De’ DELITTI E DELLE PENE
Di Cesare Beccaria
"La buona fede dei contratti, la sicurezza
del commercio
cap.
XXXIV- DEI DEBITORI
Ma il fallito innocente, colui
che dopo un rigoroso esame ha provato innanzi a’
suoi giudici che o
l’altrui
disgrazia o vicende inevitabili dalla prudenza umana lo hanno spogliato delle
sue sostanze,
per
qual barbaro motivo dovrà essere gettato in una prigione, privo dell’unico e
tristo bene che gli
avanza
di una nuda libertà, a provare le angosce dei colpevoli e colla disperazione
della probità
oppressa
a pentirsi forse di quella innocenza colla quale vivea
tranquillo sotto la tutela di quelle
leggi
che non era in sua balìa di non offendere, leggi
dettate dai potenti per avidità e dai deboli
sofferte
per quella speranza che per lo più scintilla nell’animo umano, la quale ci fa
credere gli
avvenimenti
sfavorevoli esser per gli altri e gli avantaggiosi
per noi? Gli uomini abbandonati ai loro
sentimenti
i più obvii amano le leggi crudeli, quantunque,
soggetti alle medesime, sarebbe
dell’interesse
di ciascuno che fossero moderate, perché è più grande il timore di essere
offesi che
la
voglia di offendere. Ritornando all’innocente fallito, dico che se
inestinguibile dovrà essere la di
lui
obbligazione fino al totale pagamento, se non gli sia concesso di sottrarvisi senza il consenso
delle
parti interessate e di portar sotto altre leggi la di lui industria, la quale dovrebb’esser costretta
sotto
pene ad esser impiegata e rimetterlo in istato di
soddisfare proporzionalmente ai progressi,
qual
sarà il pretesto legittimo, come la sicurezza del commercio, come la sacra
proprietà dei beni,
che
giustifichi una privazione di libertà inutile, fuori che nel caso di far coi
mali della schiavitù
svelare
i segreti di un supposto fallito innocente, caso rarissimo nella supposizione
di un rigoroso
esame! Credo massima legislatoria
che il valore degl’inconvenienti politici sia in
ragione composto
della
diretta del danno pubblico e della inversa della improbabilità di verificarsi.
Potrebbesi
distinguere il dolo dalla colpa grave, la grave dalla leggiera,
e questa dalla perfetta
innocenza
ed assegnando al primo le pene dei delitti di falsificazione, alla seconda
minori, ma con
privazione
di libertà, riserbando all’ultima la scelta libera dei mezzi di ristabilirsi,
togliere alla terza
la
libertà di farlo, lasciandola ai creditori. Ma le distinzioni di grave e di
leggero debbon fissarsi
dalla
cieca ed imparzial legge, non dalla pericolosa ed
arbitraria prudenza dei giudici. Le fissazioni
dei
limiti sono così necessarie nella politica come nella matematica, tanta nella
misura delle
grandezze. Con quale facilità il provido legislatore potrebbe impedire una gran parte dei fallimenti
colpevoli
e rimediare alle disgrazie dell’innocente industrioso!
La pubblica e manifesta registrazione di tutt’i contratti e la libertà a
tutti i cittadini di consultarne i
documenti
bene ordinati, un banco pubblico formato dai saggiamente ripartiti tributi
sulla felice
mercatura
e destinato a soccorrere colle somme opportune l’infelice ed incolpabile membro
di
essa,
nessun reale inconveniente avrebbero ed innumerabili vantaggi possono produrre.
Ma le
facili,
le semplici, le grandi leggi, che non aspettano che il cenno del legislatore
per ispandere nel
seno
della nazione la dovizia e la robustezza, leggi che d’inni immortali di
riconoscenza di
generazione
in generazione lo ricolmerebbero, sono o le men
cognite o le meno volute.
Uno spirito inquieto e minuto, la timida prudenza
del momento presente, una guardinga rigidezza
alle novità s’impadroniscono dei sentimenti di chi combina la folla delle azioni dei piccoli mortali.
Nota: pubblicato su "La rivista dei Curatori Fallimentari" luglio/settembre 1997