IL PROCESSO A BEATRICE CENCI |
“Il ritratto che sto per darvi è spaventoso, di mia
iniziativa non avrei mai rappresentato un tale carattere; ma confesserò che
questo racconto mi è stato
domandato dai miei compagni di viaggio”. E’
così che Henri Beyle, che si firmava Stendhal, in “Le
cronache italiane”, si esprimeva nei riguardi di Francesco Cenci, assassinato
il 9 settembre 1598 sotto gli occhi della figlia e di sua moglie, mandanti del
delitto.
Stendhal scoprì
i manoscritti italiani nel 1833 e da questi tradurrà le sue
Cronache
“perché
servano alle persone intelligenti come utile complemento alla storia d’Italia
nei secoli 16° e 17° e della società da
cui sono nati Raffaello e Michelangelo”.
Incuriosito dal dramma di Beatrice Cenci, ebbe occasione di visionare gli atti
del processo, stupendosi, leggendo quei fogli dove tutto è
scritto in latino salvo le risposte, di non trovare quasi mai la spiegazione
dei fatti. Ma a Roma nel 1599 i fatti erano conosciuti
da tutti. Allora andò a cercarli, i fatti, in un racconto contemporaneo,
scritto in “italiano di Roma” il 14 settembre 1599.
STORIA
VERA
Della morte di
Giacomo e Beatrice Cenci e di Lucrezia Petroni Cenci, loro matrigna,
giustiziati per delitto di parricidio sabato scorso 11 settembre 1599 sotto il regno del
nostro Santo Padre, Papa Clemente VIII Aldobrandini.
La
mala vita che ha sempre condotto Francesco
Cenci lo ha condotto finalmente a perire. Egli ha
trascinato a morte precoce i suoi figli giovani forti e coraggiosi e sua figlia Beatrice.
Sebbene mandata al supplizio appena sedicenne
,
passava già per una delle più belle fanciulle dello
stato pontificio, tanto adorata e rispettata da tutti coloro che la
conoscevano, quanto era odiato ed esecrato suo padre. A quest’uomo, detentore
di un’immensa fortuna ereditata dal padre che era stato tesoriere dello Stato
Pontificio,
erano
inizialmente attribuiti crimini la cui qualità il mondo facilmente perdona (amori singolari condotti a termine con mezzi ancor
più singolari). Sotto Paolo III,
quando ancora si poteva parlare con una certa scioltezza, si diceva che Francesco Cenci era
soprattutto avido di avvenimenti stravaganti che potessero procurargli
sensazioni nuove e conturbanti
.
La frase “quando ancora si poteva parlare”
si riferisce al fatto che a Roma la sorte ed il modo d’essere dei romani
cambiavano secondo il carattere del papa regnante. Così, sotto Gregorio XIII Boncompagni, tutto era
permesso; sotto Sisto V, invece, si
giustiziavano disgraziati che avevano confessato il loro crimine magari dieci
anni prima all’allora Cardinale di Montalto, divenuto poi Papa Sisto
V.
Francesco Cenci
fu imprigionato tre volte per i suoi amori infami, ma
se la cavò sempre corrompendo le persone
che via via erano in auge presso
i dodici papi sotto i quali visse. Tentarono, i tre figli maschi, di far
condannare a morte il padre che disonorava la loro casa, sollecitando
un’udienza papale, ma Clemente VIII, nonostante ne avesse una gran voglia, scacciò i
figli snaturati.
Aumentò
così l’odio del padre che, una volta uscito di
prigione, divenne ancora più dispotico, picchiando selvaggiamente le due povere
figlie femmine. La maggiore sfuggì alle sue violenze andando in sposa, per
ordine del Papa impietosito, a Carlo
Gabrielli della nobile famiglia di Gubbio.
Beatrice,
rimasta sola, fu così sequestrata in uno degli appartamenti della fortezza di
Petrella
e
costretta a subire non solo le percosse, ma anche le attenzioni sessuali del
padre che abusava di lei in presenza della moglie Lucrezia Petroni. La fanciulla
tentò allora di inviare una supplica al Papa molto particolareggiata, che però
non arrivò mai a destinazione. Questo documento, che parlava anche a nome di Lucrezia, sarebbe stato molto utile per dimostrare in
seguito la legittima difesa, ma non fu mai rinvenuto. Fu allora che Beatrice, persa ogni speranza, decise
di far sopprimere il padre dopo aver ottenuto il consenso del fratello maggiore
Giacomo, convinto alla complicità
dal celebre Monsignor Guerra,
innamorato di lei.
Il
piano: si scelsero due vassalli di Francesco
Cenci che lo odiavano particolarmente,
Marzio Catalano e Olimpio Calvetti, che dovevano riunire
una dozzina di banditi napoletani pronti a rapire Francesco quando si fosse recato da Roma al castello della
Petrella; chiesto il riscatto, che non si sarebbe potuto pagare in tempo utile,
avrebbero ucciso l’ostaggio. Ma, partito Francesco
per Petrella, la spia avvertì in ritardo i banditi in agguato che, attesa
invano la vittima, se ne andarono a rubare altrove.
Si
convinsero allora i due vassalli, dietro pagamento di un’ingente somma, a uccidere di loro propria mano Francesco nel sonno, simulando poi un incidente fatale.
Il
9 settembre 1598, in serata, madre e figlia
propinarono l’oppio a Francesco Cenci
che cadde in un sonno profondo. Verso mezzanotte Beatrice in persona introdusse nella fortezza Marzio e Olimpio e li
condusse con Lucrezia nella stanza
del padre che dormiva profondamente. Uno di essi aveva
un grosso chiodo che posò verticalmente su un occhio del vecchio; l’altro con
un martello gli fece penetrare il chiodo in testa; un secondo chiodo gli fu
conficcato nella gola. Il corpo si dibatté invano.
A
cose fatte Marzio e Olimpio furono pagati
e le due donne, tolti i chiodi dal cadavere e avviluppato il corpo in un
lenzuolo, lo trascinarono attraverso una lunga fila di camere fino ad una
galleria che dava su un piccolo giardino abbandonato. Di là gettarono il corpo su un grande sambuco sperando che si sarebbe supposto, una volta
trovato il cadavere, che il piede gli fosse scivolato.
Le
cose avvennero come avevano previsto, ma la giovane Beatrice mancava della prudenza necessaria nella vita e, prima di
tornare a Roma, consegnò alla lavandaia il lenzuolo macchiato di sangue
dicendole di aver sofferto durante la notte di una forte emorragia.
Per
un po’ tutto andò liscio, ma a Napoli il giudice principale ebbe dei dubbi e
inviò alla fortezza un commissario generale per indagare. Nulla di sospetto fu
trovato fino a quando si interrogò la lavandaia che
testimoniò di aver ricevuto da Beatrice
due lenzuola insanguinate; fu chiesto alla donna anche un parere tecnico sulla
natura delle macchie e questo parere fece scattare per tutti i Cenci un preciso
sospetto che avrebbe portato molti mesi dopo all’ordine di arresto;
inspiegabilmente gli indagati, sebbene avvertiti del pericolo, non si misero in
salvo scappando.
Monsignor Guerra,
avvertito dei fatti, mandò due sicari per uccidere Marzio e Olimpio, ma
solo Olimpio fu ucciso a Terni. Marzio fu arrestato e confessò tutto.
Scattò allora l’ordine di arresto: la vedova Lucrezia e Giacomo e Bernardo (i
soli figli maschi superstiti di Francesco
Cenci), furono condotti alla prigione di Corte Savella; Beatrice agli arresti nel palazzo di
suo padre. Le due donne furono quindi messe a confronto con Marzio ma costui, entusiasmato dalla
bellezza ed eloquenza di Beatrice
mentre rispondeva al giudice, ritrattò ogni cosa e nonostante la tortura non
confessò più nulla preferendo morire sotto i tormenti. Tutti furono allora
condotti a Castel Sant’Angelo dove passarono alcuni mesi tranquillamente.
Tutto
sembrava volgere ad una favorevole conclusione, quando fu arrestato il sicario di Olimpio e
costui confessò ogni cosa. Monsignor
Guerra ebbe un mandato di comparizione che preludeva sicuramente
all’arresto. Con un abile stratagemma riuscì a scappare dalla città mettendosi
miracolosamente in salvo. Ma vale la pena di dire
come.
Bisogna
sapere che Monsignor Guerra era un
bell’uomo, molto alto, dal viso di un candore perfetto, barba bionda e biondi
capelli e soprattutto troppo noto per sperare di
scappare da una città ben presidiata alle porte. Corruppe allora un mercante di
carbone, ne prese i vestiti, si fece rasare testa e barba, si tinse il viso di
nero, comprò due asini e si mise a percorrere le vie di Roma e a vendere il
carbone zoppicando. Assunse un’aria grossolana e idiota, girando ovunque col
suo carbone e la bocca piena di pane e cipolla, mentre centinaia di sbirri lo
cercavano dentro e fuori le mura. Finalmente, quando la sua figura fu ben
conosciuta dalla maggior parte degli sbirri, osò uscire dalla città spingendo
davanti a sé i due asini carichi di carbone.
Il
fatto fece ricadere i sospetti sui Cenci che furono ricondotti alla prigione
Savella. Messi alla tortura, i due fratelli Giacomo ed il più giovane Bernardo
confessarono subito ogni cosa ed anche Lucrezia
non poté sopportare la tortura della corda
e
confessò. Beatrice, nonostante le minacce del Giudice
Moscati, incaricato di interrogarla, nonostante i tormenti della
corda, non cedette. Il giudice, colpito, fece una relazione completa al Papa il quale, visti e studiati gli atti del processo, temendo
che il Giudice Moscati, vinto dalla
bellezza della giovinetta, fosse stato troppo
“tenero” negli interrogatori, gli tolse la direzione del processo
affidandolo ad altro giudice più severo. Questi, effettivamente, ebbe il
coraggio di tormentare senza pietà Beatrice ad torturam capillorum (cioè appendendola per i capelli). Mentre era
appesa, il giudice introdusse nella stanza Giacomo
e Lucrezia che la convinsero
finalmente a confessare.
Il
giorno dopo tutta Roma fremette di sdegno: il Papa, lette le confessioni di
tutti, ordinò di mandarli a morte.
A
loro difesa si mossero allora principi e cardinali. Fu concessa una proroga di
25 giorni per presentare una difesa.
Immediatamente
si mobilitarono i migliori avvocati di Roma che convennero tutti
insieme davanti al Pontefice allo scadere del 25° giorno. Parlò per
primo l’avvocato Nicolò de Angelis,
ma dopo due righe fu interrotto dal Papa: “Dunque a Roma si trovano non solo uomini che
uccidono il loro padre, ma anche avvocati per difenderli!”.
Solo
l’avvocato Prospero Farinacci osò
ribattere: “Noi non siamo qui per
difendere il delitto ma per provare, se lo possiamo, che uno o molti di costoro
sono innocenti!”. Poté parlare per tre ore.
Alla
fine il Papa raccolse le scritture e congedò tutti. Passò la notte a leggere le
difese degli avvocati, facendosi aiutare dal Cardinale di San Marcello e sembrò commosso al punto da far sperare
per la vita dei rei confessi.
Per
salvare i maschi, gli avvocati attribuivano tutta la colpa a Beatrice; e poiché era stato dimostrato
più volte nel processo che aveva subito violenza dal padre, speravano che il
delitto sarebbe stato perdonato per legittima difesa. Una volta salvata la vita
dell’autore principale del delitto, anche i due fratelli, persuasi dalla
sorella, non avrebbero potuto essere mandati a morte.
Ognuno
a Roma si sentiva difensore di Beatrice. Se era stato provato che ella aveva amato Monsignor
Guerra senza trasgredire le regole della virtù, la si voleva forse punire
perché aveva usato il diritto di difendersi? Dopo una vita tanto dolorosa e
piena di sventura, non aveva diritto, una creatura così provata e non ancora
sedicenne, a qualche giorno meno spaventoso? Si cominciò a sperare.
Non
avrebbe forse il Pontefice perdonato a chi aveva respinto
la forza con la forza, non in verità al primo delitto di violenza, ma quando si
tentava di commetterne altri? Roma era in ansia.
Ma giunse al Papa la notizia che la
Marchesa di Santa Croce era stata
pugnalata a morte dal figlio Paolo
perché non voleva impegnarsi a lasciarlo erede di tutti i suoi beni, e che il
matricida era riuscito a fuggire mettendosi in salvo.
L’efferato
delitto fece allora tornare alla memoria il fratricidio dei Massimi avvenuto
qualche tempo prima.
Desolato
dalla frequenza degli assassinii commessi su parenti prossimi, Clemente VIII non credette che gli
fosse lecito il perdono e venerdì 10 settembre 1599, alle ore 4 di sera, fece
chiamare il Governatore di Roma Ferrante
Taverna e gli disse: “Noi vi rimettiamo la causa dei Cenci affinché la giustizia sia fatta a
vostra cura e senza indugio”.
Tutta
la notte e la mattina seguenti, mentre si lavorava sulla piazza del Ponte
Sant’Angelo ai preparativi per l’esecuzione, si tentò in tutti i modi di
intercedere per la salvezza almeno di Bernardo
che, appena quindicenne, era totalmente estraneo al delitto e affinché le donne
fossero messe a morte in prigione e non su un infame patibolo.
Ci
provarono i principali cardinali; ci provò il nobile Sforza. Il delitto Santa
Croce era un vile delitto per denaro, il delitto Cenci
un delitto d’onore!.
Solo
il grande giureconsulto Farinacci ebbe l’audacia di giungere fino al Papa e, a forza di
insistere, riuscì a strappare la grazia per Bernardo Cenci. Quando il Papa pronunciò la grande
parola, erano le 4 del mattino di sabato 11 settembre 1599, ma alla salvezza si
accompagnava l’ordine di assistere al supplizio finale dei suoi congiunti.
La
notizia della sentenza di morte arrivò alle due prigioni (Corte Savella dove
erano Beatrice e Lucrezia - Tordinona dove erano Giacomo e Bernardo) solo la mattina alle 6 di sabato 11 settembre, stesso
giorno fissato per l’esecuzione.
Prima
disperata per la sorpresa, poi calma e dignitosa come Lucrezia, Beatrice
chiamò un notaio per fare testamento. Lasciò 300.000 franchi alle religiose
delle Stimmate di S. Francesco e ordinò che il suo corpo fosse portato a S.
Pietro in Montorio; Lucrezia lasciò 500.000 franchi alla chiesa di San Giorgio
e
l’ordine di portarvi il suo corpo.
Alle 8 si confessarono; ricusando i loro ricchi vestiti,
ordinarono, per affrontare il patibolo, due abiti come quelli delle monache:
senza ornamenti sul petto e sulle spalle, stirati a pieghe e con maniche
larghissime; di cotone nero quello di Lucrezia,
di taffettà turchino con una grossa corda
per cintura quello di Beatrice.
Poi
andarono alla messa e ricevettero la comunione.
Alla
stessa ora la Compagnia della Misericordia portava il suo grande crocefisso
alle porte della prigione di Tordinona. Primo uscì Giacomo che baciò il crocefisso e salì sulla carretta del
carnefice, quindi Bernardo. La folla
era enorme e tutti guardavano i due fratelli, quando arrivò l’ufficiale fiscale
con la grazia per Bernardo e
l’ordine di accompagnare i parenti fino al patibolo.
La
processione si incamminò lenta per Piazza Navona verso
la prigione di Corte Savella.
Arrivata
alla porta della prigione, le due donne uscirono, baciarono il crocefisso e
s’incamminarono lente l’una dietro l’altra, le mani libere ma le braccia legate
al corpo in modo da poter sorreggere il crocefisso.
Lucrezia,
sopra la veste nera aveva un manto di taffettà nero e pantofole di velluto nero
senza tacco; Beatrice un manto
turchino, un grande drappo d’argento sulle spalle, una
sottana di panno violetto e pantofole di velluto bianco.
Intanto il povero Giacomo era "tenagliato" sulla sua carretta dove era stato fatto salire anche Bernardo.
La processione poté a gran fatica
attraversare la parte inferiore della Piazza di Ponte Sant’Angelo tanto era
grande il numero di carrozze e la folla di popolo. Sulla piazza era stato
innalzato un grande palco con un ceppo e una mannaia.
Le
donne furono condotte nella cappella preparata ai piedi del patibolo e Bernardo direttamente sul palco, dove cadde svenuto al secondo passo. Fattolo rinvenire, fu fatto sedere direttamente
dirimpetto alla mannaia.
Prima
fu Lucrezia Petroni. Mani dietro il
dorso, salì faticosamente (era molto pingue) e a piedi nudi; quando le fu tolto
il manto si vergognò molto, si guardò le spalle e il petto scoperti, guardò la
mannaia, e chiese al primo boia, Alessandro,
quello che avrebbe dovuto fare. Egli le disse di mettersi a cavallo sulla panca
del ceppo ma questo movimento le parve disonorevole e ci mise molto a farlo. Quindi la mannaia calò e la sua testa fu mostrata al popolo.
Mentre ci si preparava per la seconda
esecuzione, un palco crollò e ci furono parecchi morti.
Fu
la volta di Beatrice.
Lasciate
le pantofole in fondo alla scala e salita sul palco, passò rapidamente la gamba
sulla panca, posò il collo sotto la mannaia e si
aggiustò perfettamente da sé per non essere toccata dal carnefice. Ma il colpo non arrivava.
Il
Papa, in preghiera a Monte Cavallo e in pensiero per
la salvezza dell’anima di Beatrice,
sapendo che ella si riteneva ingiustamente condannata, aspettava il segnale (un
colpo di cannone da Castel Sant’Angelo) che lo avvertiva del momento esatto per
poterle impartire l’assoluzione papale maggiore in articulo mortis. Di qui la pausa in quel crudele momento.
Finalmente
cadde la mannaia, il corpo ebbe un gran sussulto e il povero Bernardo, sempre seduto sul palco,
svenne di nuovo.
Toccò
infine a Giacomo che fu “mazzolato”.
Quindi il suo corpo venne squartato ed i suoi resti
appesi ai quattro lati del palco; subito Bernardo fu ricondotto in carcere:
aveva la febbre alta e bisognò cavargli il sangue.
Tutto
era finito ed erano le 2 meno un quarto.
Le due donne furono messe ciascuna in una bara disposta a qualche passo dal patibolo, dopo la statua di S. Paolo che è la prima a destra di Ponte Sant’Angelo. Restarono là fino alle 4 e un quarto. Intorno a ciascuna bara bruciavano quattro candele di cera bianca. Poi, con i resti di Giacomo, furono portate al palazzo del Console di Firenze che si era offerto di ospitare le spoglie.
Alle
9 e un quarto di sera il corpo di Beatrice fu condotto a S. Pietro in Montorio e sepolto davanti
all’altar maggiore.
Lucrezia Petroni
fu portata alla chiesa di San Giorgio.
Quel giorno al supplizio aveva assistito una folla
innumerevole e il sole era così forte che molti svennero,
moltissimi presero le febbri, altri furono soffocati e schiacciati dai cavalli.
Il numero dei morti fu notevole.
Ieri
che fu martedì 14 settembre 1599 Bernardo Cenci fu
liberato dalla prigione obbligandosi a pagare entro un anno 400.000 franchi
alla Santissima Trinità di Ponte Sisto.
Francesco Cenci
era un uomo alto, di quasi 5 piedi e 4 pollici
d’altezza, molto ben costruito quantunque magro, occhi grandi ed espressivi, ma
la palpebra superiore gli ricadeva troppo sulla pupilla; naso sporgente e tropo
grande, labbra sottili e sorriso affabile.
La
signora Lucrezia Petroni Cenci,
cinquantenne, era di statura piccola, molto abbondante di forme, ma ancora
piacente, naso minuto, occhi morati, capelli castani.
Beatrice Cenci,
sedicenne, piccola di statura, rotondetta; piccola bocca; fossette alle gote, capelli
biondi e ricciuti.
Giacomo Cenci,
ventiseienne, era breve di statura; viso bianco,
barba e capelli neri.
Bernardo Cenci somigliava alla
sorella e poiché portava come lei i capelli lunghi, quando apparve sul palco fu
scambiato per lei.
Il
celebre avvocato Prospero Farinacci,
che con la sua pertinacia salvò la vita al giovane Bernardo
Cenci, pubblicò in lingua latina le difese che pronunciò davanti a Clemente VIII, testimoniandoci così il
modo di pensare dell’anno 1599. Anni dopo, alla difesa dei Cenci aggiunse
questa nota: “Omnes fuerunt ultimo
supplicio effecti excepto Bernardo qui ad triremes cum
bonorum confiscatione condemnatus fuit ac etiam ad interessendum aliorum morti
prout non interfuit” (“Tutti furono condannati a morte eccetto Bernardo che
fu condannato alle galere con la confisca dei beni e anche affinché ci fosse
differenza con la morte degli altri in quanto non partecipò”).
Si ringrazia il Rettore dell’Ordine dei Frati Minori che regge la Chiesa di San Pietro in Montorio per averci consentito di estrarre dall’archivio copia dei documenti attestanti la data di nascita di Beatrice Cenci ed il luogo della sua sepoltura all’interno della Chiesa.
M.C.
& L.C.