DOTTRINA
Fallimento e diritti
di proprietà intellettuale
di Marco Saverio Spolidoro
1. Al momento della dichiarazione di fallimento, nel patrimonio
del fallito si possono trovare diritti di proprietà intellettuale
di cui il fallito è titolare e diritti di utilizzazione di beni
immateriali di terzi.
Nel contesto di questo studio, per diritti di proprietà
intellettuale e per beni immateriali intendo indicare, a soli fini descrittivi
e senza alcuna implicazione dogmatica, anzitutto i diritti patrimoniali
nascenti dai brevetti d’invenzione e dai brevetti per modello o disegno
industriale, i segreti industriali, il know how; in secondo luogo
i marchi registrati e gli altri segni distintivi non registrati, tipici
ed atipici; infine i diritti patrimoniali d’autore ed i diritti connessi
al diritto d’autore.
Escludo invece dalla mia trattazione i diritti di paternità
sulle invenzioni e sui modelli o disegni ed i cosiddetti diritti morali
di autore, che non possono essere oggetto di atti di disposizione traslativa.
In sede di fallimento, questi diritti rimangono ovviamente in capo o al
fallito oppure al terzo da cui il fallito abbia ricevuto il titolo in base
al quale è divenuto proprietario o legittimo utilizzatore del bene
immateriale cui il diritto morale si riferisce.
Come sopra si accennava, questi beni o diritti possono
appartenere alla titolarità dell’imprenditore fallito oppure possono
essere utilizzati dall’imprenditore fallito in base ad un titolo derivativo,
costituito a favore dell’imprenditore in capo al titolare del bene immateriale
o della proprietà intellettuale di cui si tratta. Mentre nel primo
caso si dovranno applicare le norme della legge fallimentare relative agli
effetti del fallimento sul patrimonio del fallito, nel secondo caso in
linea di principio verrà in considerazione la disciplina dei rapporti
giuridici pendenti al momento del fallimento. Questa stessa disciplina
assume rilievo anche nelle fattispecie nelle quali il fallito rivesta il
ruolo di concedente nell’ambito di una licenza di uso dei beni immateriali
di cui egli sia titolare o utilizzatore in base ad un titolo che consenta
la concessione di sublicenze.
2. Analizzando più in dettaglio l’ipotesi in cui
i beni appartengano al fallito, occorre anzitutto precisare che anche per
essi vale, in linea di principio, la regola dello spossessamento per effetto
della dichiarazione di fallimento. La discussione della dottrina sulla
natura dei diritti di proprietà intellettuale, o più esattamente
sulla possibilità di una loro classificazione fra i diritti della
personalità, non significa infatti che essi, come categoria, rientrino
fra i diritti strettamente personali, di cui si occupa l’art. 46 L.F. (FORMIGGINI,
1109; GHIDINI, 48; RIVOLTA, 930). A questa regola fanno eccezione i diritti
di pubblicazione e di utilizzazione delle opere dell’ingegno fino a quando
spettano personalmente all’autore (nel caso all’imprenditore fallito),
che non possono essere oggetto di pegno, pignoramento e sequestro, né
per atto contrattuale, né per via di esecuzione forzata, ai sensi
dell’art. 111 L. 22 aprile 1941 n.633. Pertanto restano escluse dall’attivo
fallimentare le lettere d’amore dell’imprenditore fallito alla bella attrice
che l’ha condotto alla malora, per quanto si possa presumere che dalla
loro pubblicazione possa trarsi un certo ricavo a favore dei creditori.
Va precisato che questa disciplina non si applica alle opere inedite di
cui il fallito abbia acquisito il diritto di pubblicazione da terzi, anche
per via di successione universale. Inoltre è discusso se l’art.
111 L. 22/4/1941 n. 633 (L. diritto d’autore) venga in considerazione
per quelle opere, come i quadri e le sculture, che "raggiungono con la
loro esecuzione la natura di beni, utilizzabili senza altre elaborazioni,
anche se non siano usciti dalla sfera personale dell’autore" (FORMIGGINI,
1112).
Che i diritti di proprietà intellettuale di regola
facciano parte dell’attivo fallimentare è comunque ormai un’acquisizione
scientificamente pacifica. Essa è stata dimostrata persuasivamente
anche con specifico riferimento al caso forse più discutibile, che
è quello della ditta coincidente con il nome dell’imprenditore fallito
(RIVOLTA, 931). Sul punto si può notare che, indipendentemente dall’ambito
di applicazione e dall’interpretazione della norma che subordina il trasferimento
della ditta per atto tra vivi al consenso dell’avente diritto (art. 2565
c.c.), non ci può essere alcun dubbio sul fatto che il problema
non può neppure essere posto per le imprese societarie, per le quali
non si può rettamente parlare di beni strettamente personali. Anche
laddove vi sia la presenza di soci illimitatamente responsabili per le
obbligazioni sociali (e quindi di persone fisiche fallite per estensione
del fallimento della società) il cui nome sia compreso nella ragione
sociale, vale la regola secondo cui si presume che il consenso all’inserimento
del proprio nome nella ragione sociale è prestato a titolo definitivo
e non può essere revocato; se poi è espressamente convenuto
che il consenso possa essere revocato dall’avente diritto al nome, questa
convenzione potrà essere opponibile al fallimento senza che ciò
logicamente implichi che il diritto alla ditta resti in capo al socio di
cui si tratta come bene personale o, peggio, che il diritto stesso cada
nell’attivo del fallimento personale del socio e non in quello del fallimento
della società.
Trattandosi di impresa individuale, sembra possibile sostenere
che, anche in tal caso, la ditta dell’imprenditore individuale fallito
non costituisca bene personale del medesimo. Se lo fosse, il fallito dovrebbe
poterne realizzare il valore di scambio cedendola a terzi: il che è
peraltro reso impossibile dal fatto che, per il trasferimento della ditta,
vale tuttora il requisito del contestuale trasferimento dell’azienda. Pertanto
il fallito – non potendo disporre dell’azienda – non potrebbe validamente
attribuire diritti sulla medesima a terzi. Si potrà invece discutere,
e tornerò sul punto a suo tempo, se gli organi della procedura possano
trasferire la ditta nell’ambito della liquidazione dell’attivo senza il
consenso del fallito, il cui nome personale sia stato usato come ditta
o nella ditta. Ma anche ammettendo che tale consenso sia necessario per
tutelare un diritto della personalità del fallito, che in ipotesi
sarebbe preminente rispetto alle finalità di recupero di valori
economici a favore dei creditori dell’impresa, non v’è dubbio che
il ricavato della cessione della ditta effettuata dal fallimento con il
consenso del fallito sarebbe destinato al riparto, e non al fallito: fatto
decisivo per concludere che si tratta appunto di un bene dell’attivo fallimentare
e non di un bene personale.
A parte il caso del consenso del fallito alla cessione
della ditta che comprenda il suo nome personale, sul quale come detto prenderò
posizione più avanti, vi possono comunque essere delle interferenze
dei diritti strettamente personali del fallito sulle possibilità
di sfruttamento economico del bene caduto a far parte dell’attivo del fallimento:
si pensi al diritto di inedito sulle opere dell’ingegno, al diritto all’integrità
dell’opera, al diritto al ritiro dell’opera dal commercio per gravi ragioni
di ordine morale. Analogamente, lo sfruttamento economico del bene immateriale
rientrante nell’attivo fallimentare può risultare impedito anche
quando il fallito ne abbia acquistato la titolarità da terzi che,
in ipotesi, siano legittimati a fare valere propri diritti della personalità
incompatibili con l’utilizzazione del bene stesso (LIMARDO, 536).
3. Pare che nella prospettiva del curatore fallimentare
i diritti di proprietà intellettuale di cui il fallito sia titolare
sono anzitutto elementi dell'attivo fallimentare, il cui valore – se esistente
- deve essere diligentemente conservato e, in un secondo momento, realizzato
nella liquidazione dell’attivo stesso (LIMARDO, 536).
A questo riguardo, è necessario riconoscere che,
in fatto, il fallimento comporta per i beni immateriali e per la proprietà
intellettuale del fallito dei rischi particolari (GHIDINI, 51), cui il
curatore e gli organi della procedura devono saper e poter reagire – se
ve ne sia il modo – con efficacia e misure adeguate. Perciò è
bene comprendere quali rischi sono connessi tipicamente alle singole categorie
di beni (marchi, brevetti ecc.), per poi essere in grado di valutare la
situazione concreta che ciascun fallimento presenta in ordine ai temi così
individuati.
4. Iniziando con i brevetti per invenzione e per modello
o disegno, il fallimento del titolare non comporta di per sé un
effetto negativo sull’esistenza o sulla portata economica del diritto.
Certo, i brevetti hanno una durata determinata nel tempo. Di conseguenza,
l’interruzione dello sfruttamento diretto da parte del titolare, che necessariamente
segue alla dichiarazione di fallimento (salvo che sia stato autorizzato
l’esercizio provvisorio dell’impresa), consuma la durata dell’esclusiva
e riduce giorno per giorno il residuo valore d’uso e di scambio – sempre
che un simile valore di fatto esista – attribuibile alla privativa. In
linea di massima dovranno essere prese in considerazione con tempestività
le iniziative volte a realizzare il valore di scambio del diritto, iniziative
che comprendono la concessione di licenze e non solo l’alienazione a terzi
del titolo (cfr. RIVOLTA, 938). Per la vendita dei brevetti si potrà
applicare il 2° comma dell’art. 104 L.F.; più difficile è,
invece, sostenere che si possa ricorrere all’art. 84 ult. co. della stessa
legge, relativo alla vendita delle cose deteriorabili. E’ vero, e l’ho
appena detto, che il valore dei brevetti decresce giorno per giorno, ma
il concetto di cosa deteriorabile cui fa riferimento la disposizione dell’art.
84 L.F. non va inteso nel senso, che sarebbe troppo lato, secondo cui sarebbero
soggette a deterioramento le cose che perdono anche marginalmente di utilità
e di valore economico con il decorrere del tempo. La natura cautelare della
vendita di cui parla l’art. 84 L.F. è resa, infatti, manifesta dalla
stessa formulazione letterale e dalla sistematica della disposizione in
esame, nella quale si fa cenno alla vendita subito dopo aver previsto che
il Giudice Delegato possa "emettere i provvedimenti provvisori e conservativi
che ritiene necessari".
Ne deriva che il presupposto dell’applicazione dell’art.
84 deve essere apprezzato con riferimento ad una perdita importante del
valore del bene, una perdita che insomma costituisca un grave pregiudizio
per gli interessi da tutelare nella procedura, e sia causalmente riconducibile
al tempo necessario per giungere alla vendita del bene in conformità
alle disposizioni dell’art. 104 della legge. In particolare occorrerà
tenere conto delle disposizioni del secondo comma della norma, che consentono
di accelerare le operazioni e di procedere anche prima della dichiarazione
di esecutività dello stato passivo ai sensi dell’art. 97 L.F..
5. La mancata utilizzazione del brevetto di invenzione
per effetto del fallimento del titolare (e/o del licenziatario) non dà
più luogo, di per sé, ad una causa di decadenza del diritto
di privativa, ma costituisce il presupposto del diritto dei terzi ad ottenere
una licenza obbligatoria dal titolare del diritto di brevetto.
In realtà, l’art. 54 bis R.D. 29 giugno
1939 n.1127 (art. aggiunto dall’art.2 D.P.R. 26.2.68, n.849) dice che,
in caso di mancata (o insufficiente) attuazione dell’invenzione dovuta
a cause indipendenti dalla volontà del titolare o del licenziatario,
non si fa luogo alla licenza obbligatoria. Resta però fermo che
la mancanza di mezzi finanziari non vale a scusa della mancata o insufficiente
attuazione.
L’interpretazione delle norme in materia di decadenza
dei marchi registrati formulate in modo corrispondente ha dato luogo ad
un certo interesse dottrinale e giurisprudenziale: si discute, in materia
di marchi, se il fallimento sia una causa di mancato sfruttamento del segno
dipendente o non dipendente dalla volontà del titolare (e ci si
è spinti a prospettare esiti interpretativi diversi a seconda che
il fallito abbia chiesto il fallimento in proprio oppure no: per es. LIMARDO,
537). Ci si è inoltre sforzati di affermare che, in caso di fallimento,
la mancata utilizzazione del marchio non dipenderebbe necessariamente dalla
carenza di mezzi finanziari.
Queste discussioni, sulle quali si tornerà a tempo
debito, non sono invece neppure accennate rispetto al caso della licenza
obbligatoria, sia per la relativa scarsa importanza pratica dell’istituto,
sia perché, solitamente, i curatori ed i Giudici Delegati, cui venga
rivolta la richiesta prevista dal 3° comma dell’art. 54 R.D. 29 giugno
1939 n.1127, avranno maggiore interesse a trovare un accordo con il richiedente
della licenza evitando il contenzioso sui presupposti della licenza. Molto
spesso, poi, si tenterà di massimizzare l’incasso immediato attraverso
una cessione del diritto al richiedente.
La decadenza del brevetto si ha comunque se, entro due
anni dalla concessione della licenza obbligatoria, l’invenzione risulti
ancora inattuata o insufficientemente attuata: in questo caso la decadenza
è legata ad un fatto obiettivo, per il quale non vale la scusante
del fatto indipendente dalla volontà del titolare del diritto non
sfruttato (GHIDINI, 52; LIMARDO, 539, sulle orme di GHIDINI).
Per effetto del rinvio contenuto nell’art. 13 R.D. 25
agosto 1940 n.1411, le regole sulla licenza obbligatoria che si sono appena
viste per i brevetti d’invenzione sono estese ai modelli di utilità.
Esse non valgono invece per i modelli e disegni ornamentali, per i quali
non esiste un onere di attuazione.
6. Fin qui per i brevetti già concessi. Ma cosa
si deve dire delle privative in corso di domanda e per le invenzioni, i
modelli e i disegni per cui non sia ancora iniziato il procedimento di
brevettazione?
In generale si può osservare che spetta al curatore,
con la direzione del Giudice Delegato, la decisione sulla convenienza di
una eventuale prosecuzione della procedura di brevettazione iniziata dal
fallito: prosecuzione che, pur essendo di per sè di ordinaria amministrazione
(dunque rientrante nell’ambito d’iniziativa del curatore) può comportare
costi talora non trascurabili, specie con riferimento alla possibile richiesta
di estensione del titolo della privativa in altri Stati, alla eventuale
necessità di reagire a rifiuti di brevettazione o alle opposizioni
eventualmente promosse da concorrenti o da terzi;: nel qual caso sembra
inevitabile l’autorizzazione del Giudice DElegato.
Lo stesso tipo di considerazioni vale anche per la decisione
se brevettare o non brevettare un’invenzione che si trovi nel patrimonio
del fallito e rispetto alla quale il fallito non abbia ancora depositato
la domanda di brevetto. Il diritto al brevetto, qualunque sia la consistenza
teorica di questa discussa figura, è infatti senz’altro un diritto
di natura patrimoniale. E’ vero che l’inventore potrebbe avere un interesse
personale o filantropico a non brevettare: ma questo interesse non trova
espressione in un diritto soggettivo "morale" alla "non-brevettazione".
Dunque non ci può essere discussione sul fatto che gli organi della
procedura possono richiedere il brevetto per le invenzioni o i disegni
o i modelli che il fallito avrebbe potuto legittimamente depositare (FORMIGGINI,
1113; LIMARDO, 541).
Taluno ammette peraltro che il fallito conservi il potere
di richiedere autonomamente la concessione della privativa, anche dopo
l’intervenuto suo fallimento: e ciò a tutela dei suoi interessi
morali (sul punto v. i riferimenti in FORMIGGINI, 1113). Anche ammesso
che ciò corrisponda al sistema della legge, è comunque certo
che i diritti nascenti da una simile brevettazione sorgerebbero in capo
al fallito, ma cadrebbero – per gli aspetti economici – nella disponibilità
della procedura.
Rispetto a questo tema va ancora ricordato che, in via
di fatto, il fallimento aumenta il rischio di comportamenti sleali dei
dipendenti dell’impresa fallita rispetto alle invenzioni di servizio (art.23,
1° comma, R.D. 29 giugno 1939 n.1127 e di azienda (art. 23, 2°
comma), che appartengono al datore di lavoro, salvo l’obbligo – nel secondo
caso – di riconoscere al dipendente un equo premio per la sua invenzione.
Sarà dunque opportuno richiamare l’attenzione dei curatori sulla
presunzione dettata dall’art. 26 R.D. 29 giugno 1939 n.1127, in forza della
quale si considera fatta durante il rapporto l’invenzione di cui l’ex dipendente
richieda il brevetto entro un anno dalla cessazione del lavoro.
Secondo l’opinione della Cassazione, peraltro non seguita
da larga parte della dottrina e da alcune pronunce di merito, il diritto
all’equo premio di cui parla il 2° comma dell’art. 23 R.D. 29 giugno
1939 n.1127 sorge solo con il verificarsi della condicio juris della
concessione del brevetto: qualora il curatore del fallimento decida di
esercitare il diritto del fallito alla brevettazione di un’invenzione d’azienda,
il credito del dipendente sorgerebbe nei confronti della massa e sarebbe
soggetto al concorso. Diversamente, se la brevettazione viene vista come
una semplice condizione di esegibilità del diritto all’equo premio
(tesi a mio avviso preferibile) o se il diritto al premio viene ritenuto
del tutto autonomo, quanto alla fase genetica, rispetto all’effettivo conseguimento
della privativa, il correlativo credito del dipendente avrebbe natura concorsuale.
Per le invenzioni rientranti nel campo di applicazione
dell’art. 24 R.D. 29 giugno 1939 n.1127, e cioè in sostanza per
le invenzioni rispetto alle quali il datore di lavoro ha solo un diritto
di prelazione (rectius di opzione d’acquisto), resta ancora valida
l’analisi svolta da una dottrina di più di quarant’anni or sono
(FORMIGGINI, 1119 e ss.): il diritto di opzione può essere esercitato
dalla massa, salvo il diritto del dipendente di ottenere il prezzo dell’invenzione.
Questo prezzo dovrà essere pagato "in moneta piena", anche qualora
l’opzione sia stata esercitata prima del fallimento: lo si deduce dal fatto
che, in mancanza del pagamento integrale, il dipendente potrebbe far valere
i diritti concessigli dall’ultimo capoverso della norma dell’art. 24 R.D.
29 giugno 1939 n.1127, così paralizzando gli effetti dell’esercizio
dell’opzione a tutto danno della stessa massa fallimentare.
Ricordo che, salvo patto contrario, le disposizioni degli
artt. 23, 24 e 25 R.D. 29 giugno 1939 n.1127 (non quelle dell’art. 26)
si applicano ai modelli di utilità (art. 3 R.D. 25 agosto 1940 n.
1411), mentre l’art. 7, 2° comma, R.D. 25 agosto 1940 n. 1411 prevede
che, sempre salvo patto contrario, tutti i disegni e modelli ornamentali
che siano opera di dipendenti spettino al datore di lavoro, in quanto tale
opera rientri nelle mansioni del dipendente. In questo caso non è
dovuto l’equo premio.
7. Riguardo ai segreti industriali ed al know how,
in
passato si è sostenuto che l’amministrazione fallimentare dovrebbe
distinguere il know how accessorio ad invenzioni già brevettate
dal segreto vero e proprio, cui sarebbe assimilabile il know how
autonomo rispetto ad una tecnologia brevettata o brevettabile (LIMARDO,
539 e ss.). Secondo questa tesi nel primo caso "l’avvenuta o possibile
cessione ad altro imprenditore dell’essenza fondamentale [della tecnologia
brevettata: mia nota], in regime di piena liceità, consente
la convenzione relativa ai segreti accessori", con la conseguenza che "la
realizzazione di un controvalore da siffatto trasferimento (inglobato o
meno nella cessione dell’azienda) possa, anzi debba, essere diligentemente
perseguita" (LIMARDO, 541). Invece, nell’ipotesi dei veri e propri segreti
industriali autonomi, secondo questa dottrina si avrebbero maggiori complicazioni,
perché "lo sfruttamento in segreto di una invenzione non brevettata
non è certamente né legittimato, né conforme alla
normativa vigente" (LIMARDO, 541); di conseguenza, parrebbe di capire (anche
se l’A. esplicitamente non lo dice), gli organi della procedura si troverebbero
nell’alternativa tra richiedere il brevetto e lasciar cadere la possibilità
di realizzare il valore della tecnologia segreta.
Questa ricostruzione teorica, già difficilmente
difendibile all’epoca in cui venne proposta dal suo autore, trova oggi
un’espressa smentita nel nuovo art. 6 bis R.D. 29 giugno 1939 n.1127
(introdotto nel 1996), a tenor del quale spetta al titolare di segreti
aziendali, industriali e commerciali, la protezione offerta dall’azione
di concorrenza sleale. Dunque non può essere vero che, per la normativa
vigente lo sfruttamento di tecnologie segrete o difficilmente accessibili,
che hanno per questo un valore economico, costituisce un fenomeno extra
o,
peggio, contra jus.
I problemi che al riguardo occorre considerare sono di
altra natura: dal punto di vista pratico è ancora valida l’osservazione
formulata molti anni fa (dal FORMIGGINI, 1111) circa la difficoltà
di apprensione dei segreti all’attivo fallimentare, specie se per una loro
efficace trasmissione a terzi aventi causa dal fallimento richieda la collaborazione
personale del fallito o di altri soggetti un tempo coinvolti nell’attività
produttiva dell’impresa.
Dal punto di vista dell’analisi di diritto, poi, è
da verificare in che limiti il tipo di tutela accordata ai segreti dalla
legge (l’azione di concorrenza sleale) eventualmente reagisca sul piano
del fallimento. In primo luogo si tratta dunque di stabilire se, sussistendone
le condizioni anche processuali, al curatore spetti l’azione di concorrenza
sleale, nonostante la cessazione dell’attività produttiva dell’impresa:
la risposta che si dà al quesito è ormai tradizionalmente
nel senso che, malgrado la cessazione dell’impresa (e cioè anche
quando non vi sia esercizio provvisorio) e nonostante la possibile disgregazione
dell’azienda, il fallito conserva la qualità di imprenditore; inoltre
sarebbe comunque ravvisabile, almeno potenzialmente, il rapporto concorrenziale.
In altri termini, secondo l’opinione corrente ricorrono i presupposti astratti
della fattispecie della concorrenza sleale (in tal senso già FORMIGGINI,
1127 e ss.; GHIDINI, 56).
Aggiungo dal canto mio che la violazione dei segreti dovrebbe
essere uno dei casi più evidenti nei quali, come talvolta si è
detto anche in giurisprudenza, il rapporto di concorrenza nasce per effetto
del compimento dell’atto sleale: il che dovrebbe almeno in parte ridurre
la portata del problema qui accennato.
A parte ciò, è stato sostenuto – per la
verità in tempi ormai lontanissimi - che al fallito competerebbe
sì l’azione di concorrenza sleale, ma solo per il risarcimento del
danno e non per l’inibitoria, mancando (relativamente a quest’ultima) un
interesse praticamente e giuridicamente apprezzabile dell’impresa decotta
e ormai cessata (Trib. Napoli, 26 aprile 1954, in Foro pad., 1954,
I, 1187 e, con solo la massima, in Riv. dir. civ., 1956, p. 1109).
La tesi, peraltro, è sicuramente erronea. Essa infatti non tiene
conto del valore patrimoniale che anche l’inibitoria può avere,
specialmente nell’ottica di un avente causa del fallimento, che certo non
può essere disposto a pagare una gran somma per un segreto del fallito
il cui sfruttamento non potrebbe essere impedito de futuro, tramite
l’inibitoria, a chi lo abbia violato in precedenza. Quindi non è
vero che il fallimento non può avere interesse ad inibire la prosecuzione
di attività di concorrenza sleale compiute ai danni dell’impresa
fallita.
Infine, il fatto che, secondo l’art. 6 bis R.D.
29 giugno 1939 n.1127 (articolo aggiunto dall’art.14 d. lgs. 19.3.96 n.198),
la tutela del segreto sia data dall’azione di concorrenza sleale potrebbe
indurre a sollevare il dubbio sulla natura di "bene", in senso tecnico,
del segreto industriale. Di qui potrebbe poi trarsi argomento per negarne
la disponibilità in capo all’amministrazione fallimentare, quanto
meno separatamente dal complesso aziendale, ecc. L’obiezione, che ripugna
al senso comune, è agevolmente superabile anche senza far ricorso
a (dubbie) elaborazioni dogmatiche ed astratte sulla natura del bene tutelato
dalla disciplina della concorrenza sleale. Basta infatti considerare che,
tra gli elementi costitutivi della fattispecie della norma qui esaminata,
vi è il fatto che le informazioni protette devono "avere un valore
economico in quanto segrete": il che presuppone che le suddette informazioni
possano essere scambiate in un mercato, dunque vendute o cedute contro
corrispettivo, perché altrimenti non avrebbero valore.
8. Passiamo ora all’analisi dei marchi registrati, iniziando
con un rilievo di fatto, che vale anche per la ditta e per tutti i segni
distintivi, anche atipici, registrati o non registrati. Il valore dei segni
distintivi dell’imprenditore fallito può essere ritenuto modesto,
dato il discredito di cui l’impresa fallita può essersi circondata
proprio a causa dell’insolvenza (per questo rilievo v. RIVOLTA, 926 e passim).
Ma questo non avviene sempre o necessariamente. Spesso falliscono imprenditori
che sono titolari di marchi evocativi, suggestivi, celeberrimi o rinomati:
segni distintivi il cui valore economico può difficilmente essere
intaccato dalle più o meno sfortunate vicende del titolare. Resta
però il fatto che la notorietà ed il valore di avviamento
di molti segni distintivi dipendono dall’uso e dagli investimenti pubblicitari
di cui essi formano oggetto: con la cessazione dell’uno e degli altri il
ricordo dei segni sbiadisce fino a svanire e con esso viene a cadere l’interesse
di potenziali acquirenti del diritto. Di qui l’importanza, per gli uffici
fallimentari, della valutazione della situazione di fatto e della eventuale
opportunità di assicurare – magari attraverso la concessione di
licenze – la continuazione dell’uso del marchio nel corso della procedura.
Tornando al profilo giuridico, con la riforma del 1992
(D. Lgs 4.12.92 n.480), è venuta meno la disposizione della legge
marchi che prevedeva la decadenza del marchio registrato per effetto della
cessazione definitiva dell’impresa del titolare: questa disposizione era
al centro del dibattito relativo alla pretesa automatica estinzione del
diritto sul marchio registrato come effetto legale della dichiarazione
del fallimento del titolare della registrazione. La tesi prevalente era
già nel senso che il fallimento non togliesse al titolare il diritto
sul suo marchio (FORMIGGINI, 1122, salvo il caso in cui al momento del
fallimento sia cessata –cioè risulti completamente disgregata -
anche l’azienda; GHIDINI, 55; RIVOLTA, 942, LIMARDO, 537; giurisprudenza
conforme): e ciò anzitutto per una serie di considerazioni pratiche
di palese evidenza, connesse all’interesse anche pubblico di evitare che
il fallimento provocasse come effetto legale la distruzione di valori realizzabili
a vantaggio dei creditori e dello stesso debitore, consentendone l’appropriazione
da parte dei più spregiudicati e furbi tra i concorrenti del fallito.
Se poi ci si pone sul piano dell’argomentazione giuridica, questa conclusione
veniva argomentata con riferimento alla possibilità dell’esercizio
provvisorio dell’impresa ai sensi dell’art. 90 L.F. e con riferimento alla
inerenza del segno distintivo all’azienda del fallito, la cui esistenza
come complesso di beni organizzati per l’esercizio di un’impresa è
un dato oggettivo, che non viene messo in forse dalla dichiarazione di
fallimento.
L’allungamento dei termini della decadenza del marchio
registrato per non uso (fino a cinque anni dalla registrazione del segno)
rende ancor meno drammatica la questione relativa alla eventuale decadenza
del segno per mancata utilizzazione del segno stesso. Anche a questo proposito
dottrina e giurisprudenza prevalenti, peraltro non pacifiche (v. il quadro
di MAYR, in MARCHETTI-UBERTAZZI, 1077), si dimostravano comunque di manica
particolarmente larga nel valutare le questioni attinenti alla decadenza,
e ciò in nome del confessato intento di favorire quanto più
possibile la valorizzazione dei beni dell’attivo fallimentare, compresi
i marchi registrati (v. ad es. GHIDINI, 51). Sta di fatto che il mancato
uso dei marchi nel fallimento era in prevalenza considerato un mancato
uso non dipendente dalla volontà del titolare, per di più
non determinato dalla mancanza di mezzi finanziari. Di fatto con ciò
veniva radicalmente esclusa l’applicazione dell’art. 42 R.D. 21 giugno
1942 n.929.
Con l’attuale formula dell’art. 42 R.D. 21 giugno 1942
n.929, malgrado la sostituzione della formula delle "cause indipendenti
dalla volontà del titolare" con quella del "mancato uso per motivi
legittimi", la questione non ha ricevuto nuova luce, salvo che sicuramente
non è più sostenibile la tesi della decadenza immediata.
Per l’opinione che il fallimento non sia motivo legittimo del mancato uso,
si è espressa una dottrina autorevole (SENA, 147). Ma è stata
anche difesa la tesi tradizionale, secondo cui il mancato uso del marchio,
da parte del fallimento, sarebbe determinato da un motivo legittimo (FAZZINI,
187). Di queste due possibili interpretazioni a me sembra da preferire
la prima, giacché la seconda è fondata (a mio avviso) su
un assiomatico ma in realtà indimostrato favor per le liquidazioni
fallimentari. E’ ovvio che gli interessi del fallimento sono meglio protetti
se i marchi possono essere venduti quando più garba ai curatori
(e magari dopo anni di mancato uso). Ma questo non basta a raggiungere
una conclusione in contrasto con la legge e che porterebbe ad accordare
al fallimento un privilegio non previsto dalla legge.
E’ bene precisare comunque che, se il curatore non può
usare il marchio direttamente (salvo in caso in cui sia autorizzato l’esercizio
provvisorio), può comunque cederlo in licenza d’uso a terzi (per
la dimostrazione di questa conclusione v. RIVOLTA, 938). Il non essere
in grado di trovare un licenzatario non è certo un motivo legittimo
del mancato uso, perché altrimenti si finirebbe per cancellare l’istituto
della decadenza dell’ordinamento giuridico.
A parte ciò, trascorso il termine della decadenza,
se il marchio è ancora noto il curatore può sempre realizzare
il valore del segno, quanto meno come anteriorità distruttiva della
novità di una successiva domanda.
9. Riguardo ai segni distintivi non registrati, la cessazione
dell’uso non fa immediatamente venir meno il diritto. La tutela di questi
segni distintivi è collegata alla notorietà e, in caso di
cessazione dell’uso, alla potenzialità di una ripresa dell’uso da
parte del titolare o di un avente causa. L’opinione più moderna
è infatti nel senso che alla base della tutela dei marchi di fatto,
della ditta e dell’insegna, nonché degli altri segni distintivi
atipici, vi sia sempre un’azione di concorrenza sleale ai sensi del n.
1 dell’art. 2598 c.c.. Come si è già visto, il fatto che
l’imprenditore sia fallito non significa che l’azione di concorrenza sleale
perda i suoi presupposti: spetta al curatore, con le dovute autorizzazioni,
farla valere contro eventuali usurpatori nei suoi diversi aspetti (inibitorio,
restitutorio, risarcitorio). Spetta agli organi della procedura valorizzare
questi beni, eventualmente consolidandone la tutela in Italia ed all’estero
attraverso la registrazione come marchio oppure attraverso la concessione
di licenze ad imprenditori in grado di continuare l’uso e di impedire la
perdita della notorietà del segno; spetta ancora una volta all’amministrazione
fallimentare realizzarne eventualmente il valore attraverso un cessione
al momento di procedere alla liquidazione dell’attivo.
Una considerazione particolare va fatta riguardo alla
ditta, che non è un segno registrato, ma risulta comunque dall’iscrizione
dell’imprenditore nel Registro delle Imprese. A questo proposito è
noto che il 2° comma dell’art. 2564 c.c. è stato sostanzialmente
oggetto di un’interpretazione abrogatrice, giustificata da una serie di
indici sistematici di notevole rilievo. Certo, la norma dice letteralmente
che l’onere di modificare la ditta confondibile con quella di un altro
imprenditore per l’oggetto dell’impresa e per il luogo in cui essa è
esercitata va a carico di chi ha iscritto la sua ditta nel registro delle
imprese in epoca posteriore. Di qui può essere preso lo spunto per
chiedersi se, in caso di fallimento, gli organi della procedura possano
agire (fino alla cancellazione dell’impresa dal registro) nei confronti
di terzi che abbiano adottato un nome commerciale simile a quello del fallito,
anche se la ditta del fallito sia ormai stata completamente dimenticata
dal mercato. Al quesito non è possibile rispondere compiutamente
in questa sede: esprimo perciò in forma del tutto apodittica il
convincimento che in un’ipotesi del genere sussisterebbe la potenzialità
di una ripresa dell’attività dell’impresa almeno fino al momento
della totale disgregazione dell’azienda e, secondo una tesi che venne difesa
per i marchi registrati prima della riforma dell’art. 15 R.D. 21 giugno
1942 n.929, anche dopo tale disgregazione (GHIDINI, 49, che però
a p. 55 sembra dire una cosa incompatibile; contra FORMIGGINI, 1123).
In alternativa si potrebbe pensare che l’art. 2564 c.c.
vada inteso nel senso che al secondo arrivato può essere imposto
solo l’onere di non adottare un nome del tutto coincidente con la ditta
del fallito (ipotesi peraltro assai improbabile, dato il normale interesse
dell’imprenditore in bonis di non farsi passare per il fallito).
D’altro lato, una volta persa qualunque notorietà e disgregata l’azienda,
la ditta del fallito non potrebbe essere ceduta a terzi: infatti la protezione
dell’art. 2564 c.c. sarebbe limitata ad un profilo, per così dire,
pubblicistico (di mera funzionalità del registro), che verrebbe
meno in caso di alienazione del nome a terzi; un eventuale contratto di
cessione della ditta non avrebbe del resto più oggetto e sarebbe
perciò nullo, in quanto non trasferirebbe all’acquirente nessuna
residua o specifica utilità: ed infatti l’acquirente potrebbe utilizzare
un segno del tutto identico, purchè distinto per es. da una diversa
indicazione del rapporto sociale o da altri simili accorgimenti.
10. Supponiamo ora che, prima del fallimento, il fallito
abbia compiuto atti di disposizione sui propri diritti di proprietà
intellettuale. Prima questione da affrontare è se tali atti di disposizione
siano opponibili al fallimento e a che condizioni.
In materia di marchi registrati e di brevetti, va ricordata
l’esistenza dell’istituto della trascrizione degli atti di disposizione
aventi ad oggetto i diritti in questione. La trascrizione ha funzione di
pubblicità dichiarativa e vale a dirimere i conflitti tra più
aventi causa dello stesso titolare. Applicando i principi dell’art.45 L.F.
dottrina e giurisprudenza ritengono che l’omissione della formalità
renda inopponibile l’atto di cessione o di disposizione al fallimento del
dante causa (FORMIGGINI, 1118; Trib. Torino 27 gennaio 1992, in Giur.
it., 1993, I, 2, 259; v. anche Trib. Bologna 5 novembre 1993, in Il
dir. ind., 1994, 551).
Se l’atto di disposizione è inopponibile al fallimento,
al fallimento spetta la titolarità piena del diritto, con la conseguenza
che l’avente causa rimane esposto all’azione di contraffazione eventualmente
promossa nei suoi confronti dal curatore del fallimento, ovviamente se
munito delle previste autorizzazioni.
In materia di diritti d’autore non esiste invece, se non
per le opere cinematografiche (per le quali si veda l’art.22, 2° comma,
L. 1 marzo 1994, n.153), una previsione che richieda la trascrizione obbligatoria
nei registri contemplati dall’art. 103 della L. 22 aprile 1941 n.633 degli
atti di disposizione aventi ad oggetto le opere registrate. La trascrizione
prevista dall’art. 104 non vale dunque a risolvere conflitti fra diversi
aventi causa del titolare dei diritti di utilizzazione economica del diritto
d’autore (o dei diritti connessi), ma tutt’al più consentono di
conseguire la certezza della data dell’atto di disposizione anche ai fini
dell’art. 2704 c.c..
Per le opere cinematografiche, invece, l’omissione della
trascrizione produce gli stessi effetti visti precedentemente per i brevetti
e le registrazioni di marchio: l’art. 22 della L. 1 marzo 1994, n.153,
al 2° comma, dice infatti esplicitamente che la trascrizione è
obbligatoria, e non meramente facoltativa come nel caso delle altre opere
dell’ingegno, e serve a rendere l’acquisto dell’avente causa opponibile
ai terzi.
Al di fuori delle ipotesi sopra considerate, valgono le
regole generali desumibili dall’interpretazione dell’art. 45 L.F. e dall’art.
2704 c.c., con l’avvertimento che, per i diritti sui beni immateriali,
la regola è che gli atti di disposizione non richiedono la forma
scritta né ad probationem né tantomeno ad substantiam.
11. Non di rado l’approssimarsi del fallimento induce
l’imprenditore (o chi nell’impresa riveste i ruoli di guida gestionale)
a tentare di mettere in salvo la più "personale" delle proprietà
aziendali, quella dei beni immateriali, con la quale si potrà riprendere
l’attività con una nuova veste ed una nuova impresa, che succede
a quella dichiarata fallita.
Nulla quaestio se siano state omesse le formalità
richieste per rendere l’atto opponibile al fallimento.
Qui però occorre vedere che cosa accade se tali
formalità siano state messe in atto. Evidentemente nelle occasioni
che ho appena descritto verranno in considerazione eventuali iniziative
revocatorie, giacché, fra l’altro, non di rado i corrispettivi saranno
anormalmente ridotti o le condizioni dello scambio saranno di regola sbilanciate
a favore dell’avente causa.
In breve, anche se non si può escludere che in
taluni casi le revocatorie possano colpire atti di disposizione dei diritti
di proprietà industriale compiuti con veri e propri terzi, il campo
in cui si avrà la più ampia applicazione del rimedio revocatorio
è quello degli atti compiuti con nuove emanazioni imprenditoriali
del fallito (e se il fallito è una società di capitali, dei
suoi azionisti di riferimento, dei suoi soci più o meno tiranni
e dei suoi amministratori).
Una spiegazione ulteriore di quanto ho appena descritto
può essere rintracciata nel fatto che la revoca di una cessione
o di una licenza di marchio o di brevetto può produrre effetti dirompenti
sull’organizzazione del cessionario o del licenziatario, senza giovare
al fallimento, che non può sfruttare direttamente il bene (salvo
l’esercizio provvisorio) e può aver difficoltà a reperire
un altro interessato all’acquisto dello stesso. Si deve considerare la
circostanza che le tecnologie brevettate e perfino i marchi possono essere
sfruttati più efficacemente da chi li conosce bene e che il primo
interessato al loro acquisto e chi li usa da un tempo sufficiente per essersi
familiarizzato con loro (in materia si v. FORMIGGINI, 1114-1115).
Può comunque accadere che, in certe situazioni,
si possa configurare una distrazione dell’attivo, di rilevanza penale.
La cosa merita una specifica menzione perchè il valore dei beni
immateriali non è facilmente determinabile in modo obiettivo (FORMIGGINI,
1114).
L’effetto del successo dell’azione revocatoria è
il solito: il fallimento potrà agire anche contro l’avente causa
del fallito con l’azione di contraffazione (un caso in cui ciò sarebbe
avvenuto, secondo l’annotatore del provvedimento, è quello deciso
dal provvedimento del Trib. Bologna 5 novembre 1993, in Il dir. ind.,
1994, 551, che peraltro non è molto chiaro al riguardo).
12. Gli effetti del fallimento sui contratti di licenza
di marchio e di brevetto per invenzione o per modello sono regolati, secondo
l’opinione più diffusa, sul modello dell’art. 80 L.F. (FORMIGGINI,
1116); e ciò benchè l’art. 80 si occupi in realtà
soltanto di locazione di immobili.
Pertanto, ove sia fallito il concedente, il contratto
prosegue con il subentro del curatore, a meno che il contratto contenga
una c.d. clausola di scioglimento automatico. Il 1° comma dell’art.
80 L.F., che prevede la prosecuzione del rapporto in caso di fallimento
del locatore, ammette infatti il patto contrario.
Nel settore della moda e, meno frequentemente, in altri
settori, accade che il contratto di licenza si combini con un contratto
di somministrazione di merci, spesso in esclusiva, dal licenziatario al
licenziante. In questi casi, se fallisce il concedente, il venir meno della
somministrazione per iniziativa del curatore può dar luogo al parallelo
scioglimento del contratto di licenza, ad iniziativa del licenziatario
in
bonis. Quest’ultimo infatti può non aver interesse a continuare
la fabbricazione senza avere un acquirente sicuro dei suoi prodotti, o
comunque, anche sussistendo l’interesse, può non disporre di un’adeguata
organizzazione di vendita.
Se fallisce il licenziatario, il curatore può scegliere
di proseguire il contratto o recedere pagando un equo compenso (FORMIGGINI,
1117: opinione peraltro non pacifica).
Il subentro è razionalmente giustificabile non
solo con riferimento all’ipotesi dell’esercizio provvisorio, ma anche nella
prospettiva di una vendita dell’azienda del fallito, o del suo affitto
(FORMIGGINI, 1117). Può inoltre accadere che il licenziatario fallito
sia contrattualmente autorizzato a concedere sublicenze.
Specie se la licenza è esclusiva, tuttavia, il
licenziante potrebbe subire un ingiusto danno dalla sospensione dello sfruttamento
della licenza da parte del curatore, cioè anche se quest’ultimo
pagasse le royalties minime eventualmente pattuite. Pertanto qualche
autore pensa che gli interessi contrapposti si possano conciliare fissando
un termine "al curatore, subingredito nel contratto per riprendere l’uso
del bene immateriale o direttamente oppure indirettamente (FORMIGGINI,
1118). Con il decorso infruttuoso del termine, il licenziante potrebbe
risolvere il contratto.
Ricordo peraltro che accanto a questa tesi, la dottrina
ha prospettato altre teorie per risolvere la questione degli effetti del
fallimento del conduttore sulle locazioni mobiliari (fra le quali rientrano
quelle che qui interessano). Si è così pensato ad una sospensione
del contratto, con facoltà di subingresso del curatore, da esercitare
con una espressa dichiarazione. Si è anche suggerito che il contratto
si sciolga ex lege.
Il più delle volte, comunque, i contratti di licenza
contengono delle clausole di scioglimento in caso di insolvenza del licenziatario.
Queste clausole non sarebbero ammissibili a norma del secondo comma dell’art.
80 L.F.: tuttavia la disposizione appena citata non è applicabile
direttamente al caso in esame, che va dunque risolto secondo la ratio
generale del sistema, quale emerge anche nel primo comma dell’articolo.
La ratio è in particolare quella di non sacrificare eccessivamente
gli interessi della controparte in bonis, che potrebbe ricevere
dal fallimento dell’altro contraente un pregiudizio sproporzionato.
In questa chiave sembra preferibile la tesi secondo cui
la clausola di scioglimento opera anche in caso di fallimento del licenziatario;
in mancanza sembra equa l’applicazione del 2° comma dell’art. 80 L.F.,
senza però accordare al concedente anche il diritto di far fissare
termini al curatore o di risolvere il contratto. Questa conclusione si
giustifica infatti con il principio vigilantibus jura succurrunt:
poiché il concedente poteva cautelarsi ex ante con la clausola
di scioglimento, non ha senso permettergli ex post di ottenere in
pratica lo stesso risultato.
13. Una disciplina particolare vale per gli effetti del
fallimento sul contratto di edizione.
L’art. 135 L. 22 aprile 1941 n.633 stabilisce infatti
che in caso di fallimento dell’editore il contratto di edizione non sia
risolto di diritto per effetto della dichiarazione di insolvenza. Tuttavia
esso si risolve dopo un anno se nel frattempo il curatore non è
stato autorizzato a continuare l’impresa con l’esercizio provvisorio ovvero
non ha ceduto l’azienda editoriale; in quest’ultimo caso resta salva la
disposizione dell’art. 132 L. 22 aprile 1941 n.633, secondo cui il trasferimento
del contratto di edizione con l’azienda non può avere luogo se vi
sia un pregiudizio alla reputazione o alla diffusione dell’opera.
La disposizione dell’art. 135 è stata ritenuta
applicabile (in teoria) anche ai contratti di rappresentazione e di esecuzione,
in virtù del generale richiamo dell’art. 136, 1° comma, L. 22
aprile 1941 n.633; ma il secondo comma della norma citata per ultima dice
che i diritti nascenti da detti contratti non sono mai trasferibili, salvo
patto contrario, il che rende praticamente inutilizzabile la disciplina
cui il 1° comma rinvia.
L’art. 135 L. 22 aprile 1941 n.633 non vale per gli altri
atti di trasferimento dei diritti di utilizzazione economica di opere protette
dalla legge sul diritto d’autore. Per esse valgono le regole desumibili
dai principi generali in tema di rapporti pendenti.
14. La cessione dei diritti di proprietà intellettuale
da parte degli organi della amministrazione fallimentare comporta problemi
di un certo rilievo riguardo ai marchi, alla ditta ed all’insegna.
Per i marchi registrati – e per estensione analogica –
anche per i marchi non registrati o di fatto, è stato abolito il
c.d. vincolo aziendale, cioè la regola dettata dal vecchio testo
dell’art. 15 R.D. 21 giugno 1942 n.929 in forza della quale la cessione
del marchio doveva essere accompagnata, a pena di nullità, dal trasferimento
dell’azienda o del ramo d’azienda cui il marchio era inerente.
Resta però il principio che dal trasferimento dei
marchi non deve derivare inganno per il pubblico (art. 15, 4° comma,
nuovo testo R.D. 21 giugno 1942 n.929). Ci si chiede, allora, se debba
esser in qualche modo segnalato al pubblico che il titolare del marchio
è cambiato, ogni volta che il mutamento del titolare del segno distintivo
sia un elemento rilevante per i consumatori o, per le diverse caratteristiche
dei prodotti che saranno contraddistinti con il marchio dal nuovo proprietario,
sia comunque potenzialmente idoneo a trarre in errore i terzi (MARASÀ,
102; VANZETTI, 84 ss.).
Per quanto le preoccupazioni della dottrina siano – al
riguardo – più che condivisibili, occorre dare atto che la pratica
sottovaluta (ed anzi ignora quasi completamente) questo profilo. In genere,
si può osservare che i consumatori sono poco sensibili agli inganni
che possono derivare dalla circolazione dei marchi e che ben di rado i
concorrenti hanno tempo da perdere e denaro da investire in impugnazioni
di atti cui essi sono e desiderano restare estranei.
In sintesi, le contestazioni fondate sulla nullità
del trasferimento del marchio – come quelle fondate sulla decadenza del
segno per sopravvenuta decettività – sono tipicamente delle eccezioni
sollevate dai convenuti nelle azioni di contraffazione. Sembra però
improbabile che questo genere di difese possa trovare accoglimento quando
chi agisce si è procurato la titolarità del marchio acquistandolo
da un fallimento.
Per la ditta, invece, il vincolo aziendale è ancora
previsto dall’art. 2565 c.c..
L’esistenza di regole diverse per la ditta e per il marchio
appare a molti inspiegabile, soprattutto considerato che spesso ditta e
marchio coincidono. Non è questo il contesto idoneo ad analizzare
le diverse proposte interpretative affacciatesi nella dottrina per coordinare
l’art. 2565 c.c. con l’art. 15 R.D. 21 giugno 1942 n.929 (v. il quadro
delle opinioni in SPOLIDORO, 55 ss.).
Invece è opportuno chiarire che la cessione della
ditta richiede la cessione dell’intera azienda, perché la ditta
è il nome di tutta l’impresa. Eccezionalmente però vi sono
ditte che contraddistinguono le c.d. "divisioni" di un’impresa, e solo
in queste ipotesi potrà essere sufficiente il trasferimento contestuale
del corrispondente ramo aziendale.
Di sicuro, per trasferire la ditta non è sufficiente
la c.d. "cessione immateriale" o "spirituale" di azienda, che ricorre quando
l’azienda sia rappresentata dal "diritto di fabbricare e vendere" certi
prodotti oppure da formule di produzione più o meno segrete. La
"spiritualizzazione" dell’azienda era ritenuta sufficiente da una giurisprudenza
lassista (criticata vigorosamente da una parte della dottrina), ma comunque
solo per i marchi; anzi, soprattutto per i marchi "speciali", che sono
quelli che designano solo alcuni prodotti o linee di prodotto dell’impresa.
Per la ditta, che è un segno distintivo per sua
natura generale, le cose non stavano nello stesso modo e non c’è
ragione di mutare avviso dopo che la disciplina dei marchi si è
diversificata anche dal punto di vista legislativo. Si deve inoltre escludere
che la ditta possa esser ceduta isolatamente dopo la totale disgregazione
dell’azienda perché, in tal caso, se permane il ricordo del fallito
sul mercato la cessione sarebbe potenzialmente decettiva e quindi in contrasto
con la ratio del vincolo aziendale; se viceversa nel mercato si
fosse perso il ricordo della ditta, la cessione sarebbe nulla per inesistenza
del bene ceduto.
L’art. 2565 c.c. prevede che la cessione della ditta non
sia un effetto naturale del trasferimento dell’azienda per atto tra vivi,
ma richieda un espresso consenso. Invece nella successione mortis causa
vige il principio contrario: la ditta si trasferisce salvo diversa disposizione
testamentaria.
Per quanto gli antichi insegnassero che il fallito pro
mortuo habetur, il trasferimento dell’azienda e quello della ditta
ad opera dell’amministrazione fallimentare sono atti tra vivi.
Non per questo il fallito deve dare il suo consenso alla
cessione. Gli argomenti equitativi portati a favore della tesi della necessità
di questo consenso non convincono più di quelli fondati sul carattere
strettamente personale della ditta, che si è già escluso
all’inizio di questo scritto: il consenso dell’alienante di cui parla la
norma è il consenso della parte contrattuale che dispone della titolarità
dell’azienda cioè, nel caso del fallimento, è il consenso
del curatore (RIVOLTA, 934).
E’ vero che la disposizione citata è diretta anche
alla tutela di un interesse personale (ma disponibile e quindi monetizzabile)
dell’imprenditore. Ciò fra l’altro giustifica la tesi secondo cui
essa vale solo per le ditte originarie delle persone fisiche (cioè
quelle che coincidono con – o contengono – il nome personale dell’imprenditore),
non per quelle delle persone giuridiche o per quelle di fantasia o per
le ditte "derivate" (che sono quelle contenenti il nome personale di un
precedente titolare dell’impresa): tesi, questa, che può esser dimostrata
ponendo a confronto il 2° comma dell’art. 2565 con il 2° comma
dell’art. 2573 c.c..
Nondimeno, l’interesse dell’imprenditore fallito deve
cedere all’interesse del fallimento a recuperare tutti i valori presenti
nell’attivo fallimentare, sicché i diritti di veto del fallito non
devono essere riconosciuti al di là dei casi in cui essi risultino
chiaramente dal sistema (si pensi al caso dell’opera letteraria non pubblicata).
Per la persona fisica che ha dato all’impresa il proprio nome, il fallimento
è senz’altro un’onta maggiore della cessione della ditta contenente
quel nome ad un imprenditore in bonis. Anche in base ad un prudente
bilanciamento degli interessi in gioco, pare dunque preferibile confermare
il risultato interpretativo già conseguito sulla base del tenore
testuale dell’art. 2565 c.c..
Resta comunque ovviamente escluso che il curatore possa
registrare come marchio o usare come ditta il nome personale dell’imprenditore,
anche se celebre, quando l’imprenditore non l’abbia volontariamente destinato
al traffico commerciale (RIVOLTA, 945 e ss.).
15. La cessione dei diritti di proprietà intellettuale,
da parte del curatore del fallimento, trasferisce al cessionario il diritto
di esclusiva, che in termini moderni è definito come il diritto
di stabilire in ciascun momento quanti prodotti rientranti nel monopolio
del titolare possono essere immessi in commercio.
Se nell’attivo del fallimento ci sono anche prodotti rientranti
nell’esclusiva, occorre coordinare la regola secondo cui il (nuovo) titolare
del diritto deve poterlo sfruttare pienamente, eventualmente anche opponendosi
all’immissione in commercio di prodotti fabbricati da chi gli ha ceduto
l’esclusiva prima della cessione, e l’interesse del fallimento di recuperare
tutti i valori dell’azienda del fallito.
Il conflitto è emerso in un caso che sta per essere
deciso nel merito dal Tribunale di Milano, dopo due ordinanze cautelari,
nel quale ho prestato la mia attività professionale e che per questo
motivo espongo astenendomi da qualunque commento.
Il fallimento di un produttore di abbigliamento intimo
per signora vende il marchio ad un imprenditore del settore. Tempo dopo
vengono reperiti numerosi capi di abbigliamento, trafugati prima della
dichiarazione di fallimento, che il curatore acquisisce.
Questi capi vengono venduti dal curatore ad uno specialista
del settore che in parte li pone in vendita presso un suo spaccio e in
parte li offre, prima allo stesso acquirente del marchio, e poi ad altri
grossisti.
Il nuovo titolare del marchio, che ha fatto importanti
investimenti per rilanciare il marchio, ha un evidente interesse economico
ad evitare che sul mercato i prodotti da lui messi in commercio in negozi
eleganti ed a prezzo relativamente elevato non convivano con i prodotti
fabbricati dal fallito, e ceduti dal fallimento dopo la cessione del marchio,
che vengono offerti a prezzo stracciato sulle bancarelle dei mercati.
Dall’altro lato l’acquirente della merce ed il fallimento
hanno economicamente un interesse del tutto opposto: il primo perché
ovviamente deve recuperare l’investimento fatto comprando la merce stessa,
il secondo per non perderne il valore.
In termini giuridici, la tesi dell’acquirente del marchio
si può ricostruire in questi passaggi logici: le merci recuperate
dal fallimento non erano state ancora immesse in commercio dal precedente
titolare del marchio, cioè dal fallito. Pertanto il diritto di esclusiva
su dette merci non si era esaurito, ai sensi dell’art. 1 bis R.D. 21 giugno
1942 n.929; norma che appunto stabilisce, rispetto ai marchi registrati,
il principio generalmente valido nel settore della proprietà intellettuale,
in forza del quale il titolare del diritto non può opporsi alla
circolazione dei prodotti coperti dall’esclusiva dopo che essi sono stati
messi in commercio da lui o con il suo consenso nel territorio dello Stato
o dell’Unione Europea.
Il fallimento e l’acquirente della merce sostengono invece
la prevalenza delle norme relative alla liquidazione fallimentare, che
tutelano interessi pubblici, su quelle relative alla proprietà intellettuale,
che proteggono un interesse individuale del titolare. Inoltre il fallimento
e l’acquirente della merce ritengono che lo spossessamento fallimentare
sia di per sé una fattispecie di immissione in commercio o comunque
di esaurimento del diritto.
Nella fase cautelare il Giudice Delegato ha respinto le
istanze dell’acquirente del marchio, seguendo la tesi che ho esposto per
seconda; nel giudizio di reclamo, il Collegio ha invece preferito la prima
tesi ed ha concesso le misure cautelari richieste.
Se si segue l’impostazione del provvedimento sul reclamo,
i curatori che nell’attivo fallimentare rinvengono sia diritti di proprietà
intellettuale, sia merci in cui sono "incorporati" tali diritti, devono
preoccuparsi di seguire un certo ordine nelle cessioni, alienando prima
le merci e poi i beni immateriali, oppure, inversamente, devono inserire
nei contratti di trasferimento dei beni immateriali le clausole più
opportune per contemperare i contrapposti interessi della massa e dell’acquirente
del segno.
fazzini Prime impressioni sulla riforma della disciplina
dei marchi, in Riv. dir. ind., 1993, I, 159
FORMIGGINI Il fallimento e i diritti sui beni immateriali,
in Riv. dir. civ., 1956, p. 1109
Ghidini I diritti di proprietà industriale nel
fallimento, in Riv. dir. ind., 1974, I, p. 47
limardo Marchi, brevetti ed invenzioni non brevettate
nel fallimento dell’impresa, in Il dir. fall., 1978, I, 536
marasà Commento agli artt. 11, 15, 49, 50, 51
R.D. 21 giugno 1942 n.929 e 2573 c.c., in AA.VV. Commento tematico
della legge marchi, Torino, 1998, p. 95
mayr Commento all’art. 42 R.D. 21 giugno 1942 n.929,
in MARCHETTI-UBERTAZZI Commentario breve al diritto della concorrenza,
Padova, 1997
rivolta Ditta e marchi nel fallimento, in AA.VV.,
Problemi
attuali del diritto industriale, Milano, 1977, p. 925
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e marchio comunitario, Milano, 1994
spolidoro Commento all’art. 13 R.D. 21 giugno 1942
n.929 in AA.VV. Commento tematico della legge marchi, Torino,
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vanzetti La funzione del marchio in un regime di libera
cessione, in Riv. dir. ind., 1998, I, p. 71