MERITO
con nota di M. Cara
Trib. Roma – sentenza 2 febbraio 1999 – Pres. Briasco – Est. De Virgilis
– BANCO DI NAPOLI s.p.a. filiale di
Francoforte sul Meno (Avv. A. Pietrolucci e F. Mastracchio) c. Fall.
FINANZIARIA BOSCHETTI (Avv. M.
Pellicciari e A. Patroni Griffi )
SOCIETA’ DI CAPITALI – GRUPPO DI SOCIETA’ – ATTI PRIVI DI CORRISPETTIVO
TRA LE
COMPONENTI DEL GRUPPO – POLITICA IMPRENDITORIALE DI GRUPPO – PROVA
– NECESSITA’ –
SUSSISTE – INTERESSE – CONCRETEZZA ED ADEGUATEZZA – PROVA– NECESSITA’
– SUSSISTE –
ACCOLLO – RAPPORTO DI PROVVISTA – DIFETTO –NULLITA’ – SUSSISTE
In presenza di un negozio dispositivo (nella specie accollo novativo)
tra due società appartenenti al medesimo
gruppo, cioè facenti capo alla medesima controllata, in assenza
di corrispettivo, deve essere fornita la prova che
l’operazione sia stata posta in essere in adempimento di direttive
impartite dalla capogruppo ovvero risulti
preordinata al soddisfacimento di un ben preciso interesse economico,
anche mediato ed indiretto, ma concreto ed
adeguato, della società che ha assunto l’obbligazione. In difetto
di prova rigorosa dell’esistenza di una politica
imprenditoriale di gruppo e dell’interesse concreto ed adeguato all’assunzione
dell’obbligazione, deve ritenersi
nullo per mancanza del rapporto di provvista l’accollo del debito di
una società da parte di altra società del
medesimo gruppo e deve conseguentemente rigettarsi l’opposizione allo
stato passivo proposta dal creditore escluso
in sede di verificazione dei crediti.
(omissis)
Quel che conta rilevare, è che dalla decisione della S.C. (CASS..
11.3.96 n.2001, n.d.r.), cui questo Collegio non
ritiene in linea di principio di discostarsi, non è consentito
in alcun modo ritenere che sia sufficiente la mera
esistenza di un gruppo, per ravvisare "tout court" la giustificazione
(gratuita, ma non liberale) dell’atto di
disposizione della controllata.
Per giungere cioè ad affermare che la "logica di gruppo" o "l’interesse
del gruppo" (per usare altra dizione)
costituisca il fondamento della descritta attribuzione patrimoniale
compiuta dalla controllata, caratterizzata da una
causa diversa sia da quella di scambio sia da quella liberale, si rende
invece necessaria, secondo quanto
chiaramente ribadito dalla S.C., la attenta e rigorosa verifica della
ricorrenza delle circostanze di fatto attinenti al
funzionamento del gruppo (che nella stessa decisione con dovizia sono
illustrate e che si sono sopra richiamate).
Ed invero sotto tale profilo la decisione ricalca fedelmente il ragionamento
già condotto da precedente Cass..
n.3150 del 1976 (non a caso nella prima espressamente richiamata),
che individua nella ricorrenza di particolari
circostanze da accertarsi caso per caso il "discrimen" fa atti a causa
liberale e atti a titolo gratuito, ma non
"disinteressati", rifacendosi alla ben nota ed autorevole dottrina
che, a prescindere dalla donazione, ha evidenziato
l’esistenza di atti che senza avere carattere oneroso non possono neanche
definirsi gratuiti e per i quali è stata
coniata la definizione di "promesse interessate", in quanto anche dagli
stessi il promittente si aspetta di ottenere
una qualche "chance" o vantaggio o utilità.
Diversamente opinando, si finirebbe in sostanza con l’introdurre una
presunzione assoluta insuscettibile cioè di
prova contraria, in ordine alla causa di tali atti, sol perché
compiuti in base ad una logica di gruppo (che di per sé
costituisce solo una espressione vacua di contenuto): presunzione che,
allo stato del nostro ordinamento, non
appare ammissibile.
Viceversa, solo la prova rigorosa in ordine alla esistenza di una politica
imprenditoriale di gruppo, in grado di
realizzare sia pure indirettamente l’interesse economico della società
disponente, consente di fornire causa
giustificativa ad atti che ad un primo esame sembrerebbero privi di
alcuna contropartita: ed anzi in proposito la
dottrina più attenta ha segnalato che tale contropartita (in
termini di vantaggio patrimoniale) che la disponente deve
ricevere nell’ambito della "logica di gruppo" non può essere
inadeguata o peggio irrisoria, in relazione al
pregiudizio subito con l’atto di disposizione.
Orbene, nessuna prova è stata fornita dalla Banca in relazione
alle sopra richiamate circostanze nessun dato è stato
allegato in ordine al fatto che l’assunzione del pesante onere da parte
della Boschetti, senza alcuna immediata
contropartita, fosse giustificato, in una visione più ampia
e globale, dai vantaggi derivanti da altri rapporti
"infragruppo".
Da quanto è dato evincere dagli atti, invero, il negozio dispositivo
fu compiuto dalla Boschetti all’esito della libera
accettazione di una normale proposta contrattuale, ed in assenza di
un qualsiasi piano o previsione da parte della
controllante IFI, volta al coordinamento ed alla razionalizzazione
dell’attività imprenditoriale del gruppo, dal quale
fosse ragionevole attendersi un adeguato vantaggio compensativo per
la controllata.
In conclusione, al momento dello scambio delle lettere mediante il quale
il contratto di accollo è stato concluso e
persino al momento del successivo Novation Agreement, tra accollante
ed accollato non esisteva alcun rapporto di
provvista, né oneroso né gratuito (nel senso sopra indicato)
né tantomeno liberale (ipotesi nella quale sussisterebbe
comunque la nullità per difetto della forma solenne richiesta
per la donazione, rilevabile d’ufficio).
Non può che conseguirne la declaratoria di nullità dell’accollo
per mancanza del rapporto di provvista:
diversamente si finirebbe con l’ammettere la possibilità dell’accollo
"allo scoperto" ipotesi che l’ordinamento
prevede soltanto per la delegazione, in forza della diversa struttura
di questa, e con l’estenderne indebitamente
all’accollo il principio della "nullità della doppia causa"
che per le stesse ragioni è applicabile solo alla delegazione
medesima.
La relativa censura dell’opponente non può dunque trovare accoglimento.
Si rende superfluo l’esame delle altre successive doglianze, in quanto
assorbite.
Per le suesposte considerazioni l’opposizione del Banco di Napoli deve
essere respinta.
(omissis)
Nota D*I * M*A*R*I*O * C*A*R*A
La sentenza si segnala per le questioni esaminate e decise e, in particolare,
per l’applicazione dei principi elaborati
dalla giurisprudenza in tema di gruppi di società e di atti
c.d. "infragruppo".
Il Tribunale respinge l’opposizione ex art. 98 L.F. avverso l’escussione
della domanda di ammissione allo stato
passivo proposta dal creditore in forza di un atto con il quale la
società fallita si accollava il debito di altra società
del medesimo gruppo, debitore originario contestualmente liberato,
per la nullità dell’accollo, ritenuto privo di
causa, in difetto di prova dell’inerenza dell’atto alla "logica di
gruppo" e del concreto ed adeguato interesse all’atto
da parte della società fallita.
Il gruppo di società rappresenta un esempio di come le concrete
esigenze delle attività economiche e finanziarie
vengono talvolta risolte con soluzioni che non trovano compiuta e sistematica
disciplina nel diritto positivo. E’ la
giurisprudenza, allora, che individua, nelle singole fattispecie sottoposte
al suo esame, gli elementi a cui dare rilievo
giuridico per regolare, secondo le norme di diritto vigenti, situazioni
che traggono origine da un assetto di interessi
complesso e non codificato.
Così, mentre si è affermato che una holding può
partecipare alle procedure di aggiudicazione di appalti di opere
pubbliche se le consociate dispongano dei mezzi necessari e la capogruppo
provi di poter disporre dei mezzi
produttivi, finanziari ed economici delle stesse (Corte di Giustizia
C.E., 14 aprile 1994 n. 389), si è escluso che sia
soggetto passivo IVA una holding il cui unico scopo è l’acquisizione
di partecipazioni in altre imprese senza
partecipazione diretta od indiretta alla gestione (Corte di Giustizia
C.E., 20 giugno 1990 n. 60/90).
A capo di un gruppo di società può esservi una holding
societaria o individuale. Ambedue queste figure possono
qualificarsi imprenditori commerciali se, con apposita organizzazione
e continuità professionale, esercitano
un’attività di direzione, coordinamento e programmazione delle
società commerciali controllate, idonea ad
incrementare, sul piano economico, i profitti (in tal caso l’impresa
è comune a più imprenditori, ossia le società che
esercitano direttamente e la holding pura operativa che la esercita
indirettamente); o anche, in alternativa, se
esercitano una funzione soltanto ausiliaria, di finanziamento o di
tesoreria o di procacciamento d’affari o di servizi
resi alle società commerciali controllate, purché tale
attività sia svolta in nome proprio ed economicamente
remunerata (per un’applicazione del principio v. Trib. Cuneo 14.2.2000
in Giur. It. 2000 p.773). Se la funzione
imprenditoriale di capogruppo, quale holding pura operativa o quale
ausiliaria, è svolta congiuntamente da due o più
individui, fra loro può sorgere una società di fatto
(Cass. 5.2.90 n.1439 in Giur.It. I,1,713, n. R. WEIGMANN).
Tuttavia, l’accertamento dello stato d’insolvenza di una società
va effettuato con esclusivo riferimento alla sua
propria situazione economica, perché, nonostante il collegamento
o controllo, ciascuna società conserva distinta
personalità giuridica ed autonoma qualità di imprenditore,
rispondendo con il proprio patrimonio soltanto dei propri
debiti (Cass.. 27.6.90 n. 6548; Cass.. 2.7.90 n. 6769; Cass.. 25.9.90
n. 9704; Cass.. 9.5.92 n. 5525; Cass.) 26.6.92 n.
8012; Cass.. 16.7.92 n. 8656; Cass.. 7.7.92 n. 8271 in Giur .It. 1993
I,1,798; per la possibilità di riunire più
procedimenti di ammissione all’amministrazione controllata, pur mantenendo
separate le procedure, si veda
Tribunale di Roma 25.6.93 in Giur. Comm. 1994, II, 100). Tale patrimonio
costituisce garanzia generica dei creditori
e non assume rilievo il fatto che il socio dominante, svolgendo attività
di holding, accentri nelle sue mani i servizi
finanziari e di tesoreria per tutte le società controllate e
convogli la liquidità secondo i rispettivi bisogni, ma senza
aver assunto alcun obbligo di provvista nei loro confronti.
Le peculiari regole dettate per l’amministrazione straordinaria delle
grandi imprese in crisi (d.l. 30.1.79 n. 26 conv.
l. 3.4.79 e succ. integrazioni e modificazioni ed ora D.Lgs. 8.7.99
n.270) non sono applicabili al di fuori delle ipotesi
contemplate.
L’appartenenza al gruppo può essere giuridicamente rilevante
ai fini della valutazione degli atti delle società del
gruppo, con la controllante, con altra consociata o con terzi.
Così, nel caso di azione revocatoria di pagamenti effettuati
dalla controllata alla controllante, si è ritenuto
(Tribunale Roma 10.6.1982 in Dir. Comm. 1983, II, 433) che si debba
presumere che la controllante, socio di
maggioranza, conosca lo stato di insolvenza della controllata, perché,
usando la media diligenza, non ne può
ignorare l’andamento finanziario.
Al contrario, nell’ipotesi di revocatoria fallimentare di pagamenti
effettuati tra società controllate dalla medesima
capogruppo, la conoscenza dello stato di insolvenza non può
desumersi dall’appartenenza al medesimo gruppo,
dovendosi ritenere che i fatti inerenti alla vita finanziaria di una
controllata siano sconosciuti alle altre controllate
(Trib. Roma, cit).
Nel caso di accipiens estraneo al gruppo (si trattava di società
poste in amministrazione straordinaria perché
collegate ad una società madre, holding), si è ritenuto
che la prova della scientia decoctionis possa presumersi, se
ricorrono le condizioni volute dall’art. 2729 cod. civ., anche dalla
prova della conoscenza dello stato di insolvenza
delle diverse società del gruppo (giudizialmente accertato)
e del collegamento tra le stesse esistente, perché la
personalità giuridica e l’autonomia patrimoniale delle singole
società, di per sé, non escludono che il terzo
conoscesse lo stato di insolvenza delle società del gruppo,
o di una loro consistente parte, e fosse consapevole dello
stato di decozione della società (CASS.: 27.5.1995 n. 5900,
Nuova Giur. Civ. 1996, I, 690, n. PEPE; Riv. Dir Comm.,
1996, II, 107, n. MECHELLI).
D’altro canto si è affermato (Tribunale di Milano 30.9.91 in
Impresa, 1992, 2017, n. GIRARDI) che, in difetto di
contropartite o di corrispettivo, il rilascio di fideiussioni a favore
di istituti bancari da parte di una controllata
nell’interesse di altre società controllate facenti capo alla
medesima controllante, nell’eventualità di fallimento delle
prime, imputabile all’onere assunto in favore delle seconde, costituisce
atto di bancarotta fraudolenta per
distrazione.
Sempre in tema di trasferimento a titolo gratuito di risorse (si trattava
di cessione di crediti) da una società ad altra
società appartenente al medesimo gruppo, si è escluso
che l’atto che lo disponga sia una donazione ai sensi dell’art.
769 cod. civ. e debba rivestire i necessari requisiti di forma qualora
l’operazione sia stata posta in essere in
adempimento di direttive impartite dalla capogruppo, ovvero risulti
preordinata al soddisfacimento di un ben preciso
interesse economico, anche mediato ed indiretto, della società
cedente (Cass. 11.3.96 n. 2001 in Foro It. I, 1, 1222
n. G. LA ROCCA).
La sentenza, espressamente richiamata da quella in commento, ribadisce
che l’assenza di corrispettivo, se è
sufficiente a caratterizzare i negozi a titolo gratuito (così
distinguendoli da quelli a titolo oneroso), non basta invece
ad individuare i caratteri della donazione, per la cui sussistenza
sono necessari, oltre all’incremento del patrimonio
altrui, la concorrenza di un elemento soggettivo (lo spirito di liberalità)
consistente nella consapevolezza di attribuire
ad altri un vantaggio patrimoniale senza esservi in alcun modo costretti,
e di un elemento di carattere obiettivo, dato
dal depauperamento di chi ha disposto del diritto o ha assunto l’obbligazione.
Non costituisce donazione e non
necessita delle forme richieste dall’art. 782 cod. civ. l’operazione
posta in essere dalla controllata in adempimento
di direttive impartite dalla capogruppo o comunque di obblighi assunti
nell’ambito di una più vasta aggregazione
imprenditoriale, mancando la libera scelta del donante. L’effettivo
depauperamento va valutato considerando la
situazione complessiva che fa capo alla società nell’ambito
del gruppo, perché l’eventuale pregiudizio economico
potrebbe trovare la sua contropartita in un altro rapporto, ovvero
perché potrebbe essere preordinato al
soddisfacimento di un ben preciso interesse economico, sia pur mediato
e indiretto (in senso conforme Cass.
5.12.1998 n. 12325).
La Suprema Corte ha poi applicato il principio in tema di revocatoria
fallimentare ex art. 64 L.F. (Cass. 29.9.97 n.
9532, Fallimento, 1998, 1041, n. TARZIA) ritenendo che gli interventi
gratuiti compiuti da una società a favore di
altra società collegata, debbono presumersi preordinati al soddisfacimento
di un proprio interesse economico, sia
pure mediato e indiretto, ma giuridicamente rilevante, qualora ricorrano
particolari circostanze che rivelino
unitarietà di finalità e di amministrazione.
La sentenza del Tribunale di Roma in commento applica i principi prima
enunciati per respingere l’opposizione ex
art. 98 L.F. proposta dal creditore avverso l’esclusione della domanda
di ammissione al passivo per il credito
derivante dall’accollo, da parte della fallita, del debito di altra
società del gruppo (liberata).
Dalle risultanze processuali, il Tribunale trae il convincimento che
lo scambio di corrispondenza intercorso tra le
due società del gruppo risponda allo schema tipico della proposta
seguita dall’accettazione, con conseguente
stipulazione dell’accollo. Il negozio veniva poi riprodotto in altro
documento sottoscritto anche dal creditore per
rendere la stipulazione irrevocabile a suo favore e liberare il debitore
originario.
Affermata la natura novativa dell’accollo, il Tribunale rileva che,
nel caso sottoposto al suo esame, non è stata
fornita alcuna prova sia dell’interesse della fallita alla conclusione
del contratto (interesse che il Tribunale afferma
dover essere concreto ed adeguato all’obbligazione assunta) sia dell’inerenza
dell’atto alla "logica di gruppo", con
conseguente nullità per difetto di causa dell’accollo posto
in essere tra la società fallita ed altra società
appartenente al medesimo gruppo e reso irrevocabile a proprio favore
dal creditore con liberazione del debitore
originario.
In ciò risiede la novità della sentenza, nell’affermare
che l’interesse della società fallita alla stipulazione deve
essere concreto ed adeguato all’obbligazione assunta, pur dovendo essere
valutato in una "logica di gruppo", che
deve risultare dagli elementi sottoposti all’esame del giudicante.
La corretta lettura della sentenza non può prescindere dal considerare
che l’assenza di causa deve essere intesa
quale mancanza di interesse economico (concreto ed adeguato) dell’accollante
alla stipulazione e non come semplice
inesistenza di un diverso ed autonomo rapporto che giustifichi l’atto.
L’accollo di un debito, infatti, costituisce un negozio giuridico tra
il terzo ed il debitore originario al quale può
aderire il creditore, che non è parte dello stesso, rendendo
la stipulazione irrevocabile a suo favore. L’accollo è
negozio giuridico avente una finalità sua propria ed una causa
a sé stante ben diversa e distinta da altro rapporto
che può averne costituito il motivo (Cass. 8.4.52 n. 959; Cass..
27.1.92 n. 861). Nei rapporti tra creditore originario
ed accollante resta assolutamente irrilevante accertare a quale titolo
questo ultimo abbia assunto gli obblighi verso
il primo (Cass. 20.2.1979 n. 1093), ma l’eventuale nullità dell’accollo
travolge la stipulazione, da ritenersi tamquam
non esset.
Trattandosi di opposizione allo stato passivo, cioè di domanda
di esecuzione, il giudice ha il potere di rilevare
d’ufficio la nullità del contratto in base all’art. 1421 cod.
civ..
La giurisprudenza, infatti, coordina tale disposizione con gli artt.
99 e 112 cpc per affermare costantemente che il
giudice può rilevare l’eventuale nullità dell’atto in
qualsiasi stato e grado del giudizio, indipendentemente
dall’attività assertiva delle parti, soltanto se sia in contestazione
l’applicazione o l’esecuzione di un atto la cui
validità rappresenti un elemento costitutivo della domanda;
ove invece la contestazione attenga direttamente alla
legittimità dell’atto, non è consentito successivamente
dedurre o rilevare ex officio una nullità basata su ragioni
diverse da quelle ab origine proposte dalla parte nell’esercizio del
suo diritto di azione o di eccezione (Cass. 15.2.91
n. 1589; Cass. 9.1.93 n. 141; Cass.7.4.95 n. 4064; Cass. 10.10.97 n.
9877; Cass. 14.3.98 n. 2772).
Il rilievo non è di poco conto considerando che, in sede di verificazione
dei crediti per la formazione dello stato
passivo, tanto il giudice delegato quanto il curatore possono non essere
sufficientemente edotti di tutta l’attività
pregressa del fallito, sia di quella reale sia di quella apparente.
In sede di opposizione allo stato passivo avverso l’esclusione del credito,
ove emerga l’esistenza di apparenti
rapporti tra la società fallita ed altra società appartenente
al medesimo gruppo che, in ipotesi, potrebbero
giustificare l’atto (quali, ad es. scritturazioni contabili che registrino
l’esistenza di eventuali obbligazioni della
seconda verso la fallita), non è precluso al giudice dell’opposizione
rilevare ex officio (incidenter tantum) sia
l’inesistenza o la nullità del negozio (es. per simulazione
assoluta, v. Cass. 14.1.85 n. 32) dedotto come apparente
motivo volto a dimostrare l’interesse alla stipulazione (causa) del
contratto su cui si fonda il credito vantato, sia la
nullità di questo ultimo (in difetto di altri elementi che consentano
di rilevare l’interesse – concreto ed adeguato -
della società all’assunzione della relativa obbligazione), al
fine di respingere la domanda di ammissione al passivo
del fallimento del credito che si pretende di fondare sul contratto
nullo.
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