed Ambientali che, con mezzi
ancora limitati, sta effettuando importanti interventi e coordinando l’attività
delle forze di Stato interessate.
Per quanto riguarda la ricerca in alti fondali, è stata sottoscritta il 14 maggio 1998 una convenzione tra
il Ministero dei Beni culturali e il Ministero della Difesa: la Marina Militare
mette a disposizione navi, tecnologie ed esperienza (dragamine,
minisommergibili, ecc.) per avviare una campagna quinquennale di ricerche.
Forse le recenti incursioni degli americani nel mare nostrum hanno convinto i
politici dell’importanza della tutela e della ricerca dell’enorme patrimonio
sommerso.
Dopo tante esplorazioni, lei ha pubblicato un atlante
archeologico dei mari d’Italia dove, seguendo le coste d’Italia, sono state raccolte
e coordinate non solo le sue esperienze ma anche tutte
le segnalazioni di relitti provenienti dagli appassionati e dai dilettanti. Un
lavoro così completo e interessante, può costituire un riferimento anche per i
ricercatori senza scrupoli?
Questo atlante è una sfida che abbiamo lanciato a tutti gli
appassionati del mare perché intendiamo sollecitare la più ampia collaborazione
delle Soprintendenze affinché non solo si provveda ad una più estesa e severa
legislazione, ma anche ad una puntuale opera di vigilanza, tutta da
organizzare. E comunque la conoscenza dei siti
sommersi può essere importante sia per la tutela che per la salvaguardia
dell’immenso patrimonio archeologico subacqueo. D’altronde le profondità marine
cominciano ad essere una terra di nessuno e di conquista che comincia a far
gola alle grandi imprese che fanno del recupero dei
relitti un business.
Questo vale
anche per il mare nostrum oltre che per gli oceani?
Sicuramente, anzi l’utilizzazione di
mezzi di ricerca subacquea in profondità, piccoli batiscafi con ecoscandagli,
ha consentito negli ultimi anni la scoperta di reperti inimmaginabili nei
fondali del Mediter-raneo.
Sono recenti le stupende immagini apparse nel corso delle
prospezioni ordinate dalla magistratura sul relitto dell’aereo di Ustica. Dalle pur poche foto delle quali è stata consentita la pubblicazione, e pur nell’assai
ristretto ambito territoriale nel quale sono state effettuate le indagini, si
sono potuti riconoscere ben tre relitti di antichi naufragi, due risalenti ad
epoca romana ed uno medioevale. Questa esperienza ha insegnato che in un
qualsiasi punto del pagliaio si voglia guardare, si
possono trovare non uno, ma tre aghi!
Esiste una
stima del numero dei tesori inabissati?
Alcuni calcoli assai approssimativi hanno stimato in “decine di
migliaia” i relitti di navi da trasporto o da guerra, perfettamente conservati,
giacenti su fondali profondi nel Mediterraneo, molti dei quali ricchi di tesori
non solo archeologici.
Queste cifre hanno attirato l’attenzione di alcune
imprese americane specializzatesi, negli ultimi anni, nella ricerca e recupero
di relitti e tesori sommersi, che spesso hanno ottenuto risultati clamorosi con
il rinvenimento di carichi di oro e preziosi, specialmente nella zona del Mar
dei Caraibi.
Se queste organizzazioni, che hanno necessità di operare
continuamente e con risultati positivi per
ammortizzare gli elevatissimi costi di manutenzione e di ammodernamento di
tecnologie raffinate, si orientassero nelle acque internazionali del
Mediterraneo, probabilmente troverebbero del tutto impreparati gli organismi di
tutela del nostro patrimonio archeologico. Infatti,
non esiste, al momento, un organismo sovranazionale in grado di varare una
legislazione comune ed efficace per quanto concerne le acque internazionali del
Mediterraneo ed ancor meno di farla poi rispettare.
In epoca antica il trasporto via mare era quello
privilegiato dalle regioni che si affacciavano sul bacino del Mediterraneo:
esso, infatti, si presentava prevalentemente calmo e con una buona visibilità
per gran parte dell’anno, si poteva bordeggiare navigando a vista. Inoltre,
numerosi erano i ripari o approdi in caso di necessità, eppure le tempeste non
hanno risparmiato la navigazione in tutte le epoche, da quella fenicia, greca e
romana fino ai nostri giorni.
Torniamo a parlare di tesori e di rinvenimenti straordinari. Ce ne è stato uno che fece parlare di sé in modo particolare?
Recentemente, tra Ventotene e l’Isola di Santo Stefano, sopra un
fondale sabbioso chiamato Secca delle Grottelle, fu rinvenuto quello che possiamo definire lo yacht di Augusto. Per caso, nel corso
di un normale controllo, la Guardia di Finanza fermò un’imbarcazione tedesca a
bordo della quale c’erano delle anfore romane di tipo Dressel 1,B (dal nome dello studioso che per primo catalogò questi
contenitori) in perfetto stato di conservazione. Era l’estate dell’83 e cominciarono le ricerche. Il relitto giaceva a 42
metri di profondità, era già stato purtroppo parzialmente saccheggiato ma tutto
quello che rimaneva era ancora straordinario. 400 reperti di bronzo, avorio,
osso, ceramica e legno hanno permesso di ipotizzare
che questa nave, dalle rifiniture di lusso, fosse stata costruita per scopi di
rappresentanza, per trasportare comodamente personaggi e notabili. Tra l’altro
è stata rinvenuta un’ara sacrificale, un catino di
marmo dove veniva tenuto acceso il fuoco sacro e un’ancora di tipo
“ammiragliato”. Questa nave risale al periodo in cui Augusto era
stato costretto a confinare la figlia, con un’apposita legge, la Lex
Julia, a Ventotene a causa della sua discussa condotta morale, esilio forse
malinconico, ma dorato, consumato nella splendida villa di Punta Eolo e
comunque corredato da tutte le comodità.
Era il primo secolo dopo Cristo e la presenza di Giulia
nell’arcipelago pontino rese comunque Ventotene un
centro di potere politico e culturale, intensificando gli scambi e le rotte con
la terraferma. Così solo tra Ventotene e l’Isola di Santo Stefano, quindi in un
braccio di mare di poche miglia, sono stati trovati
ben due relitti entrambi molto interessanti. Ma per quanto riguarda lo yacht di Augusto c’è di più: la testimonianza palpabile della
vita, ovvero il tentativo di ricostruirsi una vita normale, anche lontano dalla
Città Eterna. Si stavano trasportando, al momento del naufragio, avvenuto
presumibilmente a causa di un incendio di cui si trovano
ancora le tracce sotto il mare, le piccole e grandi comodità della Roma
Imperiale: alcuni stili per la scrittura in avorio, ancora chiusi nel loro
astuccio di legno, e molti altri sfusi, bulini per incidere e graffire, piccole
tazze, manici di avorio, residui di vasellame pregiato, sandaletti di legno e
piccole sculture, testine in osso magistralmente incise, placche di bronzo finemente
lavorate, elementi decorativi del klinai (letti-divani) e di altri mobili
presumibilmente di fattura siriana. E poi le anfore, alcune ancora sigillate,
piene di nocciole, spezie, graspi di uva e garum, la
salsa di pesce cara ai Romani. Anche se ci sono stati,
dal ’50 ad oggi, rinvenimenti più clamorosi, navi onerarie affondate a pieno
carico, che ci raccontano molto sui commerci dei romani con Spagna, Grecia e
Asia Minore, solo in questo caso si è sollevato un velo sugli aspetti più
segreti dell’esilio, istituzione molto applicata in epoca imperiale, come
testimonia l’enorme quantità di penne pronte a scrivere chissà quali segreti,
accuse, delazioni o memorie nel triste isolamento di Ventotene.
Dicevamo di
navi commerciali imponenti rinvenute intatte in Italia. Dove?
Parliamo subito del relitto di Albenga,
un ritrovamento cardine, che ha costituito la base di una nuova disciplina:
l’archeologia marina. È la più grande nave oneraria di
epoca repubblicana mai conosciuta: lunga 40 metri, larga 10, con un carico di
11.000 anfore vinarie disposte fino a 9 strati. Potremmo dire oggi, con
linguaggio moderno, una nave cisterna. 1300 anfore di questo carico,
perfettamente conservate e recuperate, sono visibili al Museo Navale Romano di Albenga. Era il 1950: i pescatori del luogo, dicevano che
a circa un chilometro e mezzo dalla foce del fiume Centra, esistevano i resti
di una nave romana enorme, quasi leggendaria. Il professor Lamboglia si accinse
a cominciare una vera e propria campagna di scavo. È chiaro che i mezzi furono improvvisati e che i metodi di quel primo intervento
fecero molto discutere, ma questa nuova branca dell’archeologia terrestre stava
muovendo i primi passi. Seguirono anni di ricerche, di rinvenimenti e di inventari. La nave, all’incirca della prima metà del I° secolo a.C., era colata a picco molto rapidamente a causa
del gran peso, ma senza riportare gravi danni alla struttura. Trasportava vino,
grano e nocciole, presumibilmente dalla terra di Spagna, e il suo equipaggio
era armato perché furono rinvenuti anche elmi di bronzo.
Soprattutto
allora, era importante distribuire il peso e organizzare bene le operazioni di
carico?
Innanzitutto bisognava garantire la stabilità dell’imbarcazione
e delle merci durante il viaggio, anche in condizioni di mare difficili, dal
momento che un carico mal disposto poteva rendere complicato se non impossibile
governare la nave.
Bisognava curare che i contenitori non si rompessero e
ottimizzare gli spazi, per ragioni economiche, trasportando la maggiore
quantità possibile di prodotto.
Normalmente i generi più pesanti venivano
posti nella parte bassa della stiva, al centro della nave, mentre la ceramica e
le merci leggere erano messe al di sopra o tra un contenitore e l’altro. Un
esempio significativo è fornito dal relitto rinvenuto
a La Tradelière, dove sacchi di nocciole erano posti tra le anfore e i vetri, i
quali erano protetti da scatole.
Le anfore erano disposte generalmente su più livelli, 3 o 4 al
massimo (la presenza di nove piani di anfore rinvenute
nel relitto di Albenga deve essere considerata un’eccezione); quelle del piano
inferiore erano fissate in uno strato di sabbia o di ghiaia, gli altri livelli
erano disposti a scacchiera, con un contenitore ogni tre oppure ogni quattro
colli di anfore dello strato inferiore. Lo spazio che si veniva a formare tra
le spalle dei vasi era colmato con l’inserimento di
paglia, giunchi o piccoli rami che ammortizzavano eventuali urti.
Ci sono
misteri, enigmi insoluti legati a questi ritrovamenti? Potremmo parlare del segreto del dolium, questo enorme contenitore di terracotta a forma globulare che aveva capacità da 1200 a 3000 litri e che poteva trasportare sia olio o vino, che sementi o legumi. Per capire quanto fossero grandi bisogna pensare che quelli oblunghi |
contengono l’equivalente di 40 anfore, quelli
sferici arrivano a 100-110 anfore. Alti 2 metri e rivestiti di pece erano, come
dire, il cuore del carico. Ebbene, ogni tanto, nel
mare, vicino alle isole e alle coste, si trovano dolia isolati, ma integri,
come se fossero stati perduti o posati in particolari condizioni che noi oggi
non riusciamo a ricostruire. Questo è il caso, per esempio, del dolium di Punta
Lividonia all’Argentario, recuperato nel 1985. Poi ci sono veri e propri
tesori, come quello che capitò nella rete di un pescatore nel Golfo di Baratti.
Era un’anfora d’argento che aveva impressi sulla
superficie ben 132 medaglioni: satiri, menadi danzanti, baccanti, eroi greci e
segni zodiacali. La fattura finissima, di origine
mediorientale, il valore indubbio anche nell’antichità, possono portare a
supporre che facesse parte dell’ampio bottino di una nave crociata, reduce da
chissà quali saccheggi e a sua volta naufragata nello specchio di mare davanti
a Populonia. Luogo fecondo perché ci ha restituito, nel 1832,
il famoso Apollo di Piombino e, recentemente, una bella statua di marmo del III
sec. a.C.
Si può
considerare “un tesoro” una semplice anfora, anche se non in materiale
prezioso?
Questi contenitori sono un po’ l’unità
di misura dell’archeologia marina. La posizione di un relitto antico è
segnalata dalla presenza intorno, sopra e sotto di materiali archeologici, tra
i quali le anfore hanno un ruolo preponderante. La mappa dei ritrovamenti è uno
strumento importante per ricostruire le rotte e i luoghi dello scambio.
Sappiamo che i traffici erano frequenti soprattutto nella parte occidentale del
Mediterraneo e ciò è dovuto principalmente alle
esportazioni di vino italico nel II-I sec. a.C., all’esportazione di olio
spagnolo dal I al III sec. d.C. e alle esportazioni
africane dal III sec. fino ad età tardoantica. Quanto al
vino, bevanda principe della dieta dei nostri antenati in epoca imperiale,
cominciò ad essere distribuito gratuitamente alla plebe. Certo non era
il forte Cecubo o l’abboccato Falerno o il vino resinato greco, ma a Roma, al
tempo di Augusto, se ne consumava fino a un milione e
mezzo di ettolitri l’anno. Furono necessarie grandi quantità di vino a buon
mercato che determinarono un’inversione di tendenza
del suo commercio, con conseguenti importazioni dalla Spagna e dalla Gallia. Le
dimensioni e la tipologia delle imbarcazioni utilizzate per il trasporto marino
sono state ormai catalogate in tre tipi: le navi più piccole, con un carico
inferiore alle 75 tonnellate corrispondenti a 1500 anfore, costitui-vano il
tipo più comune; quelle medie, con un carico tra le 75 e le 200 tonnellate,
corrispondenti a 2000-3000 anfore, erano le “navette” del I
e III sec. d.C. Un tipo più grande e in numero limitato poteva, infine, contenere
oltre le 250 tonnellate (più di 6000 anfore): era considerato un trasporto
“pesante” e, spesso, veniva scortato.
Dunque l’archeologia marina ci
presenta un’intensa produzione manufattiera di recipienti in ceramica, anzi
questi sembrano la base della possibilità di scambio di merci tra i popoli.
Come venivano fabbricate e quanti tipi se ne
conoscono?
Nonostante le numerose varianti assunte nei secoli, la forma
base dell’anfora rimase costante, in quanto legata
alla sua funzionalità. Il collo era allungato e terminava in un orlo ingrossato
che permetteva la chiusura ermetica del vaso ed evitava la fuoriuscita del
contenuto.
I primi tappi furono pigne compresse, poi con sughero e argilla
si creò l’anforisco, che veniva sigillato con resina,
pozzolana o calce. Il fondo era generalmente a punta e costituiva, insieme alle
anse, un ulteriore punto di presa durante le
operazioni di spostamento e svuotamento; esso, inoltre, permetteva di impilare
facilmente i contenitori durante il trasporto. Infine le pareti dell’anfora
erano notevolmente spesse così da non consentire facili danni e rotture.
Le varie parti che componevano l’anfora erano lavorate
separatamente ed unite insieme prima della cottura che avveniva in un apposito forno. Il corpo era realizzato con il tornio,
mentre le anse venivano eseguite a mano e attaccate al
vaso ormai completato.
A differenziare ulteriormente questo popolare comune manufatto,
c’erano le etichette del tempo. Iscrizioni graffite, le bollature con punzoni
di legno garantivano le qualità della merce (data di scadenza
ante litteram) esprimendo l’anno di confezione, il nome della città di
provenienza, il fabbricante, il peso vuoto del recipiente, l’unità ponderale
usata e il nome del prodotto. E poi, nel caso di famiglie proprietarie di ampi territori, la zona di produzione.
Insomma queste testimonianze di ceramica ci riportano
l’impressione di un commercio evoluto con “bolle di accompagno” incise o
dipinte sui contenitori: a volte si indicava anche il
porto d’imbarco e la data consolare.
Le anfore che ritroviamo nel Mediterraneo non sono solo quelle
della civiltà romana, le famose Dressel , dal nome
dello studioso di anforologia che, per primo, nell’800, ne individuò ben 45
tipi. Ci sono bellissimi contenitori fenici, anfore greche, etrusche, galliche,
spagnole, portoghesi, africane ed egiziane. Segni vivi di appartenenza
ad un determinato popolo. E noi conoscendo forme fogge
e dimensioni, con un’occhiata possiamo rintracciare la civiltà che ha
depositato il suo prezioso carico in fondo al mare.
Ci sono ancora speranze di clamorose scoperte archeologiche
subacquee?
Solo recentemente la tecnologia ha permesso all’uomo di avere i mezzi per esplorare il fondo marino. L’archeologia subacquea è quindi, tutto sommato, ancora agli inizi, anche se il progresso delle scienze sta mettendo a disposizione strumenti sempre più efficaci per questo tipo di ricerche ed il numero degli appassionati aumenta sempre di più. L’esperienza delle indagini di Ustica, con ben tre relitti entro un raggio piccolissimo di indagine, conferma che ci sono in fondo al mare molti più reperti archeologici che non sulla terra ferma. L’archeologia subacquea contiene quindi, più che la speranza, una vera e propria promessa di scoperte clamorose, molte delle quali alla portata della maggior parte dei subacquei, come dimostra lo yacht di Augusto rinvenuto a soli 42 metri di profondità e a poche miglia dalla costa di due isole. Del resto, lo sviluppo della sensibilità per gli aspetti ecologici e ambientali e l’abbandono sempre più marcato della pesca subacquea, portano ad incrementare un “turismo” subacqueo dal quale l’archeologia ha tutto da guadagnare, se il legislatore interverrà rapidamente.
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Nota: pubblicato su "La rivista dei Curatori Fallimentari" ottobre/dicembre 1997