Limitazione
alla soddisfazione dei creditori del fallimento
Due voci a confronto su par condicio e privilegio
dei crediti da lavoro
L•A • Q•U•E•S•T•I•O•N•E
Il sistema fallimentare offre una serie di strumenti
diretti a tutelare e comporre l’insieme di interessi scaturenti dalla crisi
economica dell’imprenditore. Le procedure concorsuali, quindi, soddisfano
molteplici interessi, quali quelli del debitore, dei terzi per i rapporti
pendenti al momento della dichiarazione di fallimento, nonché un
più generale interesse pubblico al corretto svolgimento della procedura
fallimentare alla quale, una volta incardinata - d’ufficio o ad istanza
di parte - non è più possibile rinunciare.
Il soddisfacimento dell’interesse generale si
realizza in particolare, nel fallimento, attraverso l’eliminazione della
impresa che ha male operato (salvo i casi in cui sia possibile il suo risanamento
attraverso il ricorso ad altre procedure concorsuali) e la completa liquidazione
del patrimonio del fallito, a vantaggio dei creditori, nel rispetto della
par
condicio.
Il principio della parità di trattamento
fra i creditori, che trova ampia applicazione nell’espropriazione disciplinata
dal codice di procedura civile, riceve nel sistema fallimentare una più
efficace attuazione.
Infatti, rispetto agli strumenti offerti dall’istituto
comune, il ricorso alle procedure concorsuali consente un “processo
simultaneo” con la partecipazione reale di tutti i creditori, permettendo
a questi un contraddittorio interno e di verifica della validità
delle rispettive richieste.
L’art. 52 L.F. si pone, quindi, come uno dei
pilastri fondamentali del sistema fallimentare prevedendo che tutti i creditori,
aperto il concorso sul patrimonio del fallito, devono far accertare i loro
crediti secondo le procedure previste dalla legge fallimentare “salvo diverse
disposizioni di legge”.
Inoltre, gli artt. 51 e 107 L.F. sanciscono l’assorbimento
di tutte le procedure esecutive in corso sui beni compresi nel fallimento,
sempre “salvo diverse disposizioni di legge”, quali quelle relative all’espropriazione
degli istituti di credito fondiario ed all’esecuzione esattoriale. Pertanto,
la dichiarazione di fallimento dovrebbe consentire ad ogni creditore di
vedere realizzato il proprio diritto, quale posizione giuridica soggettiva
riconosciuta meritevole di tutela da parte dell’ordinamento. In realtà,
tuttavia, il diritto del creditore viene a subire sin dall’inizio delle
forti limitazioni: quanto ai beni del debitore che vengono sottratti alla
soddisfazione dei creditori quando hanno una diretta destinazione alla
persona del fallito o dei suoi familiari (beni personali, alimentari);
quanto ai beni di cui il debitore si è spogliato precedentemente
alla dichiarazione di fallimento e per i quali il curatore non sempre può
agire in revocatoria al fine di ricostituire il patrimonio, poiché
l’art. 67 L.F. esonera da tale azione alcuni Enti.
Lo scopo satisfattivo risulta, inoltre, più
compresso dalla stessa necessità di assicurare medesima tutela
ad altrettante richieste creditorie, in ragione della natura del credito
a fronte di un patrimonio spesso incapiente. Costituiscono limitazioni
alla realizzazione del credito, le cause legittime di prelazione quali
i privilegi, il pegno e le ipoteche che rappresentano una vera e propria
deroga al principio della par condicio creditorum.
Gli sporadici interventi del legislatore e quelli
più numerosi della Corte costituzionale, volti ad adeguare la legge
fallimentare alla nuova realtà socio economica, hanno puntualmente
vanificato l’obiettivo precipuo del sistema e cioè il soddisfacimento
paritario dei creditori, anteponendo alcuni interessi ritenuti più
meritevoli di tutela.
Evidenti esigenze conservative (rectius: corporative),
hanno comportato interventi spesso settoriali (se non addirittura occasionali)
ed hanno reso sempre più difficile l’attuazione del principio di
uguaglianza tra i creditori che, sancito dal codice civile all’art. 2741,
risulta più volte violato.
Tra dubbi, lacune ed incertezze, innovativa si
pone la sentenza n. 1/1998 della Corte costituzionale che, dopo aver
richiamato le proprie precedenti decisioni in materia (sent. n. 84/1992
- 40/1996), ha dichiarato “non manifestatamente infondata la questione
di legittimità costituzionale dell’art. 2751 bis n.2 cod. civ.,
nella parte in cui tale norma non prevede che il privilegio generale sui
mobili sia riconosciuto a tutti i prestatori d’opera e di servizi non aventi
natura intellettuale, trattandosi di fattispecie sindacabile rispetto a
quella dei prestatori intellettuali (per omogeneità delle categorie
di soggetti e di crediti) ed oggetto di necessaria parificazione”.
La Corte, recependo la denunciata disparità
di trattamento - in riferimento agli artt. 3 e 35 Cost. - che l’art. 2751
bis n. 2 cod. civ. determinava tra i prestatori d’opera a seconda della
natura, intellettuale o non, dell’opera o del servizio prestato, ha riconosciuto
la violazione del principio della tutela del lavoro in tutte le sue forme
ed applicazioni.
La norma, quindi, con l’aggettivo “intellettuale”
poneva una limitazione nell’ambito del privilegio, contraddicendo il principio
generale secondo cui il privilegio deve essere accordato a determinati
crediti e non a determinate persone.
L’elemento soggettivo, se pur rilevante, nello
spirito della norma citata, trovava e trova il suo naturale presupposto
nel dettato costituzionale che intende privilegiare il lavoro in qualsiasi
forma esplicata, riconoscendo che tutti i lavoratori autonomi, traendo
dal proprio lavoro i mezzi di sostentamento sono meritevoli - per i loro
crediti - della più completa tutela prevista dalla legge per i lavoratori
dipendenti.
La pronuncia della Consulta, segue una significativa
evoluzione dell’interpretazione.
Si ritiene, però, che la strada da percorrere
sia ancora lunga, poiché il nodo sciolto dalla Corte costituzionale,
nel privilegiare il lavoro in tutte le sue forme ed applicazioni, lascia
irrisolti alcuni dubbi nell’ambito della medesima norma.
Non si comprende perché, a questo punto,
l’art. 2751 bis, debba continuare a differenziare l’estensione ed il grado
del privilegio (per alcuni con un limite temporale), se le categorie di
lavoratori ivi indicate hanno - è vero - una posizione pur sempre
riconducibile ad un solo denominatore e, cioè, la tutela del lavoro.
In particolare, non si comprende il divario esistente
fra i lavoratori subordinati e quelli autonomi, addirittura con il limite
del biennio per quest’ultimi.
È, infatti, possibile affermare che il
carattere differenziale del credito, che trovava le sue ragioni nel fatto
che il lavoratore dipendente, in caso di insolvenza del proprio datore
di lavoro, veniva ad essere privato dell’unica fonte di reddito, mal si
coniuga con l’evoluzione ed il mutamento verificatosi negli ultimi anni
nel mondo del lavoro. E’ ormai frequente il caso di lavoratori autonomi
che traggono il loro unico sostentamento da un’unica grande impresa.
In conclusione, può ancora dirsi che le
procedure concorsuali, privilegiando quale valore preminente il soddisfacimento
dei creditori, lo attuano nel rispetto della par condicio?
d•i • a•l•e•s•s•a•n•d•r•a • s•a•n•s•o•n•e•t•t•i
L•A • P•R•O•S•P•E•T•T•I•V•A
L’esposizione fin qui svolta si è conclusa
con un interrogativo, che però non è il solo che si desume
dalla prospettazione che lo precede.
Da una attenta lettura del testo si evince infatti
che le questioni sollevate sono sostanzialmente tre, anche se fra loro
evidentemente connesse, e cioè : una prima relativa alla carenza
di un sistema che, pur essendo articolato nella prospettiva di un soddisfacimento
dell’interesse dei creditori, consente un trattamento di favore per la
realizzazione di alcuni crediti, e fra questi quelli maturati per prestazioni
di lavoro; una seconda, concernente la razionalità delle scelte
effettuate dal legislatore laddove a fronte di situazioni omogenee ha delineato
discipline non coincidenti; una terza, vale a dire quella esplicitamente
formulata, attinente la compatibilità della normativa attualmente
vigente con gli obiettivi di equa ripartizione del pregiudizio fra tutti
i creditori, che pur si intendeva perseguire. Va subito detto in proposito
che il legislatore del 1942, fra i vari interessi astrattamente tutelabili,
ha ritenuto più meritevole quello del buon funzionamento del mercato,
con l’inevitabile conseguenza della eliminazione della struttura non competitiva,
e ciò anche in pregiudizio di altri diritti o interessi pur riconosciuti
dall’ordinamento.
Tuttavia è evidente che la posizione dei
lavoratori inseriti nell’impresa non è equiparabile a quella degli
altri creditori poiché in quest’ultimo caso si tratta soltanto di
recuperare nei limiti del possibile somme di denaro, e quindi un qualcosa
di cui, sia pure con qualche sacrificio, si può fare a meno, mentre
per quanto riguarda l’altro credito è agevole rilevare come il coinvolgimento
personale del titolare sia ben diverso rispetto a quanto si verifica per
gli altri creditori, poiché l’espletamento dell’attività
lavorativa è espressione di una soggettività che incide pesantemente,
come causa ed effetto ad un tempo, sulla stessa vita di una persona.
Insomma è chiaro che siamo ben oltre la
semplice constatazione dell’esistenza di un credito, e ciò spiega
la tutela rafforzata del diritto in tale ipotesi, proprio perché
derivante dalla prestazione d’opera nell’ambito di un rapporto di lavoro
subordinato.
Naturalmente il quadro sociale preso in esame
dal legislatore è quello che si offriva alla sua attenzione nel
1942.
Peraltro occorre considerare che accanto al fenomeno
dell’espansione della grande impresa che ha dato poi luogo ad interventi
normativi di altra natura finalizzati a riequilibrare eventuali sbilanciamenti
economico- finanziari che si fossero determinati (si pensi ad es. all’amministrazione
straordinaria), si è gradualmente manifestato un significativo incremento
dei crediti di lavoro autonomo. Ciò si è verificato a causa
di una diversa organizzazione dell’attività lavorativa, in gran
parte imputabile ad un sensibile ridimensionamento numerico delle medie
imprese e, soprattutto, ad un rilevante aumento dell’attività strumentale
finalizzata alla prestazione dei servizi, attività che ben può
essere svolta al di fuori dello schema tipico del lavoro subordinato.
L’espansione dei diversi moduli organizzativi
cui si è fatto riferimento ha posto dunque il problema di una estensione
della tutela anche in relazione a posizioni che, per la loro modesta incidenza
quantitativa, non avevano fatto sorgere perplessità sulla ragionevolezza
di un sistema che privilegiava, con discipline di settore più favorevoli,
alcune posizioni rispetto ad altre pur qualitativamente omogenee. Espressione
di questa tendenza per l’appunto può essere considerata da ultimo
la sentenza n. 1 del 29 gennaio 1998 della Corte costituzionale, con la
quale si è dichiarata l’incostituzionalità dell’art. 2751
bis n. 2, nella parte in cui diversamente da quanto avviene per il lavoro
subordinato, limita il privilegio esclusivamente alle prestazioni di opera
intellettuale.
Se queste sono le premesse, però, deve
ragionevolmente ritenersi che in prospettiva le posizioni di “tutela rafforzata”
sono destinate ad ampliarsi, e ciò sia per l’evidente tendenza ad
una maggiore considerazione di profili socialmente rilevanti (salvataggio
delle imprese in crisi, interventi in difesa del mantenimento dei posti
di lavoro, solo per ricordare aspetti certamente particolarmente significativi)
che per l’effetto di trascinamento che ne consegue sotto il profilo di
assicurare ragionevolezza al sistema e parità di trattamento fra
gli associati. A questo punto però c’è da chiedersi - e arriviamo
al terzo interrogativo formulato - se ha ancora senso individuare il principio
della par condicio dei creditori come parametro di riferimento principale
della legge fallimentare.
Non è certamente questa la sede per affrontare
una articolata trattazione sul tema. Tuttavia, a parte alcune violazioni
che di fatto si sono determinate, quale ad esempio quella del creditore
più forte che proprio in ragione del suo maggior peso si garantisce
il recupero con le fideiussioni personali dei soci abbienti (si pensi ad
esempio alle fideiussioni omnibus), non possono non registrarsi significativi
esempi di segno opposto rispetto al parametro formale, pur rimasto inalterato,
individuabile nell’identico diritto di tutti i creditori alla soddisfazione
dei crediti vantati.
Basti pensare ad esempio, in questa ottica, alla
valorizzazione dell’amministrazione controllata, che offre una possibilità
di salvataggio dell’impresa in virtù della continuazione della gestione,
con la conseguente prededucibilità dei crediti sorti durante tale
fase ed il sostanziale svuotamento della posizione dei chirografari ; ai
diversi interventi legislativi finalizzati a favorire la permanenza sul
mercato di alcune imprese pur in gravi difficoltà (il riferimento
va alla legge n. 391/1978, alla legge n. 787/1978, sui consorzi bancari);
alla istituzione dell’amministrazione straordinaria (L. n. 95/1979, c.d.
legge Prodi).
E’ con quest’ultima legge in particolare che
si formalizza il contrasto tra finalità risanatorie dell’impresa
e scopo satisfattivo dei creditori, contrasto che per la prima volta viene
istituzionalmente e fisiologicamente composto in favore delle prime, con
effetti di dubbia costituzionalità, fra l’altro, con riferimento
al disposto dell’art. 24, 1° comma, della Costituzione.
Occorre dunque prendere atto che, al di là
dei dati formali rimasti apparentemente inalterati, si è affiancata
alla normativa esistente una disciplina sorretta da logiche assistenzialiste,
che per non essere dettata da un disegno di ampio respiro finisce per non
incidere in modo equo su una corretta distribuzione dei costi sociali,
e determina anzi irragionevoli privilegi e disparità fra i consociati.
C’è da augurarsi pertanto che si pervenga
quanto prima ad una rivisitazione complessiva della situazione esistente
e ad una rielaborazione dell’istituto dell’amministrazione straordinaria,
che consenta un coordinamento razionale ed equilibrato dei vari interessi
che il legislatore intende riconoscere e tutelare.
Sotto questo riflesso il decreto legislativo
che dovrà prossimamente essere emanato per il riordino della disciplina
dell’amministrazione straordinaria, in attuazione della legge 30 luglio
1998 n. 274, rappresenta un momento importante per una attenta riflessione
e la individuazione delle soluzioni più razionali, nella prospettiva
di un bilanciamento dei vari interessi oltre che di una riaffermazione
sostanziale del principio della par condicio, pesantemente messo in discussione,
come visto, dai mutamenti cui si è fatto cenno.
d•i • c•a•r•l•o • P•i•c•c•i•n•i•n•n•i
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