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Il duello nascita apoteosi e fine in Europa di Maurizio Calo' |
Il duello, quale mezzo di riparazione di ingiurie, era sconosciuto agli antichi.
Tutti gli studiosi sono concordi nel far
risalire il duello ai popoli barbari come istituzione giudiziaria, una specie
di prova cui si ricorreva in un procedimento civile per accertare il fatto
contestato. Velleio Patercolo riferiva infatti, al
tempo dell’Imperatore Tiberio, che i Germani ringraziavano Quintilio Varo: “..quod lites romana justitia finiret et
solita armis discerni, jure terminarentur.”
Secondo il Mejer (1) l’origine del duello
di rinviene nell’abitudine dei popoli barbari di
cercare un presagio della vittoria in un combattimento tra due esponenti delle
nazioni belligeranti. Tale opinione riecheggia quanto riportato da Tacito (2),
il quale riferisce che, quando i Germani si trovavano in guerra con i popoli
vicini, cercavano di rapire un guerriero nemico e lo facevano combattere con un
proprio esponente per trarre auspici sulla guerra che si stava per combattere.
Proprio per tale capacità attribuita al
duello di risolvere importanti questioni incerte, esso aveva finito per trovare
applicazione alle liti giudiziarie, probabilmente per prevenire gli abusi del
giuramento. Infatti, secondo un principio di giustizia
tra i più classici e generalmente ammesso, in ogni contestazione spetta
all’attore provare il suo credito; il convenuto deve limitarsi a combattere le
prove dedotte contro di lui cosicché, se l’attore non può provare la verità di
quanto espone in giudizio, il convenuto deve essere assolto. Ma questo elementare principio di civile giustizia fu
disconosciuto da molte leggi barbariche che disponevano, invece, che fosse il
convenuto a giurare davanti a Dio di non possedere il bene richiesto
dall’attore, ovvero di non aver commesso il fatto addebitatogli.
E’
chiaro che il convenuto, posto nell’alternativa o di
farsi condannare confessando, o di essere assolto spergiurando, non esitava
nella scelta. Per supplire a questa deficienza, dapprima di richiese
che un certo numero di persone attestassero la credibilità del giurante. Non
era necessario che queste persone avessero conoscenza dei fatti in
contestazione, ma dovevano limitarsi ad affermare, sotto loro giuramento, di
credere che il giurante dicesse la verità. Queste persone erano dette conjuratores sacramentales ed il loro
numero era stabilito dalla legge secondo l’importanza e la natura della causa.
Anche questo
mezzo istruttorio, tuttavia, manifestò presto la sua inefficacia poiché,
moltiplicando i giuramenti, moltiplicava gli abusi. Di qui, secondo il
Montesquieu (3) sarebbe nato l’istituto del combattimento giudiziario, l’uso
del quale fu, per la prima volta, consacrato nella legge dei Borgognoni sotto
il nome di Lois Gombette, dal nome di
Gondebaus, suo autore.
Questa istituzione si diffuse poi
rapidamente e la si ritrova nelle leggi dei Franchi
Ripuari, dei Germani, dei Bavaresi, dei Turingi, dei Frisoni, dei Sassoni e dei
Longobardi.
La veloce diffusione del duello giudiziario
era favorita dal carattere combattivo di quei popoli che, peraltro, venendo in
contatto con gli insegnamenti del Cristianesimo, si rafforzarono nella loro
istituzione, anziché abbandonarla (Dalloz, Repertoire,
Voce “Duel”, n. 9). Infatti, se era vero, come ammaestrava la
nuova religione, che Dio fosse la verità e la giustizia stesse, Egli non
avrebbe potuto permettere che nel duello prevalesse l’ingiusto.
Il combattimento giudiziario divenne,
quindi, il Giudizio di Dio, come il
ferro rovente, l’acqua bollente, la croce e tutte le altre prove usate in
quell’epoca di barbarie. Solo la legge salica non ammise né la prova per
giuramento, salvi casi rarissimi, né il combattimento giudiziario, ma tale
immunità resistette poco allo sviluppo del Giudizio
di Dio che aveva avuto il merito di far cessare gli abusi del giuramento
cosicché, già nel IX sec., Carlo Magno, forzato a
scegliere fra due mali, il minore credette di doverlo tollerare con un’espressa
disposizione: “Melius visum est ut in campo cum fustibus pariter contendant,
quam periurium perpetrent in absconso” (Leges
Longobardae, Lib. 2, Tit. 55, Leg. 25).
La Chiesa, tuttavia, aveva cercato di
resistere alla diffusione del combattimento giudiziario e non solo stigmatizzandolo per bocca dei Pontefici, ma addirittura
comminando pene contro coloro che vi avessero partecipato. Così, fra gli atti
del 3° Concilio di Valenza, tenuto nell’855 sotto il pontificato di Leone IV,
si rinviene un canone che disponeva che colui che si
fosse reso colpevole, nel combattimento giudiziario, di omicidio o lesioni gravi,
fosse cacciato come perfido assassino dall’assemblea dei fedeli sino a che,
come giusta penitenza, non avesse espiato il suo delitto, mentre colui che nel
duello avesse perso la vita, sarebbe stato riguardato come suicida, il suo nome
non sarebbe stato pronunciato nella celebrazione dei santi ministeri e il suo
copro sarebbe stato seppellito senza salmi, né preghiere. Il Clero chiedeva che
il combattimento giudiziario venisse sostituito dal
giuramento nelle chiese, onde spaventare gli spergiuri con la minaccia delle
pene eterne, ma i Signori, dediti alle abitudini guerriere, ritenevano più
nobile sostenere i propri diritti con la spada.
Nel corso di tutto il X e XI sec. l’influenza pontificia non cessò
di contrastare il duello riuscendo, alfine, ad eliminarlo dai tribunali
ecclesiastici come mezzo di prova; ebbe
tuttavia la peggio allorché Ottone II, salito al trono giovanissimo, si trovò
ad affrontare le questioni ereditarie sollevate dai Signori italiani, i quali
lamentavano come un qualsiasi scritto, dal quale risultasse la devoluzione del
patrimonio relitto in favore di taluno, diventasse testamento autentico se se
ne fosse giurata sui Vangeli l’autenticità.
Il giovane imperatore, per ovviare agli
abusi cui questa situazione dava luogo, stabilì che le contestazioni sulla
validità degli scritti dovessero risolversi col
combattimento e, allo stesso modo venissero risolte le questioni intorno ai
feudi e che le chiese fossero soggette a queste regole, mandando a combattere i
loro campioni.
Il primo atto in cui si manifesta la
riscossa della Chiesa è la Carta accordata, nel 1168,
dal Re Luigi il Giovane alla Città d’Orléans con la quale si stabiliva di non
potersi fare combattimento fra le parti per il debito di 5 soldi o meno, ma fu
San Luigi di Francia che seriamente ed efficacemente lavorò per abolire il
combattimento giudiziario. Egli cominciò a compiere la riforma nei suoi diretti
domini, nella speranza che l’esempio si estendesse alle baronie su cui non
aveva diretta influenza e nel 1260 sostituì la prova per testimoni alla prova
per combattimento, tanto in materia criminale che in materia civile.
Filippo il Bello proseguì l’opera
riformatrice del suo predecessore vietando, con un’ordinanza del 1296, le
guerre private per il tempo in cui durava la guerra del Re. Tale proibizione
era estesa ai combattimenti giudiziari disponendo che i procedimenti iniziati
durante questo periodo fossero regolati con le forme
ordinarie. Con altra ordinanza del 1303 (peraltro poi ritirata nel 1306) queste
proibizioni vennero estese durante la guerra del Re
agli omicidi, agli incendi di case e fattorie, alle aggressioni ed invasioni di
domini e le violazioni punite come contravvenzione della pace pubblica.
Un contributo notevolissimo all’abolizione
del combattimento giudiziario fu dato però dalla fioritura dei Comuni, un
fenomeno che, sebbene si verificò in prevalenza
nell’Italia Centrosettentrionale tra
l’XI ed il XII Secolo, si sviluppò anche in Francia, in Fiandra ed in
Germania. Infatti, avendo agli abitanti dei Comuni il privilegio di disporre dei sindaci e degli scabini incaricati di
amministrare giustizia, le popolazioni preferirono le vie ordinarie di
competenza dei giudici che esse stesse avevano scelto, anziché il combattimento
giudiziario, che rimase sempre più prerogativa della sovranità e delle baronie
(4).
Sotto questa pressione il combattimento
giudiziario tuttavia, non scomparve, ma si trasformò. Ciò avvenne sul finire del XIV Secolo e nel corso del successivo.
Poco per volta si stabilì l’usanza di
chiedere al re l’autorizzazione di combattere in campo chiuso e, quando questa
era accordata, un araldo portava il cartello di sfida all’avversario di colui che l’aveva ottenuta e la sfida era fatta in nome del
re che assisteva al duello e poteva farlo cessare gettando lo scettro in mezzo
ai combattenti.
Per tali caratteristiche il combattimento
giudiziario divenne il “duello” vero e proprio, per un verso ancorato ancora
alla superstizione del giudizio di Dio e, per altro verso, soluzione di guerre
private (vedi il riquadro alla pag. xx).
Nel 1547 avvenne tuttavia un episodio che
doveva influire notevolmente sulla storia del duello. Enrico II aveva
autorizzato il duello fra due gentiluomini della sua corte; tuttavia, essendo
rimasto ucciso il primo, che il Re amava moltissimo, giurò che mai più avrebbe
autorizzato in avvenire un duello. Unica conseguenza di questo giuramento fu
che i duelli si fecero più frequenti: prevedendosi che l’autorizzazione
regale sarebbe stata negata, se ne faceva senza, cosicché vi si ricorreva anche
per i più futili motivi e senza alcuna regolamentazione.
Contro il riprendere di questi scontri
insorse nuovamente la Chiesa. In un canone del 1563 del Concilio di Trento
(1545-1563) si fulminano di scomunica non solo i duellanti,
ma anche i padrini, cioè coloro che accompagnavano i duellanti al
combattimento; i giuristi che avessero dato un parere in diritto o in fatto;
gli spettatori, l’imperatore, i re, i duchi, i principi, i marchesi, i conti e
qualsiasi altro signore che avesse offerto un terreno per la pugna ordinando
nel contempo che coloro che fossero morti nella singolar tenzone fossero
privati degli onori della sepoltura ecclesiastica.
Il potere civile, dal canto suo, non tardò
a seguire la Chiesa, posto che i duelli decimavano l’aristocrazia ed
indebolivano così il regno.
Fu nel 1599, sotto il regno di Enrico IV, che il Parlamento promulgò il regolamento con
cui si ordinava che nessuno cercasse nel duello la riparazione alle ingiurie
subite e che ciascuno portasse le proprie querele davanti al giudice ordinario,
sotto le pene previste per il delitto di lesa maestà.
Tuttavia, fonti contemporanee e
specialmente Pietro de L’Etoile riferiscono che dall’avvento al trono di Enrico IV nel 1589
sino alla fine del 1608 perirono in duello circa 7-8.000 gentiluomini.
Risale al 1609 un nuovo editto di Enrico IV il quale, seguendo i suggerimenti degli autori
dell’epoca (5) che, in considerazione dei risultati sopra descritti,
giudicavano ormai il duello un male necessario, stabiliva che chiunque riteneva
di aver subito ingiuria al proprio onore, poteva ottenere il permesso al
combattimento dal Re, dal Connestabile e dai Marescialli di Francia i quali lo
avrebbero autorizzato: “... secondo si
creda necessario pel loro onore.”. L’editto prevedeva la possibilità di
negare il duello decidendo altrimenti la controversia e note di vergogna per
chi l’avesse chiesto a fronte di ingiurie troppo lievi. Gravi sanzioni, quali
morte e confisca dei beni, erano previste per chi avesse
duellato senza autorizzazione.
Questo editto produsse i migliori effetti
e, secondo i contemporanei (6)), non si cita un solo caso in cui il duello sia
stato autorizzato, anzi, si ricordano diversi casi in cui l’intervento del Re
favorì addirittura la riconciliazione.
Alla morte del coraggioso Enrico IV,
avvenuta nel 1609, poco dopo la pubblicazione dell’editto, tuttavia i duelli
ripresero con furore, e così continuarono nei decenni successivi, nonostante il ripetersi
di editti che prevedevano pene sempre più severe per i duellanti. Scriveva
Richelieu nelle sue Memorie (6): “I
duelli erano divenuti sì comuni, che le strade servivano di campo di
combattimento e come se il giorno non fosse abbastanza lungo per
eccitare la loro furia, i duellanti si battevano alla luce delle stelle o delle
fiaccole che tenevano luogo di sole funesto”.
Nel 1647, quando la frequenza dei duelli
era al massimo, il Cardinale Mazzarino promulgò un ulteriore
editto, che fuse tutte le leggi precedenti sull’argomento, ma anche questo non
ottenne risultati apprezzabili. Qualche risultato positivo
si ebbe invece durante il lungo regno di Luigi XIV, per l’intransigenza e la
fermezza con la quale questo sovrano si occupava di far rispettare le proprie
disposizioni. Alla sua morte però i combattimenti ripresero come in passato,
benché Luigi XV, appena compiuta la maggiore età (febbraio 1723), confermasse gli editti del padre, senza riuscire, tuttavia,
a farli rispettare con la stessa energia. In ogni caso, fu sotto il suo regno
che venne eseguita una delle poche condanne capitali,
ai danni di un tale Signor Du Chèlas, colpevole di avere ucciso in duello un
capitano.
Tuttavia,
dove non potevano le leggi, poté la filosofia. Nel
secolo dei lumi, il pregiudizio circa il punto d’onore non poteva essere
risparmiato, e fu Rousseau che più di tutti si distinse nelle sue
argomentazioni contro il barbaro costume del duello.
Certo, se il pregiudizio venne in tal modo
fortemente scosso, non fu però estirpato; oltretutto, la cultura del duello si
estese dai gentiluomini alla borghesia, inasprendosi al punto che chiunque
avesse rifiutato di battersi, si considerava disonorato.
Sopravvenne però la Rivoluzione francese
(1789) che tutto travolse: dai Tribunali del punto d’onore alla giustizia del
Parlamento, agli editti i quali, del resto, avevano conservato un’esistenza
solo formale. Né si pensò di rimpiazzarli, ritenendosi
che il duello, sviluppatosi per secoli all’interno dell’aristocrazia, fosse
morto con questa.
Si trattò, però, di un errore di
prospettiva, perché il duello risorse dalle ceneri rivoluzionarie. Qualche
nobile del partito della Corte lanciò provocazioni a dei
membri più liberali dell’Assemblea nazionale e le singolari tenzoni ripresero.
Un’attenzione discontinua a questa problematica fece sì che nel 1791 venisse promulgato un Codice Penale in cui il duello non era
nominato ed altrettanto avvenne per il Codice emanato nel 1810.
Se questa fu l’evoluzione in Francia, dove
il pregiudizio del punto d’onore era più radicato che altrove, il Inghilterra il combattimento giudiziario ed il duello
convissero a lungo: il primo come istituzione regolare e come mezzo legale di
prova, il secondo come fatto illecito.
Il combattimento giudiziario, infatti, sopravvisse come strumento processuale sino al secolo scorso e solo
nel 1819 il Parlamento lo eliminò. Seppure è
vero che esso aveva da lungo tempo cessato di essere applicato, pure, non
essendo mai stato abrogato, costituiva un strumento istruttorio sempre
disponibile. Fu il Blackstone che per primo ne segnalò la sopravvivenza nel suo
Commentario sulle leggi inglesi (7) e
tale scoperta trovò immediato riscontro nel 1817, nel procedimento Thornton,
che fece molto rumore in Inghilterra. L’accusato invocò l’antica legislazione
la quale, in materia criminale, permetteva ad un accusato di assassinio
di giustificarsi col combattimento. E la sua
istruttoria fu accolta. Ma il combattimento non ebbe
luogo perché l’accusante, meno sicuro della sua forza che della giustizia
divina, ritirò l’accusa. Fu appunto per tale vicenda, che aveva richiamato alla
pubblica attenzione quest’ultimo retaggio della legislazione barbarica da tempo dimenticato, che venne presentato il bill di abrogazione.
Il duello, invece, male si accordava con la
flemma britannica non ebbe in questo Paese quella frequenza che, in Francia,
aveva decimato la nobiltà. La relativa legislazione è quindi poco significativa e trovò rare applicazioni: il duello era in
sostanza equiparato all’omicidio ed alle lesioni personali. Solo il Codice
militare contiene norme particolari e severe sulle sfide, ed è rimarchevole
quella, rigorosissima, che priva della pensione la vedova di un ufficiale morto
in duello.
In Italia, lo spirito moderatore del
Rinascimento e l’incessante intervento della Chiesa posero un freno ai
combattimenti giudiziari, mentre i duelli non cessarono, anche a seguito delle
invasioni degli Spagnoli che, al pari dei Francesi, sentivano particolarmente
il punto d’onore.
Nei diversi Stati italiani, a partire già
dal 1540 nel Vicereame di Napoli - e in seguito in Piemonte, Toscana e nel
Ducato di Milano - venivano
adottate contro il duello sanzioni pesanti, che prevedevano la confisca dei
beni e la pena capitale non solo per i combattenti, ma anche per i padrini, i
valletti, e persino per chi avesse semplicemente assistito.
Nella Repubblica di Venezia, al confronto,
le sanzioni minacciate non erano poi molto severe. Quattro sono le leggi, o Parti, (8) che si conoscono in
argomento, e che prevedevano il bando per sette o dieci anni o il “confino”
nell’isola di Candia, mentre solo la Parte
promulgata dal Consiglio dei Dieci nel 1732 equiparava duellanti,
sfidanti e padrini ai colpevoli di azioni indegne ed
infami con la conseguenza che erano privati della nobiltà patrizia e venivano
fatti: “... depennare dal Libro d’oro esistente
all’Avogaria di Comun”. Seguiva la confisca di ogni
bene ed il bando perpetuo. Se avessero rotti i
confini: “... e venendo preso alcuno, sia
condotto in questa città e fra le due colonne di San Marco ove per il ministro
di giustizia, sopra eminente solaro gli sia tagliata la testa, sicché si separi
dal busto e muoia.”.
I diversi Stati italiani mantennero
legislazioni differenziate anche nel corso
dell’Ottocento, fino a che, compiuta l’unità d’Italia, nella seduta del 26
aprile 1875, il Senato del Regno approvò una serie di norme destinate ad
entrare a far parte del Codice Penale Zanardelli del 1889. Lo stesso
Zanardelli, nel 1906, assunse la presidenza delle leghe antiduellistiche
italiane, nate e sviluppatesi sul finire del sec. XIX, mentre persino il re
Vittorio Emanuele III accettò in seguitol’alto patrocinio della lega
antiduellistica, a testimonianza del mutato clima culturale nei confronti del
duello.
Anche
l’attuale Codice Penale (R.D. 19 ottobre 1930 n. 1398) punisce i duellanti ed i
portatori di sfida (artt. 394 e segg. C.P.), ma in modo piuttosto blando: chi
fa uso delle armi in duello, anche se non cagiona lesioni all’avversario, è
punito con la reclusione fino a sei mesi e con la multa da lire centomila a due
milioni, a conferma dello scarso allarme sociale che ormai il duello suscita.
E’ significativo,
in modo particolare, che dal 1978 ad oggi, solo una sentenza della Corte
Suprema si sia occupata del duello enunciando il seguente principio: “Non può essere equiparato a un duello una
colluttazione senza armi, svincolata da qualsiasi regola, condotta senza
esclusione di colpi e in modo selvaggio e bestiale. Infatti, i reati cosiddetti
di duello presuppongono l’osservanza delle consuetudini cavalleresche e,
pertanto, perché uno scontro tra due persone possa considerarsi duello, deve
svolgersi a condizioni prestabilite, secondo le regole cavalleresche, mediante
l’uso di armi determinate (spada, sciabola o pistola),
alla presenza di più persone (padrini o secondi), per una riparazione d’onore.”
(Cassazione Penale, Sez. 5°, 24 aprile 1987).
NOTE
(1) Mejer, Esprit, origine et progrès des institutions
judiciaires, Vol. I, lib. II, cap. VII.
(2)
Tacito, De more Germanorum, Cap. X.
(3) Montesquieu, Esprit des lois, Lib. XXVIII, Cap.
XVIII.
(4) Cauchy, Du Duel, Vol. I, pag. 81.
(5) Gaspard de Sauls
Tavannes, Memorie e Giovanni de la
Taille, Discours notable des duels,
1607.
(6) Richelieu, Mémoires, Collection Petitot, pag. 40 e segg.
(7) - Traduzione francese di De Chompre, 1823, Vol. IV, pag. 562.
(8) Le leggi si chiamavano Parti perché la sezione dispositiva
delle leggi cominciava con la formula sacramentale: “L’anderà parte...”.
RIQUADRO: Le procedure del duello
Il duello cavalleresco italiano
In Italia l’uso dei duelli spettacolari
durò fino al Secolo XVI e talvolta vi ricorsero anche le chiese per sostenere i
loro diritti.
Si combatteva per lo più a cavallo colle
lance, lo scudo, la spada ed il pugnale. Assistevano imperatori, principi ed
alti magistrati senza il consenso dei quali non si poteva avere il campo. Nel
giorno stabilito dal regnante o dai giudici, i combattenti venivano
chiamati ad alta voce dall’araldo e montati su destrieri magnificamente
bardati, con le visiere alte od aperte, con lo scudo pendente dal collo sul
petto, con la lancia sulla coscia, con due spade e con la daga. Entravano nello steccato preceduti da una bandiera sulla quale era
dipinto Gesù crocifisso, la Madonna e quel santo al quale portavano particolare
devozione. Giunti al cospetto del giudice, l’accusatore ripeteva l’accusa ed il
difensore la “mentita”. Quindi ciascuno giurava sul
Vangelo la verità delle sue parole e si passava alla pugna mentre gli araldi o
padrini assegnavano ai duellanti il luogo dello steccato in modo che entrambi avessero nelle loro prime mosse eguale vantaggio rispetto al
sole. Ad un suono di tromba i combattenti si lanciavano l’uno contro l’altro a
briglia sciolta e, rotte le lance, davano mano alle
spade; poi, stringendosi più da presso, adoperavano le daghe ed infine i
pugnali. Il duello terminava solo con la morte o con la resa di uno dei
combattenti e tutto il torto e l’infamia dell’originario misfatto ricadevano sul
soccombente. Gli araldi lo spogliavano delle armi che venivano
fatte a pezzi e sparse sul campo. Quindi, se era sopravvissuto, veniva consegnato alla giustizia che lo mandava al fuoco o
alla forca, o gli mozzava le mani, o le orecchie, od il naso.
L’ultimo duello celebrato in Italia con
tutte le cerimonie cavalleresche fu combattuto sotto
le mura di Firenze durante l’assedio del 1529 tra Ludovico Martelli e Giovanni
Bandini ed ebbe come causa, a quanto sembra, una rivalità in amore.
Galateo del duello moderno
Il duello “moderno” - vale a dire quello di impronta sostanzialmente ottocentesca - si trovò ad avere
col tempo una codifica estremamente accurata. Innanzituto, esso avveniva
essenzialmente per il “punto d’onore”, ossia per l’offesa portata all’onore di
una persona, che avrebbe “lavato col sangue” l’onta subìta.
L’offesa può essere stata fatta
personalmente o in assenza delle parti (ad esempio, attraverso la pubblicazione
di un articolo o di una vignetta su un giornale); nel primo caso, l’offeso può
reagire direttamente, pronunciando la frase “me ne renderà ragione”, oppure
sfiorando con il guanto il viso dell’offensore.
A questo punto, l’offeso sceglie due
padrini, che ricevono il mandato di ottenere
soddisfazione (cioè le scuse dell’offensore o la riparazione per le armi); in
ogni caso, l’offesa deve essere rilevata e la sfida portata nel giro delle 24
ore dal fatto.
Nel
raccogliere la sfida, anche l’offensore costituisce i suoi secondi; quindi, i
padrini dei due avversari si riuniscono per tentare una conciliazione e, non
riuscendovi, per valutare il fatto secondo il codice cavalleresco. E’ infatti necessario appurare a) se vi sia stata offesa; b)
chi sia l’offeso, perché ad esso spetta la scelta delle armi; c) di quale grado
l’offesa vada considerata (se semplice, grave o atroce), perché da tale grado
dipende il tipo di armi da usare.
Lo scontro può avvenire: alla pistola, con
eventuale prosecuzione alla spada o alla sciabola, nel caso delle offese atroci; alla spada nel caso di offese gravi, e
alla sciabola nel caso di offese semplici.
Vengono poi stabilite le specifiche condizioni del
duello. Infine, i quattro padrini, due medici e talvolta un direttore dello
scontro accompagnano gli avversari sul luogo del
duello, dove viene scelto il terreno, la posizione rispetto al sole, e vengono
esaminate le armi.
“Per i
duelli alla pistola è di prammatica l’abito nero e bavero rialzato; per la
spada, camicia floscia e senza la manica destra; per la sciabola, possibilmente
torso nudo” (Enciclopedia Italiana G. Treccani, voce “Duello”).
Una volta di fronte, gli avversari possono
non salutarsi, ma salutano i padrini; comincia poi il duello vero e proprio,
secondo gli ordini del direttore dello scontro, che provvede
a far osservare i principi della scherma (per i duelli all’arma bianca)
e a rilevare il “toccato”. Quando questo avviene, i padrini e il medico
valutano: se lo scontro è al primo sangue,
se sia il caso di concludere il combattimento; se lo
scontro è all’ultimo sangue, se il
ferito ha la possibilità di continuare in condizioni non troppo svantaggiose.
Una
volta concluso il duello, i padrini cercano ancora una
conciliazione; quindi redigono un verbale che riassume le fasi del
combattimento, rileva eventuali atti sleali avvenuti, registra l’ulteriore
tentativo di conciliazione e se essa sia avvenuta.
“Se uno dei due avversari è rimasto gravemente ferito, è doveroso per i padrini, e anche per l’avversario, pur non essendo avvenuta la riconciliazione, di lasciare la carta da visita alla casa dove il ferito è stato ricoverato” (Enciclopedia Italiana G. Treccani, voce “Duello”).
Nota: pubblicato su "La rivista dei Curatori Fallimentari" ottobre/dicembre 1997