I PROCESSI ALLE STREGHE
di Maurizio Calò |
I maghi e gli stregoni appartengono alla classe dei sacerdoti che si ritrova presente in ogni collettività, anche in quelle di origini più antiche, ed erano i custodi della scienza e della medicina del tempo in cui vivevano, distinguendosi nettamente dalla classe dei guerrieri alla quale, di volta in volta, offrivano appoggio o si contrapponevano nella gestione del potere.
Essi attingevano il loro prestigio dalla capacità di interpretare o di modificare il destino e per questa loro qualità di intermediari con il divino, erano guardati con timore reverenziale, potendo determinare con i loro incantesimi il miglioramento delle condizioni di vita dei singoli o dell’intera collettività di appartenenza.
Ma non è in questa antica accezione che i processi alle streghe e agli stregoni si ripropongono alla nostra memoria e la differenza è riconducibile all’avvento della religione cristiana che, riservando all’unico Dio la capacità di determinare i destini umani, definisce come eresia ogni altra ipotesi di interferenza.
Storicamente i primi “stregoni” furono i “valdesi”, i seguaci di Valdo (1140 ca. - 1217 ca.) che nel XII secolo, dopo aver donato tutti i suoi beni ai poveri, si dedicò alla predicazione del Vangelo, ma venne scomunicato dal Sinodo di Verona nel 1184 e, con i suoi adepti, si rifugiò nelle vallate alpine per sfuggire alla persecuzione della sua eresia.
Tuttavia la repressione della stregoneria su vasta scala, iniziò solo tra il 1420 ed il 1430, proprio in quelle vallate comprese tra il Delfinato, le Alpi francesi e svizzere ed il Jura in cui si erano insediati i valdesi dando grande lustro alla categoria degli inquisitori che perseguivano, con lo stesso accanimento, gli eretici e gli stregoni, questi ultimi ormai intesi non più come portatori di poteri straordinari, ma aderenti ad un’antireligione ed adoratori del Diavolo.
Stranamente la credenza nella stregoneria e l’evolversi degli strumenti giuridici della grande caccia alle streghe, coincidono con la fine del Medioevo, un’epoca in cui esplode la contrapposizione tra l’idea di Dio, inteso come esponente del Bene, e l’idea di Satana, esponente del Male, eternamente in lotta tra loro a spese dell’umanità tra cui si devono individuare e stanare i fautori del Diavolo per permettere al Bene di trionfare.
Il motivo dello sviluppo di questa credenza va ricercato, probabilmente, nella serie di disgrazie che periodicamente si sono abbattute su tutte le popolazioni europee: epidemie, catastrofi naturali e climatiche e guerre hanno decimato uomini e animali e reso difficili i raccolti. All’inizio del XV secolo, sembra proprio, quindi, che Satana stia per prevalere su Dio e ad ogni sventura, nelle comunità dei villaggi, si compiono orrende rappresaglie contro i pretesi stregoni che vengono messi a morte.
Questo profondo malessere trova poi, sul finire del XV secolo, l’opportunità di coagularsi in una formulazione scientifica grazie a due importanti testi : la bolla SUMMIS DESIDERANTES AFFECTIBUS, promulgata da Papa Innocenzo III il 5 dicembre 1484, con la quale si conferivano amplissimi poteri ai due inquisitori che agivano nella Germania del nord, Jabob Sprenger (1436 ca. - 1496) e Heinrich Institoris (1430 ca. - 1505 ca.), ed il Malleus MalEficarum (il “Martello delle Streghe”) che venne pubblicato nel 1486 a Strasburgo dall’editore Jean Prüss proprio dai due inquisitori della Valle del Reno appena citati e che divenne il più noto testo della letteratura demonologica.
Si ritiene che Heinrich Institoris sia stato il vero autore dell’opera, anche se ne spartisce il grande successo con Jacob Sprenger. Erano entrambi domenicani, ma mentre il primo era un persecutore di ogni forma di eresia, ed in particolare della stregoneria, il secondo doveva essere meno focoso e più studioso, essendosi dedicato prevalentemente alla riforma dei conventi domenicani dell’Impero ed alla diffusione della devozione del Rosario, fondando, nel 1475 in Germania, la Confraternita del Rosario.
Avendo trovato in questi due testi fondamentali la base teorica della stregoneria demoniaca, la caccia alle streghe poté esplodere raggiungendo in due periodi, il primo fra il 1480 ed il 1520, ed il secondo fra il 1580 ed il 1670, dimensioni di vera e propria strage.
Le due ondate repressive non furono però identiche: nel primo periodo il numero delle vittime era ancora limitato ed i processi si svolgevano nella sede ecclesiastica; nel secondo periodo, più drammatico, i processi avvenivano in sede secolare ed il numero delle vittime divenne incalcolabile.
In che cosa consista il crimine di stregoneria è presto detto.
I seguaci di Satana si cospargono il corpo con un unguento che rende invisibili usando una bacchetta cavalcando la quale ci si può poi spostare velocemente per raggiungere il sabba che, generalmente, si svolge in un bosco alla luce di un fuoco livido. Qui Satana, che può assumere i più vari aspetti animaleschi, più spesso quelli di un caprone, li attende per intrattenerli con un discorso contro la religione cristiana. La cerimonia prosegue con un banchetto e si conclude con una messa nera cui segue una orgia dissennata cui partecipano i diavoli assumendo forme femminili (succubi) o maschili (incubi).
Nel corso del sabba si abiura alla religione cristiana, si offendono le immagini sacre e si predispongono gli ingredienti per preparare le pozioni malefiche. Il sabba è la caricatura di una messa cattolica.
Per il numero degli aderenti, la stregoneria è considerata una setta di eretici ed apostati che, nella piena coscienza di contrapporsi al Bene, devono essere estirpati dalla società
Le soluzioni giudiziali non vanno per il sottile : se, dopo la tortura (che può arrivare a quindici tipi diversi) la strega confessa, viene bruciata. Pentendosi può esserle concessa l’impiccagione prima del rogo. Se ritratta la confessione, è ispirata dal Diavolo e, quindi, non vi sarà per lei alcuna pietà. Nei casi dubbi, viene esiliata e, quindi, destinata alla morte civile.
Proprio per l’enorme numero delle esecuzioni, si moltiplicano i trattati di demonologia scritti da giureconsulti, peraltro in coincidenza con il passaggio dei processi di stregoneria dalla sede ecclesiastica a quella secolare.
Si distingue tra questi Jean Bodin (1530 - 1590) che, ben noto per aver per primo, tra i suoi contemporanei, compreso i meccanismi dell’inflazione monetaria (1560), e scritto un’opera fondamentale per tracciare le origini ed i limiti della sovranità (il DE REPUBLICA del 1576), divenne famoso per aver composto, nel 1580, l’opera DEMONOMANIE DES SORCIERS.
Dopo di lui numerosi magistrati si cimentarono nella materia esponendo il frutto delle loro esperienze, ma l’opera che rimane fondamentale furono i sei volumi delle DISQUISITIONES MAGICAE del gesuita belga di origine spagnola Martin Del Rio, usciti a Lovanio nel 1559 e in seguito ristampati in molte altre edizioni.
Da questa opera apprendiamo come avviene l’iniziazione delle streghe.
In un momento di debolezza, Satana offre il suo appoggio in cambio di un giuramento di fedeltà. La resistenza della vittima non può durare a lungo di fronte alle lusinghe del demonio e così si induce ad abiurare alla religione cattolica prestando il giuramento a Satana il quale, immediatamente, appone sul corpo della sua vittima il marchio del Diavolo : un segno piccolissimo insensibile al dolore, riconoscibile come un neo, una callosità, un graffietto. L’iniziazione si conclude con un amplesso che, però, non è mai sentito dalle streghe come un piacere, ma, anzi, come un doloroso tributo dovuto al tirannico nuovo sposo.
In virtù dei poteri satanici acquisiti con l’iniziazione, streghe e stregoni possono procurare malefici a singoli individui o ad intere collettività, possono gettare il malocchio rendendo sterili o avvelenare pozzi, uccidere neonati o scatenare nubifragi che distruggono i raccolti.
Bisogna convenire che le vittime della caccia sono quasi sempre di sesso femminile, anziane e povere, sole in un mondo profondamente antifemminista. Della donna non si conosceva quasi nulla sul piano medico ed era posta sempre sotto la tutela maschile, prima del padre, poi del marito. Venendo meno quest’ultima con la vedovanza, la donna acquistava una relativa autonomia, ma, ormai sola, poteva perciò essere la vittima predestinata di una collettività isterica ed ignorante qual era quella rurale della fine del Medioevo.
Sul numero delle vittime della caccia alle streghe, si rimane molto perplessi a seguire le indicazioni che emergono dai testi dei giudici. Nicolas Rémy, che opera in Lorena tra il 1576 ed il 1606, autore, nel 1595, del DAEMONOLATREIA, afferma di aver mandato al rogo tra le due e le tremila streghe. Pierre de l’Ancre, presidente della Corte Sovrana di Bordeaux ed autore di due testi fondamentali, il TABLEAU DE L’INCONSTANCE DES MAUVAIS ANGES ET DEMON (1612) e L’INCREDULITE’ ET MESCREANCE DU SORTILEGE (1662), sostiene di aver fatto bruciare, a seguito di processo dinanzi alla Corte che preside, nel solo 1577, ben 400 streghe.
In realtà tali numeri stanno soprattutto a significare l’intenzione degli inquisitori di diffondere il terrore per allontanare il diffondersi delle pratiche demonologiche.
Si stima, invero, che, nella zona di massima repressione, tra l’inizio del 1400 e la fine del 1600, i processi alle streghe non siano stati più di trecento e che solo la metà si siano conclusi con la messa a morte dell’incolpato.
Nonostante questo forte ridimensionamento, la caccia alle streghe ha profondamente colpito l’immaginario collettivo che ne è rimasto profondamente impressionato anche per le particolari modalità con cui il processo poteva iniziare, si svolgeva e terminava.
Bastava un semplice sospetto, una diceria, un particolare estetico per mettere in moto la macchina giudiziaria i cui esponenti, giudici e carcerieri, si ritenevano esenti dai sortilegi delle streghe che perseguitavano in virtù di una speciale immunità. Le prove per acquisire la certezza che l’imputato fosse una strega, erano varie e numerose.
Una delle più usate era la prova dell’acqua : la strega veniva immersa nel fiume, nel lago o nello stagno, a volte legata ad una grossa pietra. Se galleggiava significava che il demonio voleva salvare la sua adepta e la strega era condannata al rogo. Un’altra prova era quella della bilancia, legata alla facoltà della strega di volare, cosicché il suo corpo era assai più leggero di quello dei credenti.
La strega poteva essere anche sottoposta alla ricerca, mediante aghi, del “marchio del Diavolo”, il punto in cui non provava dolore e che poteva essere in qualsiasi parte del corpo: in quel punto, oltre a non sentire dolore, non vi sarebbe stato neppure sangue.
Queste prove, in definitiva, attingevano sempre al concetto di ordalia sorta nella tradizione germanica ed evolutasi nel “Giudizio di Dio” con l’introduzione della Cristianità tra quelle popolazioni : il principio si fondava sul dogma della giustizia di Dio che non avrebbe mai permesso che il Bene soccombesse rispetto al Male. Dall’ordalia derivò anche il Duello, o combattimento, di Dio.
L’interrogatorio dell’inquisitore è comunque uno dei punti topici del processo, ma è congegnato in modo tale che qualunque risposta verrà usata contro l’accusato.
Se poi le risposte riescono a driblare le varie trappole di cui l’interrogatorio è disseminato, l’inquisitore ha sempre a disposizione la tortura. Il “Martello delle Streghe”, tuttavia, non raccomanda la tortura, ma indica, quale prova principale, la confessione ed a questa l’inquisitore deve mirare.
Per ottenerla, però, si apprende che si ricorre a metodi certo non ortodossi. Ad esempio Bodin raccomanda di esporre gli strumenti di tortura in una stanza vicina e con la porta aperta in modo che siano ben visibili, oppure di far emettere urla di dolore da una stanza attigua e chiusa.
Anche le torture, come le prove, sono varie e numerose, da quella che costringe ad ingurgitare, incatenati, più di nove litri d’acqua con raddoppio in caso di protrarsi del rifiuto alla confessione, alla bruciatura dei piedi ; dall’introduzione di una punta di ferro sotto le unghie, a pezzi di legno applicati alle gambe e stretti lentamente per mezzo di cunei a corde fino a spezzarle, per citarne solo alcune.
L’accusato, di regola, non dovrebbe essere sottoposto a tortura più di tre volte e tra un’applicazione e l’altra dovrebbe trascorrere almeno un giorno, che ha l’effetto non tanto di dare riposo quanto di aumentare il terrore del ripetersi della tortura.
La confessione ottenuta sotto tortura deve essere confermata quando la coazione sia finita. Se l’accusato ritratta, la tortura ricomincia.
Era impossibile resistere a questi processi in cui, oltretutto, un’ultima seduta di tortura era dedicata ad ottenere l’indicazione degli altri aderenti alla stregoneria.
L’appello poi, pur previsto dai principi, era il più delle volte impercorribile, sia per l’ignoranza delle vittime che, soprattutto, a causa dell’esecuzione della sentenza, che seguiva immediatamente la conclusione del processo e nel cui rogo venivano anche bruciati gli atti del giudizio per ottenere il massimo della purificazione.
Forse è per questa pratica che non è poi così facile ricostruire gli atti dei processi alle streghe.
Sebbene tutti, nell’Europa tra il 1450 ed il 1700, credessero alle streghe, ai malefici ed ai sortilegi, i roghi non si accesero dappertutto allo stesso modo. Le regioni più colpite furono l’Artois, le Fiandre, il Lussemburgo, la Scozia, la Lorena, la Romania, le regioni meridionali della Germania, il Tirolo, la Borgogna, la Franca Contea, i Paesi Baschi ed il Piemonte.
Nel resto d’Europa, invece, i patti col Diavolo non impressionavano più di tanto. Ne è in gran parte indenne l’Italia dove solo nel Trentino, regione contigua al mondo germanico, i processi si susseguirono sino al 1600.
Tale fenomeno è probabilmente da riconnettere all’istituzione del tristemente noto Sant’Uffizio da parte di Papa Paolo III nel 1542 che, proteso all’estirpazione delle eresie, non diede gran peso al fenomeno delle streghe, frutto più dell’ignoranza e della superstizione che della speculazione eresiaca.
Solo nel 1631 il gesuita tedesco Friedrich Von Spee diffuse il suo trattato CAUTIO CRIMINALIS, SEU DE PROCESSIBUS CONTRA SAGAS nel quale metteva in dubbio il reato di stregoneria e la sua voce non rimase isolata se nel 1657 Papa Alessandro VII raccomandava ai giudici la massima prudenza nel definire il reato di stregoneria.
Ma il colpo di grazia lo diede il padre cappuccino Jacques D’Autun che nel 1671 pubblicò in Francia l’opera L’INCREDULITE’ SAVANTE ET LA CREDULITE’ IGNORANTE AU SUJET DES MAGICIENS ET SORCIER che demolì il concetto stesso del reato di stregoneria segnando una svolta culturale nel mondo giudiziario del suo tempo.
Queste voci ecclesiastiche erano state invero precedute da quelle degli scienziati.
Il medico Johann Wier aveva pubblicato nel 1563 a Basilea il volume DE PRAESTIGIS DAEMONUM ET INCANTATIONIBUS AC VENEFICIIS in cui, pur non negando l’esistenza di Satana e dei suoi adoratori, affermava che la maggior parte dei processati gli apparivano poveri malati bisognosi di cure. Era il Wier una personalità nel suo campo e fu proprio per contrastare le sue idee che Jean Bodin pubblicò il suo celebre DEMONOMANIE DES SORCIERS.
In Francia i processi alle streghe finirono praticamente con l’editto reale del 1682 su maghi, indovini ed avvelenatori, adottato a seguito del celebre “caso dei Veleni” che aveva coinvolto persino Madame de Montespan, amante di Luigi XIV. Pur non escludendo il reato di stregoneria, l’editto prevedeva che un processo demonologico potesse essere istruito solo se a carico di maghi e streghe esistevano prove materiali, come l’uso dei veleni, cosicché le semplici dicerie non bastavano più.
Così limitata l’attività processuale ed affermandosi, nel secolo dei lumi, la convinzione che la stregoneria fosse solo frutto di ignoranza e superstizione, i roghi si spensero.
Le streghe risorgeranno solo letterariamente nella prima metà del XIX secolo con il Romanticismo, soprattutto quello germanico, con la riscoperta delle tradizioni e delle leggende popolari che ispirarono letterati e pittori, dai Fratelli Grimm a Francisco Goya a musicisti quali Felix Mandelssohn-Bartholdy, Ector Berlioz o Rimsky-Korssakoff a conferma che la stregoneria costituisce un tema estremamente fecondo dell’immaginario collettivo europeo.
L’idea della leggerezza dei demoni cui si è fatto sopra cenno si riscontrava anche nella prova dell’acqua fredda. A livello popolare, invece, tale ordalia si basava sulla supposizione che ciò che è puro come l’acqua non può mai ricevere dentro di sé un rio. Entrambe le credenze portavano comunque al medesimo risultato. Dopo aver legato per bene il giudicando in modo tale da impedirgli qualsiasi movimento, i giudici ordinavano di immergerlo in uno stagno, in un lago, nel mare, nella corrente di un fiume. Se il prevenuto saliva a galla era colpevole, se rimaneva sott’acqua veniva giudicato innocente.
Dal punto di vista mitico lo iudicium aquae frigidae si ricollega all’archetipo del Diluvio Universale, presente presso tutte le religioni antiche a rappresentare una forma di purificazione divina del genere umano attraverso una sorta di Lavacro Cosmico. Con riferimento più specifico alla mitologia cristiana basterà ricordare il passaggio del Mar Rosso del popolo ebreo in fuga verso la liberazione o il battesimo nel Giordano di Gesù Cristo ad opera di Giovanni il Battista.
La tecnica dell’immersione del corpo nell’ordalia dell’acqua fredda seguiva un rituale molto rigoroso. Innanzitutto bisogna precisare che l’indiziato veniva calato in acqua imbragato con funi e trattenuto da una robusta corda, su cui una serie di nodi formavano una sorta di scala per parametrare la linea di affondamento.
Siccome la gente dell’epoca ben poco praticava le arti natatorie né era a conoscenza, quanto meno a livello pratico, dei suoi principi, capitava normalmente che l’indiziato per istinto di conservazione tendesse a muoversi. Egli cercava di slegarsi e di uscire dal sacco in cui eventualmente erta stato rinchiuso e questo, per la legge fondamentale dell’idrostatica già scoperta da Archimede, lo riportava a galla con spinta pari al suo peso.
In effetti, in mancanza di una tecnica subacquea adeguata, un espediente rudimentale per uscire vivi dalla prova era svuotare completamente i polmoni d’aria prima del tuffo e starsene fermi sott’acqua, piuttosto che agitarsi scompostamente. Anche in tal caso, però, l’esito della prova era legato ad un altro fattore diabolico. L’assoluta inerzia del giudicando furbo o sagace lo rendeva oggetto non certo del responso diretto della divinità, quanto della voluntas degli addetti al protocollo. Il sistema rituale del controllo dei nodi per verificare la natura dell’affondamento faceva sì che comunque andasse l’esito della probatio il giudice aveva uno jus vitae ac necis, anche in rapporto a un innocente conclamato dal popolo che egli volesse eliminare.
Sarebbe bastato infatti tenerlo immerso più del dovuto per farlo andare in uno tempore in gloria degli onesti e di Dio, con viaggio repentino all’altro mondo. A tanto poteva portare, senza scandalo alcuno, il peso specifico di chi avesse avuto il corpo greve, imbroglione o senza macchia ch’egli fosse. Ove non si fosse arrivati a tanto, era sempre possibile imbrogliare la misurazione della linea di affondamento per mandare alla decapitazione o al rogo il malcapitato.
Ovviamente nell’ordalia dell’acqua fredda avevano più possibilità di scamparla le genti abituate a lavorare nell’acqua per guadagnarsi da vivere e in tal senso lo status sociale di lavoratore del mare o una tecnica natatoria che un comune individuo avesse appreso dai pescatori, dai marinai, dai barcaioli potevano portare lo scaltro, pur colpevole, a salvarsi la vita. Le istituzioni di Vishnù che già prevedevano quell’ordalia, impedivano appunto che ad essa fossero sottoposte le categorie di operatori acquatici succitati.
La prova dell’acqua fredda, nata nel secolo IX in occidente come innovazione della chiesa, godé di grande fortuna soprattutto nel XIII secolo, quand’essa venne utilizzata non più per risolvere casi ordinari di giustizia, ma come prova per i sospettati di patti col demonio.
Già Plinio aveva scoperto che gl’incantatori del Ponto Eusino si mostravano più leggeri dell’acqua “eosdem praeterea non posse mergi ne veste quidam degravato” (Natur. Historia). Stefano Bizantino notava il medesimo prodigio natatorio caratterizzare gli abitanti di Tebe, stregoni capaci di uccider col fiato. Questi ed altri riferimenti dotti alimentarono la filosofia e le diatribe dei demonologi come Bodin, Binsfeld, Godelmann che fino al 1600 e anche oltre trattarono della materia. Basterà accennare per tutte alla disputa tra Scribonio ed il Vescovo Binsfeld. Questi si scaglia contro l’ordalia, affermando che il galleggiamento dello stregone è provocato direttamente dal demonio, il quale ben volentieri sacrifica un amico per rinverdire la pratica malefica che ormai è apertamente condannata dalla chiesa. Giunge poi a tacciare di peccato mortale tutti i partecipanti, giudici compresi.
Il protrarsi delle dispute colte fornisce l’indizio di una resistente credenza popolare nello strabiliante, manifestantesi particolarmente nei metodi giudiziari spettacolari e acquei. Là dove l’humus antropologico delle mirabilie era più esteso come in terra di Scozia, paese famoso per le violente ondate di caccia alle streghe, l’ordalia de qua venne applicata con frequenza fino a tempi molto recenti. Le figlie di Satana venivano immerse nell’acqua ghiacciata della Baia di Sant’Andrea, che a ricordo della pratica si chiama ancora tristemente Witch Pool (Pozza della Stega).
Tra le opere più importanti ispirate dai secoli delle streghe, vi è Il Trovatore, opera lirica in quattro parti - libretto di Salvatore Cammarano, musica di Giuseppe Verdi (1813-1901) - tra le più intense e popolari del repertorio verdiano e appartenente alla famosissima trilogia con La Traviata ed Il Rigoletto.
1 - Nella Spagna dell’inizio del XV secolo, nelle regioni di Biscaglia ed Aragona, dimora, nel palazzo di Aliaferia, il Conte di Luna con i suoi due figli. Alla culla del più piccolo, di nome Garzia, si avvicina, nottetempo, una zingara che viene accusata di stregoneria e mandata al rogo quando, poco dopo, il bimbo comincia a deperire inguaribilmente. In punto di morte la strega impone alla figlia Azucena di vendicarla e questa, col tempo, riuscirà a rapire il piccolo Garzia con l’intenzione di bruciarlo nello stesso punto in cui arse sua madre. Sennonché, nella concitazione del momento cruciale, Azucena in preda ad un raptus, spinge tra le fiamme suo figlio ed alleverà quindi, come proprio, il secondo figlio del Conte di Luna. Dai resti carbonizzati del figlio di Azucena, il popolo deduce che sia stato invece ucciso Garzia e invano, per anni ed anni, gli armigeri del Conte di Luna cercano la figlia della strega, ritenuta colpevole dell’orrenda vendetta.
Iniziata la guerra civile tra il Conte di Luna e il Conte di Urgel, principe di Aragona e pretendente al trono, la nobildonna Leonora viene corteggiata dal primo figlio del Conte, ma è perdutamente innamorata del Trovatore, un misterioso cavaliere che ha avuto occasione di premiare in un torneo dove combatteva senza insegne prima dello scoppio della guerra civile e che ora finalmente ritrova sotto il suo balcone che le rivolge canti d’amore accompagnandosi con il liuto.
In una delle serate in cui il figlio del Conte di Luna si reca a cercare l’amata Leonora, avviene l’incontro con il Trovatore che, diffidato a uscire dall’ombra degli alberi, si qualifica come Manrico, seguace del Conte di Urgel. Folle di gelosia, il Conte di Luna sfida Manrico a duello senza che Leonora riesca ad impedirlo.
2 – Nei boschi di Biscaglia vi è l’accampamento degli zingari ai quali Azucena inizia a narrare la macabra storia della madre che suo figlio Manrico chiede di continuare anche dopo che gli altri si sono allontanati per i lavori quotidiani. Nell’udire il racconto, Manrico sospetta di non essere il figlio di Azucena, ma questa esce dalla trance in cui è caduta rievocando l’antico dramma, allontanando ogni perplessità di Manrico, il quale, a sua volta, le narra di aver risparmiato, nel duello notturno, la vita al Conte di Luna per l’intervento di una voce celeste che lo ha trattenuto dal vibrare il colpo mortale. Mentre Azucena fa giurare a Manrico di non risparmiare mai più la vita al Conte di Luna, un messaggero riferisce a Manrico l’ordine di assicurare la difesa nella fortezza di Castellor, assediata dal Conte di Luna e gli riferisce anche che Leonora, credendolo morto nel duello, sta per chiudersi in convento.
Manrico parte a cavallo per le due missioni nella disperazione di Azucena.
In prossimità del monastero, il Conte di Luna, con Ferrando, capo dei suoi soldati, tende un’imboscata per rapire Leonora prima che vesta il velo, ma al momento del rapimento sopraggiungono Manrico e i suoi seguaci capitanati da Ruiz che prelevano per primi Leonora, portandola a Castellor, e mettono in fuga il Conte e la sua scorta.
3 – Nell’accampamento del Conte di Luna i soldati si preparano per assaltare la fortezza di Castellor. Ferrando informa il Conte che è stata catturata una zingara mentre si aggirava con fare sospetto intorno all’accampamento.
Durante l’interrogatorio del Conte, la zingara viene riconosciuta come Azucena da Ferrando cioè la figlia della strega, responsabile della morte di Garzia e viene a sua volta condannata al rogo. In tale drammatica situazione Azucena invoca l’aiuto di Manrico, rivelandosene la madre alla presenza di Ferrando e del Conte di Luna e perdendo così ogni speranza di salvezza.
Della cattura della madre viene informato Manrico che, dall’alto
delle mura di Castellor, vede i bagliori del rogo in allestimento e lancia il
suo grido di vendetta, intonando quello che forse è il brano più famoso di
tutto il repertorio verdiano: “Di quella pira…”)
4 – Sulla torre del palazzo di Aliaferia sono rinchiusi Manrico, che è stato arrestato mentre cercava di liberare Azucena, e Azucena stessa.
Si avvicina nella notte Leonora nel tentativo di liberare l’amato e ne ode il canto con il quale egli cerca di rasserenare Azucena, invitandola al sonno. Sopraggiunge il Conte di Luna che emette la sentenza per i due prigionieri: Manrico decapitato e Azucena al rogo. Si fa allora avanti Leonora che si offre in moglie al Conte di Luna purché Manrico venga salvato. Il Conte di Luna accetta, ma, nascostamente, Leonora assume un veleno ad azione ritardata celato nell’anello, quindi ascende alla torre annunciando a Manrico la possibilità di fuga. Questi rifiuta e la maledice immaginando il prezzo della sua liberazione. Ma il veleno agisce prima del previsto e Leonora muore tra le braccia di Manrico che rimprovera a se stesso i dubbi sul comportamento dell’amata.
Sopraggiunge il Conte di Luna che, disperato per la morte di Leonora, spedisce Manrico al ceppo. La sentenza sta per essere eseguita quando Azucena si risveglia e, osservando dalla finestra l’esecuzione, rivela al Conte di Luna che ha appena ucciso suo fratello. Quindi la zingara annuncia, tra disperazione e trionfo, che la strega sua madre è stata finalmente vendicata.
L’approccio più facile alla musica colta può avvenire tramite l’opera lirica. La trilogia verdiana de “La Traviata”, “Il Rigoletto” e “Il Trovatore” costituiscono un ottimo inizio perché dotate di una trama facilmente seguibile con il libretto e di musiche assai espressive dei sentimenti di volta in volta espressi dai vari personaggi. Si consiglia di dotarsi di una buona edizione, anche se datata, e di ascoltarla tre volte, in tempi ravvicinati, seguendo il libretto.
Al primo ascolto si avrà solo la percezione di note forti o più delicate, ma già al terzo ascolto le armonie più facili resteranno impresse e si farà il coro alle arie più famose.
Ah! Vili!
Il rio spettacolo
Quasi il respir m’invola!…
Raduna i nostri, affrettati,
Ruiz,…va, torna, vola!
(Ruiz parte frettoloso)
Di quella pira l’orrendo foco
Tutte le fibre m’arse, avvampò!
Empi, spegnetela, o ch’io fra poco
Col sangue vostro la spegnerò
(a Leonora)
Era già figlio prima d’amarti
Non può frenarmi il tuo martir…
Madre infelice, corro a salvarti,
O teco almeno corro a morir!
Non reggo a colpi tanto funesti…
Oh quanto meglio sarà morir!
Madre infelice!
All’armi! All’armi!
Corro a salvarti o teco almen,
O teco almen corro a morir!
Eccone presto a pugnar teco,
O teco a morir!
All’armi! All’armi!
Nella partitura originale verdiana, la
notissima aria, non si concludeva con il famoso “Do di petto” dell’ “All’armi”,
ma questo virtuosismo del tenore venne introdotto vivente lo stesso Verdi che
lo apprezzava.
Il maestro Muti, inaugurando l’8 Dicembre
2000 la stagione lirica del teatro Alla Scala di Milano, volendo recuperare la
lettura verdiana, eliminò la potente esibizione suscitando le furiose polemiche
del loggione.
Nota: pubblicato su "La rivista dei Curatori Fallimentari"numero unico 2000