DOTTRINA
di Luca Marini
IL TRATTATO DI AMSTERDAM E LE PROSPETTIVE
DEL DIRITTO FALLIMENTARE EUROPEO (*)
Il Trattato di Amsterdam, entrato in vigore il 1º maggio 1999,
ha dischiuso nuove ed incoraggianti prospettive all’elaborazione di un
diritto fallimentare «su scala europea», poiché ha attribuito
alle istituzioni comunitarie la competenza per adottare, secondo le modalità
ed i ritmi di seguito esaminati, misure nel settore della cooperazione
giudiziaria civile che presentino implicazioni transfrontaliere .
Tali misure, volte ad agevolare la realizzazione dello “spazio di libertà,
sicurezza e giustizia” prevista dallo stesso Trattato di Amsterdam e ribadita
dalla riunione straordinaria del Consiglio europeo tenutasi a Tampere il
15-16 ottobre 1999, sono destinate ad assumere le forme e a dispiegare
l’efficacia vincolante degli atti di diritto comunitario derivato (regolamenti,
direttive e decisioni, secondo la classificazione proposta dall'art. 249,
ex art. 189, del Trattato di Roma) ed includono, tra l’altro, il miglioramento
e la semplificazione del riconoscimento e dell’esecuzione delle decisioni
in materia civile e commerciale, comprese le decisioni extragiudiziali.
In questo contesto, come è agevole osservare, può ricondursi
anche l’adozione di una disciplina comunitaria specifica del trattamento
delle imprese in crisi, intesa a superare le diversità esistenti
tra gli ordinamenti nazionali.
E’ noto che l’esigenza di uniformare la disciplina della gestione dell’insolvenza
negli Stati membri della Comunità europea (CE), o quantomeno di
coordinare lo svolgimento delle procedure concorsuali mediante l’armonizzazione
delle relative disposizioni legislative, regolamentari e amministrative,
è avvertita da tempo ai fini del completamento del mercato interno,
in considerazione del livello di integrazione economica raggiunto dai Paesi
membri della CE e della crescente portata transfrontaliera degli effetti
prodotti dalle attività d’impresa. Né può dirsi che
il diritto comunitario, regolando già numerosi aspetti di tali attività
anche mediante strumenti giuridici uniformi, sia rimasto del tutto insensibile
alla problematica della crisi d’impresa . Pur in assenza di una disciplina
specifica, infatti, le istituzioni della Comunità hanno avuto modo
di occuparsi della materia in esame, anche se con riferimento esclusivo
alle esigenze collegate al buon funzionamento del mercato interno e, quindi,
alla liberalizzazione della circolazione dei fattori produttivi ed alla
tutela delle condizioni concorrenziali.
Al riguardo, va appena ricordato che la Commissione europea ha reso
noti, fin dal 1979, i propri orientamenti in materia di aiuti di Stato
destinati al salvataggio ed alla ristrutturazione delle imprese in difficoltà,
escludendo che la situazione di crisi possa dar luogo a deroghe di sorta
rispetto alla normativa comunitaria . Analogamente, in materia di libera
circolazione delle merci, la Corte di giustizia ha avuto modo di precisare
che le deroghe previste dall’art. 30 (ex art. 36) del Trattato CE non possono
essere invocate per giustificare l’introduzione o il mantenimento di misure
nazionali intese a garantire la sopravvivenza di un’impresa . Ancora, nel
contesto dell’azione di annullamento proposta avverso una decisione della
Commissione che autorizzava la concessione di aiuti di Stato, il Tribunale
di primo grado ha ritenuto assente l’interesse ad agire del ricorrente
(in posizione di concorrenza con il beneficiario dell’aiuto), a seguito
della sua dichiarazione di fallimento .
Nonostante le occasioni di contatto tra il diritto comunitario e il
trattamento delle imprese in crisi siano dunque numerose e di rilevanza
non secondaria, i tentativi di adottare strumenti giuridici uniformi in
materia o di armonizzare le discipline nazionali non hanno conseguito ad
oggi alcun risultato di rilievo, a causa degli ostacoli che hanno rallentato
ogni progresso nella direzione indicata .
A questo proposito, vengono in rilievo anzitutto la complessità
dei rapporti sostanziali che intercorrono tra le parti coinvolte nelle
procedure concorsuali e l’assenza di istituti giuridici omogenei tra i
Paesi membri della Comunità, che hanno sensibilmente ostacolato
gli sforzi delle istituzioni comunitarie intesi al ravvicinamento delle
pertinenti disposizioni nazionali di natura legislativa, regolamentare
e amministrativa. Le differenze tra ordinamenti in ordine alla messa in
atto di misure preventive, all’identificazione dei soggetti passivi della
procedura, all’ambito di applicazione dell’azione revocatoria, alla natura
dei poteri del curatore ed alle finalità stesse delle procedure
concorsuali (che, come è noto, in taluni Stati membri privilegiano
le esigenze di tutela degli interessi dei creditori, attraverso la liquidazione
del patrimonio del fallito, mentre in altri Paesi mirano principalmente
al «salvataggio» dell’impresa) lasciano aperti, infatti, amplissimi
ventagli di soluzioni e solo per alcuni profili della materia in esame
è stato possibile adottare misure di armonizzazione comunitaria,
peraltro minime e non incidenti sugli aspetti procedurali .
L’ostacolo più significativo, tuttavia, resta quello costituito
dalla forte connotazione processuale del diritto fallimentare e dal legame
con la funzione giurisdizionale ad esso sotteso. E’ noto, infatti, che
tale funzione costituisce uno dei segni distintivi più importanti
della sovranità statuale e che, anche a causa dell’obiettivo contrapporsi
negli Stati membri di concezioni e filosofie di intervento differenti,
la cooperazione europea nel campo della giustizia e degli affari interni
si è sviluppata, fin dall’inizio, al di fuori dei meccanismi formali
disciplinati dal diritto comunitario (con particolare riferimento alle
procedure decisionali, all’efficacia degli atti, alle garanzie di controllo
democratico e giurisdizionale previste dal Trattato CE) e quindi secondo
gli strumenti tradizionali della cooperazione intergovernativa, dando peraltro
ben pochi frutti sul piano delle realizzazioni concrete .
Tale forma di cooperazione, cui i Paesi membri ricorrono per avviare
tra loro relazioni in materie e settori non contemplati dal sistema comunitario
esistente, è del resto prevista anche dall’art. 293 (ex art. 220)
del Trattato CE, che, come è noto, autorizza gli Stati membri a
ricorrere ai metodi convenzionali classici per garantire, tra l’altro,
la semplificazione delle formalità cui sono sottoposti il reciproco
riconoscimento e la reciproca esecuzione delle decisioni giudiziarie e
delle sentenze arbitrali. Questa disposizione, va appena ricordato, ha
costituito la base giuridica anche della Convenzione di Bruxelles sulle
procedure di insolvenza, firmata il 23 novembre 1995, dopo una lunghissima
fase preparatoria, da tutti i Paesi membri della Comunità europea
ad eccezione del Regno Unito e, per questo, rimasta lettera morta .
Poiché esorbitante l’originario ambito di competenza comunitaria,
la cooperazione tra gli Stati membri nel campo della giustizia e degli
affari interni ha dunque seguito la strada obbligata del negoziato intergovernativo
e del ricorso a convenzioni internazionali. Può anzi rilevarsi che,
proprio in considerazione della specifica previsione dell’art. 293, le
materie oggetto di tale cooperazione non sembravano nemmeno destinate a
rientrare nella prospettiva di evoluzione del fenomeno comunitario, anche
se le dimensioni assunte dal processo di integrazione hanno smentito, come
si dirà di seguito, ogni previsione in tal senso.
Con l’entrata in vigore, il 1º luglio 1987, dell’Atto Unico Europeo
(AUE), molti temi della cooperazione in materia di giustizia e affari interni
sono infatti divenuti funzionali al raggiungimento di un obiettivo comunitario
vero e proprio (la libera circolazione delle persone nello “spazio senza
frontiere interne” di cui all’art. 8A del Trattato CE, introdotto dall’AUE)
, poiché l’abolizione delle frontiere tra gli Stati membri non poteva
non collegarsi alla contemporanea predisposizione di una serie di misure
«compensatorie» (in materia di asilo, di visti di ingresso,
di lotta al terrorismo, alla criminalità, al traffico di stupefacenti)
volte a far fronte al deficit di sicurezza che la scomparsa dei relativi
controlli avrebbe inevitabilmente comportato. In tale prospettiva, l’AUE
ha fornito, per la prima volta, un quadro istituzionale di riferimento
alle attività condotte dagli Stati membri attraverso meccanismi
diversi da quelli comunitari, pur mantenendo ferma la dimensione intergovernativa
delle attività in parola .
Un ulteriore passo in avanti è stato compiuto dal Trattato sull’Unione
europea, firmato a Maastricht il 7 febbraio 1992, che ha introdotto formalmente
la Cooperazione nei settori della giustizia e degli affari interni (GAI)
nel sistema dei Trattati, e dunque a livello del diritto comunitario primario,
senza tuttavia prevedere l’abbandono per essa del metodo intergovernativo
a vantaggio dei meccanismi comunitari in senso proprio . Può anzi
rilevarsi, al riguardo, che i risultati concreti della cooperazione condotta
nel contesto della GAI, disciplinata dal Titolo VI del Trattato di Maastricht
(c.d. terzo pilastro dell’Unione europea), non si sono discostati molto,
in termini di operatività degli strumenti convenzionali adottati,
da quelli conseguiti in precedenza .
A modificare in modo significativo il quadro descritto è invece
intervenuto, come si è già accennato, il Trattato di Amsterdam.
Tale Trattato ha infatti trasferito alla competenza della Comunità
europea (e dunque al primo dei pilastri dell’Unione europea) i settori
della giustizia e degli affari interni considerati in precedenza semplici
“questioni di interesse comune” dagli Stati membri ai sensi del Titolo
VI del Trattato di Maastricht . Ciò al fine di istituire progressivamente
lo “spazio di libertà, sicurezza e giustizia” previsto dal nuovo
Titolo IV del Trattato CE (artt. 61-69) e indicato dall’art. 2 (ex art.
B), quarto trattino, del Trattato di Maastricht tra gli obiettivi della
stessa Unione europea .
Come è agevole osservare, tale trasferimento di competenze si
inserisce nel solco già tracciato dalla c.d. norma-passerella di
cui all’ex art. K.9 del Trattato di Maastricht, che demandava alla decisione
unanime del Consiglio la possibilità di utilizzare le procedure
decisionali e gli atti giuridici disciplinati dal Trattato CE nei settori
della giustizia e degli affari interni direttamente collegati all’esigenza
di assicurare e consolidare la libertà di circolazione delle persone
nella Comunità . Tali settori, oggi pienamente «comunitarizzati»
dal Trattato di Amsterdam, concernono i controlli alle frontiere esterne
degli Stati membri (art. 62 del Trattato CE), le norme in tema di asilo,
visti e immigrazione (art. 63), la cooperazione giudiziaria in materia
civile (art. 65) e la cooperazione amministrativa (art. 66), e ad essi
si applicano le nuove modalità procedurali che attribuiscono agli
Stati membri un potere di iniziativa normativa per certi versi inedito
per il sistema comunitario (art. 67) .
In particolare, le misure nel settore della cooperazione giudiziaria
in materia civile che presentino implicazioni transfrontaliere, di cui
all’art. 65, includono il miglioramento e la semplificazione del sistema
per la notificazione transnazionale degli atti giudiziari ed extragiudiziari,
della cooperazione nell’assunzione dei mezzi di prova e del riconoscimento
e dell’esecuzione delle decisioni in materia civile e commerciale, comprese
le decisioni extragiudiziarie (lett. a); la promozione della compatibilità
delle regole applicabili negli Stati membri ai conflitti di legge e di
competenza giurisdizionale (lett. b); l’eliminazione degli ostacoli al
corretto svolgimento dei procedimenti civili, se necessario promuovendo
anche la compatibilità delle norme nazionali di procedura civile
(lett. c).
Occorre appena sottolineare che l’art. 65 segna un risultato di sicuro
rilievo nell’evoluzione della cooperazione in materia di giustizia e affari
interni, facendo apparire definitivamente superato l’approccio intergovernativo
cui si è più sopra accennato. Tale disposizione, infatti,
pur essendo finalizzata a “quanto necessario al corretto funzionamento
del mercato interno”, prevede l’estensione del metodo comunitario ad una
serie di materie di notevole importanza ai fini della creazione di uno
spazio giuridico comune tra i Paesi dell’Unione. Tra di esse, figurano
materie nelle quali gli Stati membri hanno già da tempo avviato
o posto le premesse per l’avvio di una cooperazione convenzionale, ed è
quindi ragionevole ritenere che il passaggio di tali materie al sistema
comunitario debba comportare, nei termini stabiliti dal Trattato, il travaso
delle relative discipline in atti di diritto comunitario derivato.
E’ questo il caso della disciplina della gestione dell’insolvenza,
oggetto della proposta di regolamento del Consiglio presentata da Germania
e Finlandia pochi giorni dopo l’entrata in vigore del Trattato di Amsterdam,
sulla base della nuova procedura di cui all’art. 67 del Trattato CE .
Tale proposta, che richiama in buona sostanza i contenuti essenziali
della Convenzione di Bruxelles del 1995, è intesa espressamente
a migliorare e rendere più rapide le procedure di insolvenza aventi
effetti transfrontalieri, nonché ad impedire che le parti coinvolte
traggano indebiti vantaggi dal ricorso alle diverse procedure giudiziarie
vigenti nei Paesi membri (c.d. forum shopping). A tal fine, tenendo anche
conto del fatto che le differenze tra gli ordinamenti nazionali non permettono
di porre in essere una procedura di insolvenza unica a livello comunitario,
la disciplina proposta si limita a prevedere l’introduzione di disposizioni
relative alla competenza per l’apertura delle procedure di insolvenza (senza
distinzione alcuna tra queste), alla legge applicabile ed al reciproco
riconoscimento delle decisioni adottate . E’ bene precisare, inoltre, che
le regole di conflitto uniformi prefigurate dalla proposta di regolamento
sono destinate a sostituire, entro i limiti del proprio campo di applicazione,
le norme di diritto internazionale privato vigenti nei Paesi membri .
In estrema sintesi, la proposta di regolamento prevede l’apertura,
nello Stato ove si trova il centro degli interessi principali del debitore
, di una procedura d’insolvenza principale a “carattere universale”, intesa
quindi ad inglobare tutti i beni del fallito e ad interessare tutti i creditori,
ovunque essi si trovino . Nel quadro di tale procedura, i cui effetti sono
riconosciuti automaticamente in tutti gli altri Paesi membri, la giurisdizione
competente può disporre l’adozione di provvedimenti provvisori e
conservativi, anche per quanto concerne i beni del debitore situati al
di fuori dello Stato interessato . La procedura principale può essere
inoltre affiancata, alle condizioni indicate dalla proposta di regolamento,
da procedure secondarie o “locali”, destinate a permettere ai creditori
degli altri Paesi membri di ricorrere agli strumenti giuridici previsti
dal diritto nazionale per salvaguardare più efficacemente i loro
interessi . Qualora siano avviate entrambe le procedure, il necessario
coordinamento reciproco dovrà essere assicurato dalla stretta collaborazione
tra i curatori dei diversi Paesi, anche mediante l’istituzione di un sistema
ad hoc di scambio di informazioni .
La proposta di regolamento prevede, infine, criteri speciali di collegamento
che deroghino alla lex concursus per quanto concerne in particolare i diritti
reali dei terzi e la compensazione dei crediti , e prefigura disposizioni
specifiche sulla pubblicità da fornire al contenuto essenziale della
decisione di apertura della procedura d’insolvenza, nonché sul carattere
liberatorio delle prestazioni effettuate dai soggetti i quali, ignorando
l’avvenuta apertura di detta procedura, adempiano in buona fede obbligazioni
in favore del debitore .
Va da ultimo rilevato che, una volta entrato in vigore (verosimilmente
entro la fine del 2002), il regolamento relativo alle procedure d’insolvenza
sostituirà, nelle relazioni tra gli Stati membri e per le materie
che ne fanno oggetto, una serie di trattati bilaterali e multilaterali,
nonché la Convenzione di Istanbul su determinati aspetti internazionali
del fallimento, qualora tale accordo dovesse entrare in vigore nel frattempo.
Il regolamento esplicherà inoltre, è appena il caso di precisare,
gli effetti tipici della categoria di atti comunitari cui esso appartiene
e, quindi, sarà direttamente applicabile in tutti gli Stati membri
senza alcuna necessità di ricorso alle procedure nazionali di ratifica
e di esecuzione .
Nota bibliografica.
Oltre gli AA. citati in nota, nella vasta bibliografia sulla materia
si veda, limitatamente alle sole opere più recenti, DORDI, La Convenzione
dell’Unione europea sulle procedure di insolvenza, in Rivista di diritto
internazionale privato e processuale, 1997, p. 333 e ss.; GUZZI, La Convenzione
comunitaria sulle procedure d’insolvenza: prime osservazioni, in Diritto
del commercio internazionale, 1997, p. 901 e ss.; ZAMPERETTI-NODARI, Verso
l’armonizzazione comunitaria del diritto fallimentare: lo stato dell’arte,
in Giurisprudenza commerciale, 1997, p. 607 e ss.; IDOT, La «faillite»
dans la Communauté: enfin une convention internationale?, in Droit
et pratique du commerce internationale, 1995, p. 34 e ss.; PROTO, Il progetto
di convenzione dell’Unione europea sull’insolvenza (fallimento e altre
procedure concorsuali), in Diritto fallimentare, 1995, p. 121 e ss.; DANIELE,
La Convenzione europea su alcuni aspetti internazionali del fallimento:
prime riflessioni, in Rivista di diritto internazionale privato e processuale,
1994, p. 449 e ss.; WOODLAND, The proposed European Community Insolvency
Convention, in LEONARD-BESANT (ed.), Current Issues in Cross-Border Insolvency
and Reorganisations, London, 1994; DORDI, La Convenzione europea su alcuni
aspetti internazionali del fallimento: la consacrazione dell’universalità
limitata degli effetti delle procedure concorsuali, in Diritto del commercio
internazionale, 1993, p. 617 e ss.; HABSCHEID, Verso un diritto fallimentare
europeo, in Rivista trimestrale di diritto e procedura civile, 1993, p.
1105 e ss.; PROTO, La convenzione europea su certi aspetti internazionali
del fallimento, in Diritto fallimentare, 1991, p. 752 e ss.
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