LA SORTE DEGLI INTERESSI SUI CREDITI PRIVILEGIATI NEL FALLIMENTO E LA FAVOLA DEL RE NUDO
Nel 1934 l’autore
russo Evgenij L’vovic Svarc (Kazan 1896 - Pietroburgo 1958) arricchiva
la letteratura mondiale con lo straordinario racconto de “Il re nudo”.
Un ciarlatano si reca dal re e lo induce a credere che egli sia un sarto
capace di cucirgli abiti di pregiatissime stoffe invisibili. Così
il re finisce col pavoneggiarsi, fintamente abbigliato, davanti al suo
popolo il quale, accecato dall’adulazione, esprime grandi apprezzamenti
per gli invisibili vestiti. Ma un bambino, nella sua ingenuità incontaminata
dalla piaggeria, esclama quello che è sotto gli occhi di tutti:
“Il re è nudo!” e tutti i cortigiani cominciano a prenderne atto
costringendo il re ad una vergognosa ritirata.
La sentenza
162/2001 della Corte Costituzionale, evoca, anche nell’ironico tenore letterale,
l’esclamazione del bimbo della fiaba di Svarc.
Dal varo della
legge fallimentare (1942), l’intera giurisprudenza in argomento ha ripetuto,
a tutti i livelli, dalla Corte Costituzionale alla Suprema Corte di Cassazione
a Sezioni Unite, che: “Gli interessi sui crediti assistiti da privilegio
generale vanno collocati tra i crediti chirografari anche se maturati prima
del fallimento.” (Cassazione civile Sez. Un., 26 gennaio 2000, n. 7 - Min.
fin. c. Soc. E.C.I. in Il Fisco, 2000, 6504, 9685 con nota di Sorrentino)
rimanendo sorda a tutti i richiami con i quali la dottrina strillava che
non si vedeva ragione perché gli interessi, trattati in privilegio
nelle esecuzioni individuali, ove il credito principale avesse avuto diritto
alla prelazione, dovessero subire un trattamento deteriore, alla stregua
del chirografo, in sede fallimentare.
La Suprema
Corte, di fronte a questo strepitio, rispondeva che: “… Avuto riguardo
alla collocazione degli interessi prefallimentari sui crediti privilegiati,
in conformità alla recente sentenza della Corte Costituzionale 28
luglio 1993 n. 350, deve ritenersi che il mancato richiamo nell'art. 54
L.F. dell'art. 2749 c.c. implica uniformità di trattamento tra interessi
anteriori ed interessi successivi al fallimento. Per entrambe le categorie
spetta pertanto l'ammissione al passivo solo al rango chirografario...”
(cfr., in motivazione, Cass. 24.05.2000 n. 6787 in Foro it. 2000, I, 3170).
In effetti
deve dirsi che, al radicarsi di questa giurisprudenza, la stessa Corte
Costituzionale, prima di esclamare, come ha fatto con la sentenza 162/2001,
che “il re era nudo”, ha molto apprezzato “gli abiti invisibili” degli
interessi accessori a credito privilegiato collocati in chirografo nella
sede fallimentare contrariamente a quanto previsto nella sede individuale:
e questo non solo con la sentenza 28.07.1993 n. 350, citata dalla motivazione
del Supremo Collegio appena sopra riportata, ma anche con la sentenza 19.05.1994
n. 195 con la quale, addirittura nella stessa materia tributaria per la
quale ha ora dichiarato l’incostituzionalità, aveva affermato che:
“E' infondata la questione d’illegittimità costituzionale degli
art. 54, comma 3, e 55, comma 1, L.F., in riferimento all’art. 3
Cost. nella parte in cui non estendono la prelazione agli interessi
sui crediti tributari che scadono dopo l’apertura del fallimento.” (Corte
costituzionale 19 maggio 1994, n. 195 - Banca Roma c. Fall. Soc. Cave del
Sud in Dir. fall. 1995, II, 5 con nota di Ragusa Maggiore).
E allora,
per l’importanza che il revirement giurisprudenziale riveste, una ricostruzione
sistematica, sia pure sommaria, dell’argomento appare necessaria.
Il legislatore
fallimentare del 1942, in materia di interessi accessori a credito privilegiato,
così stabiliva all’art. 55, 1° comma: “La dichiarazione
di fallimento sospende il corso degli interessi convenzionali o legali,
agli effetti del concorso, fino alla chiusura del fallimento, a meno che
i crediti non siano garantiti da ipoteca, da pegno o privilegio, salvo
quanto è disposto dal terzo comma dell’articolo precedente.”.
A sua volta
il precedente art. 54, 3° comma, prevedeva che: “L’estensione del diritto
di prelazione agli interessi è regolata dagli artt. 2788 e 2855,
commi secondo e terzo, del codice civile, intendendosi equiparata la dichiarazione
di fallimento all’atto del pignoramento.”.
Risalendo
all’art. 2788 c.c., in materia di interessi su crediti assistiti da pegno,
si apprende che: “1. - La prelazione ha luogo anche per gli interessi dell’anno
in corso alla data del pignoramento o, in mancanza, di questo, alla data
della notificazione del precetto. La prelazione ha luogo inoltre per gli
interessi successivamente maturati nei limiti della misura legale, fino
alla data della vendita.”.
Inoltre, consultando
l’art. 2855, 2° e 3° comma, si apprende che, in materia di crediti
assistiti da garanzia ipotecaria, la prelazione degli interessi è
così disciplinata: “2. - Qualunque sia la specie d’ipoteca, l’iscrizione
di un capitale che produce interessi fa collocare nello stesso grado gli
interessi dovuti, purché ne sia enunciata la misura nell’iscrizione.
La collocazione degli interessi è limitata alle due annate anteriori
e a quella in corso al giorno del pignoramento, ancorché sia stata
pattuita l’estensione a un maggior numero di annualità; le iscrizioni
particolari prese per altri arretrati hanno effetto dalla loro data. 2.
– L’iscrizione del capitale fa pure collocare nello stesso grado gli interessi
maturati dopo il compimento dell’annata in corso alla data del pignoramento,
però soltanto nella misura legale e fino alla data della vendita.”.
In tal modo,
quindi, trovava soluzione, nella verifica del passivo fallimentare, il
trattamento degli interessi con riguardo a due garanzie [crediti assistiti
da pegno (art. 2788 c.c.) e crediti assistiti da ipoteca (art. 2855 c.c.)]
rispetto alle tre situazioni privilegiate prese in considerazione espressamente
dall’art. 55, 1° comma, L.F. (crediti assistiti da pegno, crediti assistiti
da ipoteca e crediti privilegiati in genere).
In definitiva
mancava, proprio nell’art. 54, 3° comma, L.F., al quale l’art. 55,
1° comma, faceva riferimento espresso, il richiamo a quella norma del
codice civile (l’art. 2749 c.c.) che, allo stesso modo del credito assistito
da pegno (art. 2788 c.c.) e di quello assistito da ipoteca (art. 2855 c.c.),
disciplina il destino degli interessi di un credito comunque privilegiato,
in occasione del pignoramento, nei termini che seguono: “1. - Il privilegio
accordato al credito si estende alle spese ordinarie per l’intervento nel
processo di esecuzione. Si estende anche agli interessi dovuti per l’anno
in corso alla data del pignoramento e per quelli dell’anno precedente.
2. – Gli interessi successivamente maturati hanno privilegio nei limiti
della misura legale fino alla data della vendita.”.
Insomma, il
trattamento degli interessi, accessori a credito garantito, prima dell’avvento
della sentenza Corte Cost. 162/2001, poteva schematizzarsi come segue:
Art. 54, 3° c., L.F. Collocazione degli interessi accessori ad un credito garantito rispetto alla data di fallimento |
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
La circostanza
che l’art. 54, 3° comma, L.F. non richiamasse l’art. 2749 c.c., impediva,
pertanto, che allo schema appena sopra tracciato si applicasse la precisazione
che segue e che, invece, ha sempre trovato applicazione in sede di esecuzione
individuale:
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
La ricerca
dei motivi per i quali il legislatore fallimentare aveva omesso di richiamare,
nell'art. 54, 3° comma, L.F., l’art. 2749 c.c., laddove aveva invece
espressamente citato gli artt. 2788 c.c. e 2855, 2° e 3° comma,
c.c., ha allagato i fogli degli studiosi con veri e propri fiumi di inchiostro,
peraltro ingrossati anche dall’altra questione riguardante il trattamento
degli interessi anteriori e posteriori rispetto all’apertura della procedura
concorsuale.
Il più
autorevole precedente è costituito da Cass. Sez. Un. 15.05.1982
n. 1670 nella cui motivazione, con riferimento agli interessi dei
crediti assistiti da privilegio dopo l’apertura della procedura concorsuale,
si legge: “… non sono garantiti dal privilegio che tutela il credito per
capitale, atteso che l’art. 55 primo comma legge fallimentare, nel riconoscere
detti interessi, fa salvo il terzo comma del precedente art. 54, il quale
richiama per l’estensione del diritto di prelazione agli interessi, solo
gli artt. 2788 e 2855 codice civile sui crediti pignoratizi ed ipotecari
e non anche l’art. 2749 codice civile in tema di crediti privilegiati….”.
Nell’affermare tale principio, la massima formazione della Corte Suprema
aveva prescelto, tra le diverse ipotesi in precedenza prospettate dalle
sue sezioni semplici, la linea secondo cui, per il periodo posteriore al
pignoramento o alla dichiarazione di fallimento, il criterio di trattamento
è uniforme negli artt. 2788, 2855 e 2749 c.c., in quanto, in tutti
questi casi, viene prevista l’estensione degli interessi per il periodo
successivo all’annata in corso alla data del pignoramento e fino alla data
della vendita. Di conseguenza, il richiamo all’art. 2749 c.c. non era indispensabile:
“…in quanto i privilegi sono concessi dalla legge, in relazione alla causa
di taluni crediti, per i quali, secondo la normalità dei casi, non
vi è pattuizione di interessi, onde il tasso legale finisce con
l’essere di applicazione automatica.” .
Tale soluzione
ha poi trovato applicazione in tutta la giurisprudenza successiva , anche
della Corte Costituzionale. Si deve qui segnalare la già citata
ordinanza del Giudice delle leggi resa in data 20 aprile 1989 n. 227
con la quale veniva ritenuta manifestamente infondata la questione di legittimità
costituzionale dell’art. 54 L.F. nella parte in cui non prevedeva che gli
interessi sui crediti tributari continuassero a decorrere, con collocazione
privilegiata, per il periodo successivo all’apertura della procedura di
amministrazione straordinaria delle grandi imprese in crisi, posto che
non vi erano le condizioni per un’assimilazione di tali crediti a quelli
di lavoro dipendente per i quali, invece, l’illegittimità costituzionale
veniva dichiarata lo stesso giorno 20 aprile 1989 con la sentenza n. 204
.
Altrettanto
si deve ricordare, cronologicamente, la sentenza, già più
sopra segnalata, della stessa Corte Cost. 28 luglio 1993 n. 350 dove,
affrontando specificamente il tema del lamentato ingiustificato trattamento
deteriore riservato, nel fallimento, ai crediti genericamente privilegiati,
rispetto ai crediti specificamente garantiti da pegno od ipoteca, con particolare
riguardo agli interessi sui crediti privilegiati per la loro natura tributaria
(la stessa questione su cui si era pronunciata con l’ordinanza 227/89 più
sopra citata e sulla quale si è poi verificato il revirement di
cui alla sentenza in rassegna) si legge: “…la denunziata disparità
di trattamento degli interessi relativi ai crediti privilegiati in genere
– e tributari in particolare – rispetto al trattamento degli interessi
relativi ai crediti assistiti da pegno e da ipoteca trova adeguata giustificazione
nella non irragionevole valutazione discrezionale del legislatore circa
la ontologica diversità intercorrente tra le varie cause di prelazione
considerate, differenza che si riflette – al di là e ben oltre lo
specifico profilo qui in discussione – nel differenziato regime generale
riservato a ciascuna di esse. …”. In definitiva, la Corte Costituzionale
sembrava trarre spiegazione, circa legittimità del diverso trattamento
degli interessi in sede fallimentare rispetto alla sede esecutiva individuale,
dalla diversa natura del privilegio: speciale, per i crediti pignoratizi
ed ipotecari da una parte (artt. 2788 e 2855 c..), e generale per gli altri
privilegi (art. 2749 c.c.) cosicché, in tal modo, offriva anche
spiegazione del perché, in precedenza, aveva dichiarato l’incostituzionalità
del sistema normativo in esame con riguardo ai crediti privilegiati dei
lavoratori e delle cooperative di lavoro nelle diverse procedure concorsuali
.
Per queste
ultime categorie di crediti privilegiati in via generale, infatti, la Consulta
spiegava, nella decisione in esame, che l’eccezione al generale trattamento
degli interessi sui crediti privilegiati derivava “esclusivamente” dalla
violazione dell’art. 36 Cost. sul rilievo che era: “…ingiustificatamente
lesivo dell’art. 36 la disparità di trattamento determinata dalla
denunziata omessa previsione della prelazione” per gli interessi relativi
a tali crediti (sent. 204/89 ), ma che altrettanto non poteva dirsi per
gli altri crediti privilegiati, tra cui quelli di natura tributaria (cfr.
ordinanza 227/89 cit.).
Insomma: tutto
ruotava sulla discrezionalità del legislatore del 1942 che, se aveva
omesso il richiamo all’art. 2749 c.c., aveva fatto una scelta “non irragionevole”
perché fondata sulla specialità del privilegio (per il pegno
e l’ipoteca) rispetto alla sua genericità (per i crediti privilegiati
in via generale).
Il medesimo
principio veniva ribadito dalla stessa Corte Costituzionale l’anno appresso,
con l’ordinanza n. 195 del 19 maggio 1994 da cui è stata tratta
la seguente massima: “E’ manifestamente infondata la questione di legittimità
costituzionale degli artt. 54, 3° comma, e 55, 1° comma, R.D. 16
marzo 1942 n. 267 (l. fall.) sollevata in riferimento all’art. 3 Cost.,
nella parte in cui non viene prevista l’estensione del diritto di prelazione
agli interessi garantiti da privilegio nei limiti stabiliti dall’art. 2749
c.c. non ritenendosi irragionevole la diversità di trattamento,
nelle procedure concorsuali, degli interessi relativi ai crediti privilegiati
in genere (maturati fino alla dichiarazione di fallimento) rispetto a quelli
relativi a crediti assistiti da pegno od ipoteca.”.
Quello che
stupisce in questi interventi della Consulta, è l’affermazione della
“non irragionevolezza” della distinzione tra crediti privilegiati in modo
speciale e crediti privilegiati in modo generale nell’ambito del fallimento
trascurando che la questione fondamentale non appariva tanto questa, quanto
quella del differente trattamento tra procedure individuali e procedure
concorsuali. In altre parole, è vero che il legislatore ben poteva
trattare in modo differenziato il privilegio speciale (di natura reale)
rispetto a quello generale (di natura legale), ma il Giudice delle leggi
non spiegava perché trattarli in modo differenziato se i relativi
crediti venivano azionati in un’esecuzione individuale oppure in una procedura
concorsuale.
Proprio nella
stessa epoca dell’intervento della Consulta da ultimo segnalato, un espertissimo
Autore pubblicava un articolo dal titolo: “Quando una svista crea giurisprudenza:
la sorte degli interessi postfallimentri sui crediti privilegiati.”
nel quale, dopo aver dato conto dello stato della giurisprudenza e della
dottrina (inventario assai completo al quale qui si rinvia espressamente),
rilevava l’opportunità di esaminare ex professo il problema, irrisolto,
degli interessi maturati prima del fallimento osservando che la questione
era stata messa in subbuglio dall’intervento della Corte Costituzionale
di cui alla sentenza 28 luglio 1993 n. 350 (prima riferita), la quale aveva
rilevato esplicitamente che la collocazione chirografaria degli interessi
doveva riferirsi anche a quelli prefallimentari, nonostante vi fosse l’avviso
contrario della prevalente dottrina e della quasi totalità della
giurisprudenza .
Sulla stessa
scia della giurisprudenza della Consulta, si poneva la pronuncia della
Corte di Cassazione 08 maggio 1995 n. 5020 secondo cui gli interessi
prodotti dai crediti dello Stato per imposte, maturati sia prima che dopo
l’apertura della procedura fallimentare a carico del debitore, non dovevano
ritenersi garantiti dal privilegio posto a tutela il credito per capitale.
Tale principio si poneva in contrasto con un recentissimo precedente della
stessa Corte di legittimità secondo cui, invece, il privilegio
sarebbe spettato in ordine agli interessi maturati prima della dichiarazione
di fallimento.
La questione
sollevata dalla Corte Suprema con la sentenza 5020/95, si rinviene così
espressa nella motivazione: “… Una volta escluso che il mancato richiamo
dell’art. 2749 possa essere interpretato come un lapsus del legislatore
(come ritiene una parte della dottrina), esso può essere inteso
in due modi contrapposti: o senza i limiti temporali previsti nel caso
di esecuzione individuale, ovvero la prelazione per tali interessi va esclusa.
/ La prima alternativa creerebbe ingiustificate posizioni di disuguaglianza
sia – nell’ambito della categoria dei crediti privilegiati – tra creditori
che partecipano all’esecuzione individuale, ove si applicano i limiti temporali
posti dall’art. 2749 c.c., e creditori che partecipano all’esecuzione concorsuale
(ed a vantaggio di questi ultimi, in contrasto con il maggior rigore con
cui opera il principio della par condicio), sia – nell’ambito della procedura
concorsuale – tra i creditori privilegiati da un lato ed i creditori pignoratizi
ed ipotecari dall’altro (a svantaggio dei secondi, ai quali la legge fallimentare
assicura una posizione di preminenza artt. 53, 107 e 109).”.
A tale questione
la Corte dava soluzione nel senso di escludere, dalla garanzia che tutela
il credito principale, gli interessi prodotti dai crediti dello Stato (nella
specie per imposta di registro), sia prima che dopo la dichiarazione di
fallimento, fondando la propria scelta su un argomento di ordine normativo
e, cioè, escludendo radicalmente che il mancato richiamo dell’art.
2749 c.c. potesse essere inteso come una semplice dimenticanza del legislatore
ed affermando che tale omissione, invece, costituiva sicuro indice della
voluntas legis di vulnerare, in ambito fallimentare, il principio dell’accessorietà
degli interessi al credito principale, scindendone il trattamento con riguardo
all’estensione del privilegio. In altre parole, il legislatore fallimentare
non avrebbe voluto estendere il privilegio del credito principale agli
interessi oltre i limiti temporali di cui all’art. 2749 c.c., ma avrebbe
proprio voluto escludere gli interessi da ogni prelazione.
Questi stessi
principi venivano accolti dalla successiva decisione della Corte Suprema
in data 22 gennaio 1997 n. 670 , sempre in tema di crediti dello Stato
per interessi sui tributi (ancora, nella specie, sull’imposta di registro).
Con riguardo
ai crediti dell’INPS, la Corte di cassazione, con sentenza 29 marzo 1999
n. 2997, non solo negava, sia pure limitatamente al periodo successivo
all’apertura della procedura concorsuale, la prelazione sugli interessi
maturati dal credito principale privilegiato, ma riteneva pure manifestamente
infondata la questione di incostituzionalità sollevata con riferimento
al sistema emergente dagli artt. 54 e 55 L.F. riguardo agli interessi sui
crediti dell’ente previdenziale in quanto, pur riconoscendo che la Corte
costituzionale aveva dichiarato l’illegittimità del meccanismo citato
con riferimento agli interessi dovuti sui crediti dei lavoratori dipendenti
nelle varie procedure concorsuali (sentenze 300/86 per il concordato preventivo;
204/89 per il fallimento; 408/89 per il fallimento ed il concordato preventivo
riguardo ai crediti delle società o enti cooperativi; 567/89 per
l’amministrazione straordinaria), risultava essersi già orientata
per la legittimità del meccanismo con riferimento ad altri soggetti
(ordinanze 27/89 per i crediti alimentari; 226/89 con riferimento agli
interessi dei crediti dell’agente nel concordato preventivo del preponente)
sul presupposto che il regime degli interessi, così come disegnato
dal combinato disposto delle norme del codice civile e della legge fallimentare,
fosse incompatibile soltanto in relazione all’esigenza di protezione dei
lavoratori perché anch’essa di rango costituzionale (art. 36 Cost.).
Del resto
sulla medesima scia si orientavano anche i giudici di merito. Una per tutti,
la sentenza del Tribunale di Roma del 5 giugno 1995 nella cui motivazione
si legge infatti: “…deve concludersi che, nel fallimento, gli interessi
maturati sui crediti privilegiati nel periodo antecedente all’apertura
della procedura concorsuale non godono della prelazione accordata al capitale,
così come devono essere collocati in sede chirografaria gli interessi
decorrenti sui medesimi crediti privilegiati nel periodo successivo alla
dichiarazione di fallimento ai sensi dell’art. 55, primo comma, legge fallimentare,
il quale, facendo “salvo quanto è disposto dal terzo comma dell’articolo
precedente”, richiama anch’esso mediatamente, per via della disposizione
fatta salva, le norme degli artt. 2788 e 2855 codice civile e non pure
quella dell’art. 2749 codice civile.”.
Sarebbe inutile
e tedioso, ormai, proseguire nell’inventario delle pronunce e delle tesi
giurisprudenziali che si sono stratificate negli anni sulla questione.
Giova invece
segnalare che la dottrina aveva da lungo tempo segnalato che la disparità
di trattamento tra esecuzioni individuali e concorsuali appariva del tutto
irragionevole e assai verosimilmente frutto di una dimenticanza del legislatore
fallimentare che aveva omesso, nel richiamare le norme sui privilegi, di
citare, affianco agli art. 2788 e 2855 cod. civ., anche l’art. 2749.
In tal senso
si sono espressi, tra i più citati, Provinciali , Ragusa Maggiore
, Bonazza , Del Vecchio , Ruisi - Censoni , Bruno Inzitari , Fabiani ,
Pajardi , Mazzocca .
Ora la Corte
Costituzionale, con una eccezionale virata, ha fatto evaporare decenni
di giurisprudenza e posto una diga formidabile ai fiumi d’inchiostro che
dilagavano sull’argomento. La motivazione del Giudice delle leggi, condensata
in poche righe, scolpisce: “… non esiste una qualsivoglia ragione giustificativa
della deroga in tal modo apportata alla disciplina civilistica e della
disparità di trattamento che si viene a determinare a danno dei
creditori privilegiati in sede di esecuzione concorsuale rispetto ai creditori
privilegiati ai quali, agendo in sede di esecuzione individuale, l’art.
2749 c.c. si applica. Ed in proposito, non è privo di significato
che in dottrina, prima del consolidarsi dell’orientamento giurisprudenziale
di cui si è detto, il mancato richiamo dell’art. 2749 c.c. fosse
a tal punto ritenuto inspiegabile da essere imputato ad una mera svista
del legislatore” mostrando così di aderire proprio a quelle tesi
che, in precedenza, erano state tassativamente escluse .
In effetti
la tesi della dimenticanza, del lapsus, del legislatore era la più
plausibile. Basti considerare le modalità con le quali il codice
civile venne a formarsi, unitamente al codice di procedura civile ed alle
leggi complementari, tra cui la legge fallimentare, in quella fervida stagione
normativa a cavallo tra la fine degli anni ’30 e gli inizi degli anni ’40.
In particolare,
tanto il codice civile, che la legge fallimentare vennero entrambi promulgati
il 16 marzo 1942: il codice civile con il Regio decreto n. 262 e la legge
fallimentare con il Regio decreto n. 267.
Ma il Regio
decreto che promulgò il codice civile non ebbe una formazione monolitica:
la ebbe, piuttosto, di tipo alluvionale e fu preceduto da una serie di
Regi decreti emessi tra il 12 dicembre 1938 (n. 1852) ed il 30 gennaio
1941 (n. 18) con il dichiarato scopo di : “…provvedere alla riunione ed
al coordinamento dei libri del Codice civile delle persone, delle successioni
per causa di morte e delle donazioni, della proprietà, delle obbligazioni,
del lavoro e della tutela dei diritti…”.
Tale compito
di coordinamento, peraltro, era aggravato dalla volontà del legislatore
di abbandonare la tradizionale ripartizione tra il codice civile da una
parte ed il codice di commercio dall'altra, volendosi, invece, integrare
la tipica lex mercatoria nel codice civile ed espungendone la disciplina
del fallimento da collocare in una lex specialis.
In tale opera
di resezione e cucitura, l’ipotesi di uno sfasamento è, come era,
perfettamente comprensibile e lo era certamente assai più che non
la ricerca di una sofisticatissima voluntas legis che, comunque ricercata
ed interpretata, finiva sempre col rendere veramente incomprensibile la
diversità di trattamento e di decorrenza degli interessi per i creditori
privilegiati a seconda della sede, individuale o concorsuale, nella quale
avessero cercato la loro tutela. Ed è veramente scioccante pensare
a quanta ingiustizia sia stata sparsa per decenni inseguendo quella che
veniva affermata come un “non irragionevole discrezionalità del
legislatore” che, invece, assai èpiù facilmente si spiegava
con una semplicissima lacuna di coordinamento in una verosimilmente caotica
stagione normativa.
Dopo l’intervento
della Corte Costituzionale in rassegna, viene da chiedersi se quello in
esame possa essere considerato come un caso isolato. Per il passato non
è stato così. Già altre volte abbiamo visto interventi
giurisprudenziali innovativi sconvolgere decenni di orientamenti consolidati.
Per ricordare un altro intervento della Corte costituzionale in materia
fallimentare, basterà citare il combinato delle sentenze 66/1999
e 310/2000, che hanno esteso ai soci illimitatamente responsabili, se cessati
dalla carica, ed alle società cancellate dal registro delle imprese,
il termine annuale per la dichiarazione di fallimento che gli artt. 10
e 11 L.F. sembravano prevedere solo per l’imprenditore individuale, ma
giova segnalare anche la Suprema Corte di Cassazione che, con la sentenza
n. 500/1999, ha aperto la strada alla risarcibilità degli interessi
legittimi lesi e che, con la sentenza n. 2374/1999, ha rilevato la nullità
della capitalizzazione trimestrale degli interessi passivi applicati ai
conti correnti bancari. A quest’ultimo proposito, poi, non possiamo non
ricordare lo scalpore che fece l’ardita sentenza della Sezione Fallimentare
del Tribunale di Roma (sent. 27.06.1987, Pres. Castaldi, Rel. Di Amato
in Temi Romana, 1988, parte II, pag. 101 con nota di M. Calò) con
la quale venivano dichiarati nulli i tassi ultralegali degli interessi
per la cui determinazione i contratti bancari richiamavano le Norme Uniformi
Bancarie le quali, invece, in concreto, si scoprì che non esistevano:
quella sentenza fu addirittura alla base della legge sulla trasparenza
bancaria n. 154/92 che impose a tutte le agenzie bancarie di esporre in
un apposito cartello i tassi applicati.
Si potrebbe
forse, a questo punto, dire esaurita la serie degli orientamenti consolidati
e pervicacemente, quanto immutabilmente, ribaditi per poi vederli, all’improvviso,
ribaltati, proprio come se qualcuno si accorgesse finalmente che il re
è nudo? Nemmeno per sogno. Un caso per tutti.
Da quando
è entrata in vigore l’IVA, la Suprema Corte di Cassazione è
ferma nell’affermare che il credito per rivalsa dell’IVA dei professionisti,
riconosciuti quali creditori dei loro clienti falliti, deve essere insinuata
al passivo fallimentare. Peraltro, poiché tale credito IVA è,
generalmente, privo di un bene materiale su cui far cadere il privilegio
ex art. 2758 c.c., di fatto viene ammesso in chirografo. L’errore di questa
impostazione consiste nel ritenere tale rivalsa come sorta con la prestazione
professionale, anziché essere collegata, ad substantiam, con la
relativa fattura che, poi, il curatore chiede di emettere a suo diretto
favore in occasione del riparto. Si finisce, così, col violare due
volte la legge. Una prima volta, si viola l’art. 2751 bis n. 2 c.c. perché
il corrispettivo del professionista, privilegiato ai sensi di questa norma,
rimane falcidiato esattamente dell’importo corrispondente all’IVA, in quanto,
come quasi sempre accade, una volta collocata in chirografo, non viene
pagata. Una seconda volta perché, in violazione del principio di
neutralità dell’IVA, il professionista paga l’imposta in conseguenza
dell’emissione della fattura in favore del fallimento, mentre il curatore
beneficia del relativo credito nella contabilità della procedura
concorsuale, magari cedendolo a terzi in occasione della chiusura o facendoselo
rimborsare dall’erario, senza aver corrisposto nulla per acquisirlo. Nonostante
un’accurata contestazione di tale modo di pronunciare della Corte Suprema,
che si rinviene, tra l’altro, nell’ordinanza dal Giudice Delegato di Roma
del 06.05.1999 (in questa Rivista, numero 8, aprile-giugno 1999, pag. 25
ed in Foro it. 2000, I, 1414 con nota ancora perplessa di M. Fabiani),
che ha correttamente riconosciuto come tale credito per rivalsa IVA debba
essere assolto in prededuzione dal fallimento che abbia chiesto ed ottenuto
la fattura dal professionista insinuato al passivo per il proprio corrispettivo,
i tempi per il necessario revirement non sembrano ancora maturi. Ecco individuata,
per citarne una tra le tante, un’occasione di cimento per magistrati coraggiosi.