Tribunale di Roma - sez. fall.
- decr. 14 novembre 1997 - Pres. Briasco - Est. Baccarini - ric. Spa S.A.I.N.
Società Appalti Internazionali in liquidazione (avv. L. Manzi)
CONCORDATO PREVENTIVO - CON CESSIONE
DEI BENI - VALORE DEL PATRIMONIO - PROVA - ONERE DEL RICORRENTE (Art. 160
L.F.)
.
Il proponente un concordato
preventivo è tenuto, in sede di proposizione della domanda anche
ai sensi dell’art. 2697 cod. civ., a provare l’esistenza di tutti i presupposti
oggettivi e soggettivi di cui all’art. 160, 2° comma, L.F. Nel caso
di concordato preventivo con cessione dei beni, qualora tra questi vengano
ricompresi dei crediti, il proponente è tenuto a dimostrarne l’esistenza,
la esigibilità e la consistenza.
.
(omissis…)
La consistenza patrimoniale dei
beni offerti dalla società risulta nel caso connotata da una grave
carenza documentale e logica degli elementi di valutazione portati all’esame
del Tribunale: carenza che si traduce in mancanza di elementi di prova
positiva.
Circa il patrimonio vantato dalla
sain, la società indica, anzitutto, crediti verso i committenti,
soprattutto enti pubblici, indicati nella situazione patrimoniale al 31.5.97
per un valore di lire 43 miliardi circa, oltre ad altre lire 11 miliardi
complessive per crediti verso società collegate-controllate e crediti
vari. In altra parte (f. 10) la sain deduce di avere crediti vari per lire
87 miliardi ma che, essendo in corso o comunque prevedibile un contenzioso,
prevede un incasso pari al 75% di tale valore, per totali lire 65.105 milioni.
Mancano elementi per ogni valutazione:
non viene nemmeno enunciato in base a quale criterio si possano ritenere
i crediti realizzabili al 100% o al 75% o in qualsiasi altra percentuale.
Non viene indicato alcun elemento giustificante i criteri di svalutazione,
né la necessaria documentazione per dimostrare la esistenza effettiva
dei crediti (diversi dei quali sono sub iudicio e per altri la stessa sain
prevede un esito contezioso).
È evidente come il Tribunale
non possa limitarsi a prendere per buona la affer-mazione, non provata
e non giustificata, di qualsivoglia parte. Del pari sarà evidente
come, dovendosi verificare con la massima esattezza possibile la reale
sussitenza del patrimonio societario, non ci si possa acquietare con semplici
affermazioni di stima teorica sganciate da ogni indicazione di riscontro.
Nemmeno sono indicati i tempi di
definizione del contenzioso, che possono essere anche assai lunghi, anni
e anni e che presumibilmente andrebbero assai oltre i sei mesi dalla omologazione
del C.P., con il noto obbligo conseguente di pagare anche gli interessi
legali sui crediti nella misura concordataria non ancora soddisfatti. Si
noti che tutti gli enti pubblici, dopo il giudizio arbitrale, adiranno
prevedibilmente il giudice d’appello e la Cassazione, come già sta
avvenendo. Mancano, infine, indicazioni sulle ragioni analitiche del contenzioso
(a parte un gruppo di lodi arbitrali depositati, relativi solo a una minor
parte delle vicende).
In atti non sussistono elementi
per verificare la effettiva esigibilità dei crediti vantati. La
sain si limita alla affermazione che, trattandosi (in gran parte) di crediti
verso enti pubblici, gli stessi sono sicuramente solventi. Ma non spiega
in modo analitico se tali crediti siano pacifici o contestati, se per lavori
già eseguiti o in corso di opera (quindi, con costi di realizzazione),
se siano stati in parte già scontati o impegnati presso istituti
di credito. Tale totale omissione rende, di fatto, impossibile una esatta
valutazione del presunto patrimonio di crediti della sain, principale bene
offerto dalla stessa per pagare i propri creditori. Né è
ammissibile che una società di tali dimensioni non sia in grado
di operare precisa e dettagliata specificazione di tali voci al momento
della richiesta del concordato. In pratica, la offerta dei beni della sain
è assolutamente oscura, così che il tribunale potrebbe optare
solo tra tali due scelte: o accettarla per buona e ritenere esistente un
credito per decine di miliardi, ancorché non subito esigibile; oppure
chiedere una specifica per la quale potrebbero occorrere mesi (si deve
presumere che non sia pronta, altrimenti non ci sarebbe ragione per non
averla allegata), tempo nel quale ogni istanza di fallimento resterebbe
sospesa e le operazioni contestate da sindaci e dal PM e varie cessioni
di beni risultanti in atti supererebbero il termine annuale.
Al contrario, sembra adeguato ritenere
che sia onere della società provare la consistenza del proprio patrimonio,
sin dal momento della richiesta di concordato. Cosa qui non realizzata
in modo adeguato, come detto.
Questa, del resto, non solo è
la previsione della norma, ma è l’interpretazione costante della
giurisprudenza, per la quale la valutazione dei beni ceduti nel concordato
“non deve muovere da mere congetture o da ipotesi arbitrarie e più
o meno ottimistiche, ma deve poggiare su elementi seri e concreti, capaci
di far sorgere la fondata opinione, intesa quasi come certezza, che, in
base all’id quod plerumque accidit la liquidazione dei beni stessi fornirà
i mezzi necessari per il predetto soddisfacimento” (così Cass. Sez.
I, 28.7.89, n. 3527, riportata in modo adesivo da Pajardi, Codice del fallimento,
p. 725, Cedam, 1996; Trib. Sassari, 8.8.85 in Il diritto fallimentare,
1985, p. 824; Cass. 9.4.88, n. 2809, in Il fallimento 1988, 582, CED 463508;
Cass. 20.11.73 n. 3128, in Giust. Civ. Mass. 1973, 1629; Cass. Sez. I,
n. 3936 del 13.12.69, CED 344352; Cass. Sez. I, n. 9580 del 17.9.93, CED
4837817. Accertamento che deve essere talmente specifico, sin dal momento
della ammissione, da estendersi alla verifica dell’effettivo valore commerciale
del bene, discostandosi da una valutazione meramente astratta per giungere
al valore “concretamente realizzabile” per la azienda, “non escluse le
offerte di acquisto pervenute” (Trib. Piacenza, 13.6.89, in Il fallimento,
1989, 1059); sempre al fine di giungere non alla semplice possibilità
ma alla “quasi certezza” della sufficienza dei beni ceduti.
La giurisprudenza è costante
nel ritenere che il requisito patrimoniale debba venire valutato dal Collegio
con tale scrupolo da raggiungere la “quasi certezza” della sufficienza
dei beni a soddisfare l’onere concordatario, ovviamente con riferimento
alle prospettive di realizzo concreto. Nel caso in esame, le notizie fornite
non costituiscono prova della sussistenza di un patrimonio sufficiente
a coprire tale onere.
I requisiti di ammissibilità
vanno, tra l’altro, commisurati anche sul tempo dell’adempimento (qui necessariamente
aleatorio, essendo la gran parte dell’attivo dichiarato dipendente dall’esito
delle cause in corso).
È evidente, poi, per il
generale onere della prova, che spetti al richiedente il dovere di provare
quanto asserisce, considerato anche che in questa fase il Tribunale ha
di fatto limitata possibilità di accertare d’ufficio il reale valore
dei beni che si vogliono conferire.
La necessità di un sicuro
accertamento del valore dei cespiti offerti in cessione risulta ancora
più evidente se si tengono presenti le vicende del caso in esame.
Basterà ricordare come la sain, nella difesa del 10 aprile 1997,
quando cercava di evitare il fallimento e accreditare la propria immagine
di piena solvibilità, affermava di avere crediti verso enti pubblici
per lire 148 miliardi (f. 9 della memoria del 10.4). Due mesi dopo la somma
è ridotta a lire 62 miliardi, essendo stato stimato il valore dei
beni per il C.P. alla data del 31.5.97. Né può valere a giustificazione
la circostanza che la seconda cifra sia stata parzialmente ridotta, rispetto
al credito cartolare, poiché è comunque evidente che ai fini
delle procedure concorsuali rileva la effettiva realizzabilità del
credito e non il valore nominale. Ma non è tutto: si modifica ancora
la situazione e, alla data di presentazione della istanza di C.P., il 10.7.97,
i crediti si sono ridotti a lire 47.582 milioni. Da notare che nella relazione
dello A.U., in data 15.12.96, la situazione patrimoniale risultava vantare
crediti per lire 44.550 milioni circa, somma assai inferiore.
Ovviamente, tale valutazione non
é decisiva per considerare la vantaggiosità dell’offerta
di C.P. Ma aumenta le perplessità circa le modalità di valutazione
di questi crediti, oltre a rilevare circa la linearità e coerenza
della condotta societaria.
A maggior ragione in quanto, secondo
quanto indicato nella memoria del 10.4, f. 9, i 148 miliardi di crediti
verso enti pubblici erano bene individuati: 25 mld per lodi già
definiti ed esecutivi, 11 mld per procedimenti arbitrali in corso, 40 mld
per procedimenti arbitrali in corso, 40 mld per procedimenti da avviare,
61 mld per domande giudiziali già avviate, oltre importi minori.
Non è dato comprendere come la iniziale cifra di 148 mld sia stata
diminuita; se, poi, dipendesse da cessioni di crediti avvenute dal dicembre
al luglio 1997, si tratterebbe di operazioni assai poco compatibili con
la coeva richiesta di concordato preventivo e seriamente rilevanti per
considerare il vantaggio per la procedura. Se, al contrario, i dati iniziali
fossero inesatti, ciò farebbe dubitare della attendibilà,
anche delle indicazioni successive.
Si vuole affermare o, piuttosto,
ribadire, come il Giudice possa operare solamente su dati certi, non su
affermazioni non riscontrabili. È onere di chi propone una domanda,
di qualsiasi tenore e specie, fornirne la prova. Onere qui non adempiuto
dalla sain, che non ha provato in modo adeguato né la esistenza
e la entità dei propri crediti, né ha dato contezza di una
condotta che negava ogni ipotesi di insolvenza fino a pochissime settimane
prima della richiesta di C.P.
(omissis)
Adelante [1]
Il decreto, dalle dimensioni e
respiro di una approfondita sentenza, del Tribunale romano sopra riportato,
mi ha spinto con la sua assolutamente condivisibile motivazione ad alcune
riflessioni su tali tematiche, forse non adeguatamente approfondite, anche
dalla dottrina e forse ormai quasi accettate come scontate dalla giurisprudenza.
Profilo di grande interesse del
provvedimento è quello sul terreno probatorio della esistenza dei
presupposti di ammissibilità e sulla valutazione della congruità
dei beni ceduti.
Il richiamo che il Tribunale fa
all’art. 2697 è ineccepibile.
Che il concordato preventivo sia
un processo, una procedura concorsuale è del tutto evidente, così
come che questi siano processi di esecuzione forzata collettiva, con implicanze
di elementi di volontaria giurisdizione. Il sistema endofallimentare dei
procedimenti camerali (art. 737 – 739 cod. proc. civ.); la mutazione del
giudice delegato in giudice dell’esecuzione quando procede alla vendita
dei beni immobili (art. 108 L.F.) o in giudice istruttore nelle insinuazioni
tardive (art. 101); il sistema delle notificazioni e comunicazioni al suo
interno adeguato dalla Corte Costitu-zionale a quello processuale ordinario;
l’obbligatorietà di un minimale di contraddittorio con il fallendo
e invece pieno con gli altri soggetti interagenti, ne sono espressioni
evidenti.
Se, quindi, il concordato preventivo
è un processo, la domanda di ammissione di cui all’art. 161 L.F.
(“.. la domanda è proposta con ricorso”..) rientra nella previsione
degli artt. 99 e100 cod. proc. civ., anche sotto il profilo strettamente
letterale della norma e del mezzo processuale (“ricorso”) indicato espressamente
tra gli atti processuali ordinari anche dagli artt. 83 e 125 cod. proc.
civ. È, quindi, una domanda giudiziale.
Ne consegue pianamente che il debitore,
il quale voglia far valere il proprio diritto a proporre un concordato
preventivo, debba egli provare l’esistenza dei presupposti e requisiti
di cui all’art. 160 L.F., nessuno escluso ed eccettuato.
Nessuno, infatti, solleverebbe
perplessità o esitazioni su tale considerazione con riferimento
a quanto previsto dai nn. 1-2-3 dall’art. 160, 1° comma, riferendosi
ai presupposti soggettivi. Non vi è ragione alcuna perché
questo onere probatorio si debba concludere con il 1° comma e non estendersi
al successivo 2° comma.
Si obietta da alcuno che il Tribunale
dovrebbe o potrebbe ex officio procedere a tale valutazione avendo gli
strumenti tecnici e processuali per svolgere tali accertamenti.
Direi che il Tribunale, più
che accertare, debba controllare l’esistenza dei presupposti tutti, soggettivi
ed oggettivi, ammissivi. Controllare significa verificare che quod est
in actis corrisponda, soddisfi quanto la norma prevede e richiede.
Così anche per la valutazione
dei beni.
Il Tribunale dovrà limitarsi
a controllare le prove, gli elementi, quanto in sostanza il debitore abbia
ritenuto liberamente e volontariamente di allegare in atti per “convincere”
il Tribunale in prima battuta e i creditori dopo, in sede di votazione,
che i suoi beni ceduti possono (e questo è un altro passaggio essenziale)
con la loro realizzazione effettiva e possibile, supportare l’onere concordatario.
Se si cedesse ai creditori (facciamo
un’ipotesi di paradosso esemplificativo) il quadro della Gioconda di Leonardo,
sarebbe agevole per qualunque debitore allegare stime di insigni esperti
attestanti il suo valore intrinseco inestimabile, incommensurabile, straordinario
oltretutto conoscibile anche dal giudice come fatto notorio.
Ma nella procedura concorsuale,
ciò non basta.
Occorre dimostrare che tale valore
sia concretamente ed attualmente realizzabile; ossia che il bene possa
liberamente e senza vincoli essere messo sul mercato (ad esempio una liberalizzazione
da parte dello Stato francese); che sia un bene appetibile, sia pure per
un mercato ristretto; che in quel momento vi siano richieste di quel genere
di bene; che l’andamento dei mercati dimostri – dati alla mano, cioè
con vendite similari già concluse in tempi recenti – che vi siano
potenziali acquirenti di tale livello e che se ne possa spuntare (sia pure
con ragionevoli oscillazioni) un prezzo tale da supportare il concordato
preventivo.
Se il debitore non sarà
in grado di offrire sul terreno probatorio tale ragionevole quasi certezza,
il Tribunale non sarà tenuto a “soccorrerlo” con accertamenti officiosi,
con stime e perizie dell’ultima ora che non potranno dare, oltretutto,
responsi definitivi e tranquillanti.
Actore non probante…
Se, pertanto, il giudizio del Tribunale
si dovrà incernierare sugli atti e sulle risultanze, ovviamente
documentali, che il debitore è tenuto a produrre, l’esistenza dei
presupposti di ammissibilità dovrà risultare già nel
ricorso.
Per completezza di esposizione
dobbiamo far presente che vi è anche chi (Bonsignori, Il concordato
preventivo in Commentario Scialoja - Branca, Roma -Bologna 1980; Tribunale
Milano 24 ottobre 1980) sostiene che la fase di esame della domanda rientri
nei procedimenti, di volontaria giurisdizione e più esattamente
in quelli in Camera di Consiglio. In detti procedimenti il giudice può
ai sensi dell’art. 738 cod. proc. civ. “assumere informazioni”. Poiché,
si sostiene, a detto potere ufficioso istruttorio non si porrebbe alcun
limite, esso potrebbe essere esteso, anche, alla consulenza tecnica (Brescia
S. Il concordato preventivo, Maggioli Editore, 1997, e per certi aspetti
anche Bonsignori op. cit.). Osservano questi autori, che essendo il concordato
preventivo comunque sempre un’attività giurisdizionale, troverebbe
spazio l’ammissibilità di mezzi istruttori ex officio tra i quali
la CTU ex art. 61 cod. proc. civ.
È agevole osservare come
costituisca un’evidente forzatura metodologica l’includere tra “l’assunzione
di informazioni” anche la consulenza tecnica, trattandosi di genus ed ambiti
completamente diversi e che il richiamo all’art. 61 cod. proc. civ. sia
non appropriato in quanto applicabile solo al processo ordinario a contraddittorio
pieno nel quale già risultano acquisite le prove. La CTU non è,
infatti, un mezzo di prova, bensì un ausilio per il giudice in ordine
alla più esatta comprensione di quanto sia stato già provato
per tutti e che non possa adempiere a funzioni meramente “esplorative”
volte a reperire ed evidenziare fatti favorevoli ad una delle parti. Il
debitore proponente invocherebbe tale indagine esplorativa per poter consentire
l’ingresso nel processo di “eventuali” fatti a lui favorevoli. (Satta -
Punzi, Diritto processuale civile, Padova, 1996 e conforme e stratificata
giurisprudenza).
Il richiamo all’art. 738 cod. proc.
civ. non è oltretutto completo in quanto anche in altre specialissime
occasioni (procedimenti cautelari, d’urgenza, artt. 669, 689, 700 cod.
proc. civ.) vi sono spazi per l’assunzione ufficiosa di informazioni, ma
sicuramente non estensibili alle indagini peritali.
Non ultimo aspetto è quello
delle spese per la CTU. Nella fase iniziale il debitore non ha ancora costituito
il deposito di cui all’art. 163 L.F.; di conseguenza il Tribunale non avrebbe
possibilità - non sapendo ancora se ammettere o meno al concordato
preventivo - di assolvere l’onere delle spese con il costituendo deposito
o con la previsione di esso. Anche perché sarebbe opinabile che
le spese di una tale CTU alla quale faccia seguito la dichiarazione di
fallimento possano essere assistite dal privilegio di cui all’art. 2775
cod. civ. ma, in ogni caso, mai potrebbero godere della prededuzione non
essendosi aperto ancora un procedimento concorsuale. È questa una
mia opinione coesistente con altre di segno opposto ritengo, però,
dettate più che per fondamenta di diritto, per poter assicurare
il pagamento di attività svolte su incarico del giudice.
Nel provvedimento vi è poi
una condivisibile presa di posizione sulla questione della valutazione
dei crediti ceduti dal debitore. È questo notoriamente un punctum
dolens che si ripete in molte procedure. Ovviamente non quando si tratti
di crediti certi, liquidi, esigibili in quanto in tal caso vi sarebbe da
verificare solo la solvenza del debitore.
I crediti non così qualificati
rappresentano indubbiamente un grosso problema, in quanto è praticamente
impossibile verificarne l’esistenza e la consistenza specie allorchè
il debitore ne contesti addirittura l’esistenza.
Ed essendo tale accertamento dipendente
a volte dall’esito definitivo di un giudizio o in corso o da ancora iniziare,
come potrà mai il debitore provare ed il Tribunale verificarne l’effettiva
esistenza e consistenza?
Si tratterebbe di divinare l’esito
di un processo il quale è assolutamente indipendente da qualsiasi
previsione, anche autorevole, da parte di chiunque e che sarà determinato
solo da quanto risulterà in quel giudizio e sulla base di ciò
che sarà dedotto dalla controparte; da ciò che sarà
provato in via di azione e di eccezione.
D’altro canto, quando in una impresa
insolvente figurano ingenti crediti -
nel caso di specie si parla di
ben 148 MDL - ragionevolmente non sorti il giorno prima, - viene legittimo
dubitare sulla loro effettiva riscuotibilità visto che il
debitore non è riuscito
in precedenza a monetizzarli in alcun modo.
Trasferire, quindi, a tacitazione
di debiti certi dei crediti incerti, an quantum et quando, appare una operazione
molto discutibile in ordine alla quale giustamente il Tribunale ha negato
l’accesso ponendo un fermo sbarramento.
Non dobbiamo infine dimenticare
un ultimo aspetto, nella pratica non frequentemente tenuto presente.
L’art. 236 L.F. punisce l’imprenditore
che al solo scopo di essere ammesso alle procedure di amministrazione controllata
e di concordato preventivo “si sia attribuito attività inesistenti,
ovvero per influire sulla formazione delle maggioranze, abbia simulato
crediti in tutto o in parte inesistenti”. Questo reato viene pacificamente
incluso tra quelli contro l’amministrazione della giustizia e precisamente
contro il corretto andamento delle procedure concorsuali.
La norma che precede è di
significativa importanza perché da un lato conferma che il concordato
preventivo è un processo al quale quindi sono applicabili i principi
sopra ricordati e perché impone all’imprenditore un comportamento
di lealtà e trasparenza verso il Tribunale nel richiedere l’ammissione
alla procedura, onde - e qui è anche una controprova dell’onere
probatorio addossato al debitore - egli non tragga in inganno o tenti di
sviare il giudizio del Tribunale nell’ammissione o meno alla procedura.
Si discute se la fattispecie criminosa
debba fermarsi alla sola ipotesi della inesistenza o possa estendersi all’esagerata
valutazione delle attività, la c.d. sopravvalutazione.
Riepilogando, possiamo dire che
prevalentemente si ritiene che la commissione del reato debba fermarsi
all’inesistenza di attività, pur lasciando la possibile estensione
anche all’aspetto super valutativo delle stesse nei casi nei quali l’apprezzamento
di queste non si fermi alla mera valutazione soggettiva dell’imprenditore
(il quale potrebbe eccedere in buona fede o per ignoranza) ma sia accompagnato
da altri elementi di supporto inveritieri, quali perizie compiacenti, false
trattative di acquisto a valori elevati, tali ed idonei a trarre in inganno
il Tribunale in questa sommaria e tumultuosa fase iniziale.
Ed allora, quando anche la sopravvalutazione
di una attività - e ciò vale anche per i crediti - sia talmente
e vistosamente eccessiva rispetto all’effettivo valore oggettivo e sia
determinata e accompagnata puntigliosamente da contraddittori riscontri
e pervicaci motivazioni e precisazioni tali da incidere in modo significativo
nella valutazione di congruità, anche la sopravvalutazione, così
intesa, può estendersi fino alla equivalenza della inesistenza delle
attività e rientrare così nella ipotesi criminosa ricordata.
Il ricorso al concordato preventivo,
ed in particolare a quello con cessione dei beni, un po’ l’ultima spiaggia
prima del fallimento, è diventato molto più frequente in
questi ultimi anni. Con riferimento al solo Tribunale romano i concordati
preventivi (sia con garanzia che con cessione di beni) richiesti dal 1942
al 1997 ammontano a 1178 con una media matematica del 22,6% per anno. Però
se segmentiamo questo dato in due momenti temporali le conclusioni sono
diverse.
Fino al 1985 il numero delle procedure
è stato di 812 con una media annua di 18,8 ricorsi, mentre da quella
data al dicembre 1997 il numero è stato di 366 elevando, nell’ultimo
e più breve periodo di osservazione, la media annua a 30,5 ricorsi;
con un aumento della media dell’11,7%. Non siamo in grado di sapere esattamente,
di questi, quanti siano stati accolti o meno e se, successivamente, siano
stati omologati. il numero delle dichiarazioni di fallimento è anch’esso
aumentato in misura, però, assai maggiore.
Si è cominciato poi a considerare
il concordato preventivo - quello però con cessione dei beni - un
po’ come un passaggio obbligato prodromico al fallimento, passaggio che
non costa nulla tentare (lo si è tentato addirittura contestando
la legittimità del deposito per le spese della procedura) anche
sapendo trattarsi di un tentativo senza possibilità concrete ma
che potrebbe tornare utile come alibi (o supposto tale) per successive,
spiacevoli implicazioni penali.
I freni - non che a Roma siano
mai stati allentati, anzi tutt’altro - andrebbero ulteriormente ristretti
ed andrebbe lanciato un chiaro monito quale quello che nei casi di vistosa
e sfrontata inammissibilità, la dichiarazione di fallimento non
sarà la sola conseguenza.
.
Una riflessione finale.
Solo il concordato preventivo con
garanzia consente di ricondurre nel circuito produttivo una impresa che
ne era stata espulsa: qualcuno (il garante) si affianca al debitore ed
in sua vece, o a lui associato, pagati a stralcio i debiti, riprende quella
stessa attività che li aveva provocati, non danneggiando oltre la
pubblica economia.
Ma cedere tutti i beni, dissolvere
l’impresa a tacitazione di debiti non porta alcuna utilità collettiva
e pubblicistica.
Ecco allora il dubbio che il concordato
preventivo con cessione dei beni sia stato un innesto dell’ultima ora nella
legge del 1942, forse solo previsto per sporadici casi eccezionali. Sorto
il dubbio, ne cerchiamo le conferme.
Primo indizio.
Su 26 articoli che disciplinano
il concordato preventivo solo il n.2 del 2° comma dell’art.160; l’art.182
e il 2° comma dell’art. 186 parlano esplicitamente del concordato preventivo
con cessione dei beni. Un solo articolo e 2 commi di altri due articoli:
indubbiamente un po’ pochi per un istituto di dimensioni sicuramente statistiche
maggiori di quello con garanzia. L’eccezione è divenuta la regola.
Secondo indizio.
Il sistema endoprocedurale di controllo
e di salvataggio, in atto dal decreto di ammissione provvisoria al passaggio
in giudicato della sentenza di omologa, si fonda sui meccanismi degli artt.
167 e 173.
L’art. 167 laddove dice che “durante
la procedura di concordato il debitore con-
serva l’amministrazione dei suoi
beni e l’esercizio della impresa, sotto la vigilanza
e la direzione...” sembra che sia
una consequenziale conclusione del solo n.1 dell’art. 160, 2° comma
che riguarda il concordato con garanzia e non già anche del
n. 2 del ricordato articolo e comma
che disciplina il concordato con cessione.
Ed è evidente il perchè.
Con il concordato con garanzia
l’imprenditore continua l’attività di impresa e conserva l’impresa
ed i suoi beni, essendosi obbligato solo al pagamento di percentuali concordatizie,
magari con il supporto di un assuntore o garante. Con il concordato con
cessione, invece, il debitore interrompe per sempre l’attività di
impresa e cede “tutti i beni esistenti nel suo patrimonio alla data della
proposta” (art.160, 2° comma, n.2).
Interviene a questo punto tra domanda
ed omologazione (o non omologazione), un processo, estremamente sommario
e breve (la fase di preomologa del concordato) che “traghetterà”
quella proposta ad una delle due soluzioni sopra ricordate.
Ecco che solo allora il 2°
comma del 167 assume un senso logico, ragionevole e razionale, se però
lo riferiamo e lo limitiamo al concordato con garanzia.
Che senso avrebbe, infatti, prevedere
e disciplinare mutui, vendite, garanzie, fideiussioni, cancellazione di
ipoteche, accettazione di eredità, transazioni, donazioni che un
debitore, già spogliato si di tutti i beni divenuti indisponibili,
dovrebbe compiere - sia pure autorizzato per iscritto - in quel breve lasso
di tempo di “traghettamento” che il legislatore del 1942 aveva previsto
in due o tre mesi al massimo, come si può ricavare dai fulminei
termini contenuti negli artt. 163, 171, 172, 178 (24 ore - 3 gg. - 8 gg.
- 30 gg.)?
Non vi sarebbe senso e ragionevolezza
alcuna essendo quegli atti ricordati, tutti, negozi giuridici improntati
all’ordinarietà di una gestione commerciale a medio e lungo termine;
si pensi ad un mutuo ventennale, od una iscrizione ipotecaria i quali,
se applicati al concordato con cessione, sarebbero chiaramente destinati
solo ad appesantire il passivo con la creazione della prededuzione e diminuire
un attivo, già nella disponibilità dei creditori anteriori,
i quali o li gestiranno direttamente attraverso il liquidatore loro mandatario
o sarà il curatore a farlo.
Invece tutto ciò è
indifferente per la massa nel caso di concordato con garanzia, in quanto
i creditori si sono accordati su di una percentuale concordata e garantita
e il non appesantimento eventuale del patrimonio del debitore - che è
rimasto di sua proprietà e disponibilità - è solo
un fatto di prudenza del legislatore (ecco la necessità dell’autorizzazione
scritta) in vista unicamente dell’eventuale risoluzione o annullamento
artt. 137, 138, 186).
Che scopo, finalità, intento,
senso avrebbe il debitore di un concordato preventivo con cessione a chiedere
l’autorizzazione a compiere quegli atti richiamati nel 167, i quali sono
tipici atti di impresa e che quindi non hanno più interesse per
lui che l’attività ha cessato e che ha consegnato tutto all’organo
concorsuale?
Nemmeno le spese di mantenimento
della società debitrice possono essere prelevate da tali risorse
divenute ormai dei creditori, essendo obbligazioni in ogni caso successive
alla domanda e non contratte nell’interesse della massa. Si pensi ai compensi,
di norma non indifferenti, degli organi amministrativi societari.
Queste riflessioni conducono a
concludere che l’art. 167 non si dovrebbe applicare ai concordati preventivi
con cessione dei beni e che questo sia un genus anomalo all’interno delle
procedure concorsuali volontarie da riservare, visto che comunque esiste
nella legge fallimentare, a casi veramente eccezionali.
Si potrebbe pensare allora che
tale forma di concordato preventivo a condizioni facilitate sia stata configurata
per “decongestionare” l’ingorgo creato nella giurisdizione dai troppi affari
contenziosi. È evidente che in questi concordati preventivi l’intervento
della giurisdizione è assai ridotto e praticamente limitato all’omologazione;
manca la fase dell’accertamento del passivo; i rimedi avverso la formazione
dello stesso; la liquidazione dell’attivo in quanto rimesso al liquidatore
dei beni ceduti. L’attività del liquidatore dei beni avrà
caratteristiche iure privatorum e la funzione del giudice delegato sarà
solo di vigilanza. Indubbio è pertanto un minore carico di lavoro
per la giurisdizione.
Questa configurazione potrebbe
essere valida e ragionevole come frutto di una politica giudiziaria; solo
che tale valenza e ragionevolezza avrebbero sicuramente vigore solo oggi
nell’attuale superlavoro della giurisdizione, ma non certo nella mente
del legislatore e nella situazione del 1942 che tali preoccupazioni sicuramente
ancora non avvertiva. Quindi nemmeno questo aspetto può avere un
concreto peso.
Ma allora se qualcosa di valido,
ragionevole e sicuramente positivo (cum grano…) in tutto ciò esiste,
anche se tali connotazioni di utilità per tutti sono sorte solo
oggi, perché non meditare su questo aspetto? Perché non è
possibile (tentare di) modulare ed estendere tale commistura di procedimento
liquidatorio iure privatorum anche alla procedura concorsuale coattiva,
lasciando in ogni caso solo alla giurisdizione penale gli spazi per l’intervento?
Non sembra aver senso ragionevole e giustificabile concedere tanti vantaggi
a chi si limita ad offrire ai creditori alcunché oltre quanto costoro
già non abbiano od avranno ed invece ricevere in cambio di questo
“nulla” un salvacondotto dalle conseguenze personali e penali e sottraendo
ai creditori la possibilità di esercitare le azioni revocatorie,
se non in comparazione con un vantaggio per la collettività. Vantaggio
che dovrebbe consistere nel veder consegnati tutti i beni, non dissolti
o appesantiti da oneri pregiudizievoli; che detti beni siano prontamente
e vantaggiosamente esitabili; che il debitore non abbia posto in essere
“lacci e lacciuoli” tali da rendere difficoltoso, incerto, lungo il percorso
liquidatorio.
Certezza, celerità, congruità
di valori come contropartita dei (tanti) vantaggi al debitore cessionario
riconosciuti.
Avanti, quindi, ma con grande prudenza
così come dimostrata nel provvedimento annotato ed anche - se possibile
- con qualche riflessione su quanto abbiamo accennato, se ritenuto condivisibile
o meritevole di attenzione.
Tribunale di Roma - Sez. fallimentare
- sent. 21 novembre 1997 - Pres. Maselli - Est. Roberti; Scalchi (Avv.
P. Sciubba) c. Fall. “Capparella noleggi S.p.A.”.
CREDITI PRIVILEGIATI - IMPRESA ARTIGIANA
- FATTISPECIE - ISCRIZIONE NELL’ALBO DELLE IMPRESE ARTIGIANE - IRRILEVANZA
- PREMINENZA DEL LAVORO SUL CAPITALE - RILEVANZA (R. D. 16 marzo 1942 n.
267 Disciplina del fallimento, del concordato preventivo, dell’amministrazione
controllata e della liquidazione coatta amministrativa: artt. 54, I°
co., 95 e segg.; Cod. civ.: art. 2751 bis n. 5); L. 8 agosto 1985 n. 443:
art. 3, II° co.)
Per l’attribuzione del privilegio
di cui all’art. 2751 bis n. 5) Cod. Civ. deve escludersi che l’iscrizione
nell’Albo delle imprese artigiane valga ad attribuire uno status, rilevando
invece l’individuazione nell’impresa dei requisiti richiesti dalla legge
443/85 sull’artigianato. Tra i caratteri essenziali dell’impresa artigiana
rileva quello della prevalenza del lavoro personale rispetto al capitale
investito. [1]
(omissis)
Motivi della decisione
La domanda non può essere
accolta non risultando provata la qualità di imprenditore artigiano
invocata dal ricorrente.
Risulta certamente non contestato
il credito vantato da Scalchi Aldo, già ammesso al passivo del fallimento
della Capparella Noleggi s.p.a. per l’importo di lire 3.450.000, sulla
base di fattura relativa a servizi effettuati in favore della società
fallita nei mesi di ottobre, novembre, dicembre 1992.
La documentazione depositata e
le allegazioni del ricorrente non sono invece idonei a far collocare il
credito riconosciuto nell’ambito del privilegio ex art. 2751 bis n. 5 come
richiesto.
È noto che il privilegio
in esame, introdotto dalla legge 29.7.1975 n. 426, determina una serie
di problemi interpretativi essenzialmente originati dall’assenza di un
sicuro riferimento normativo da cui trarre precisi dati per la definizione
del concetto di “impresa artigiana”. Si è infatti in presenza, in
materia, di una serie di disposizioni di difficile coordinamento: l’art.
2083 cod. civ., che comprende gli artigiani tra i piccoli imprenditori,
l’art. 2221 cod. civ., che esclude dall’assoggettabilità al fallimento
e al concordato preventivo, oltre gli enti pubblici, anche i piccoli imprenditori,
l’art. 1 L.F. nello stesso senso del precedente, e le leggi 25.7.1956 n.
860 e 8.8.1985 n. 443 sull’artigianato (la seconda quasi integralmente
sostitutiva della precedente). Si ritiene ormai prevalentemente che la
definizione di impresa artigiana, ai fini dell’esclusione dall’assoggettabilità
al fallimento, sia in parte diversa da quella utilizzabile per il privilegio
generale in parola, per il quale il carattere artigianale dell’impresa
dovrà desumersi essenzialmente dai criteri dettati dalla legge sull’artigianato
(cfr. in relazione alla vigenza della legge 860/56, Cass. 4.11.1990, n.
9080): in quest’ambito in primo luogo deve escludersi che l’iscrizione
nell’albo delle imprese artigiane (provata dall’opponente con il documento
attestante l’iscrizione) valga ad attribuire uno status all’impresa, idoneo
a farle riconoscere il privilegio in esame, rilevando piuttosto quell’iscrizione
quale presupposto per agevolazioni tributarie disposte per tali categorie
di imprese (cfr. Cass. sez. I, 5.7.1990. n. 7085), né potendo comunque
costituire una presunzione sulla natura dell’impresa (cfr. Cass. sez. I,
17.12.1993, n. 12519). In secondo luogo assume rilevanza per la definizione
che interessa l’individuazione nell’impresa dei requisiti richiesti dalla
legge 443/85 sull’artigianato potendo conseguire, dal rilievo positivo
sulla sussistenza di questi, l’attribuzione del privilegio, atteso che
la causa di prelazione privilegia il credito laddove in concreto sussistano
le ragioni per accordare il trattamento preferenziale e, quindi, solo ove
il credito corrisponda alle caratteristiche previste dal legislatore per
il riconoscimento della prelazione (cfr. Cass. 24.1.1995, n. 840). Tra
i caratteri essenziali dell’impresa artigiana viene quindi in rilievo quello
della prevalenza del lavoro personale e anche manuale nel processo produttivo
rispetto al capitale investito (cfr. A. Genova 17.10.1991 Grimaldi c. Fall.
Spanio, Trib. Milano 16.1.1992, Soc. Totanox c. Fall. Soc. Imm. Gallarate)
anche considerando che il riconoscimento della natura privilegiata del
credito artigianale si fonda sull’esigenza di accordare all’artigiano una
tutela similare a quella dei lavoratori dipendenti o parasubordinati (cfr.
Trib. Milano 10.6.1993) proprio in considerazione della prevalenza nell’attività
del fattore lavoro rispetto al fattore capitale e della equiparabilità
del reddito a quello di un dipendente.
Nel caso in esame non può
riscontrarsi la prevalenza indicata poiché dalla dichiarazione relativa
ai redditi d’impresa dell’anno 1991, unico documento depositato unitamente
al certificato d’iscrizione delle imprese artigiane, emerge, nello stato
patrimoniale, un valore di beni materiali ammortizzabili pari a lire 256.200.000
e un capitale netto di lire 88.339.000, mentre non risultano dipendenti
ed è riportato un reddito d’impresa di lire 6.225.000. Ne deriva
che, se pure il titolare dell’attività, lo stesso opponente, presta
certamente il proprio lavoro nell’impresa, la sproporzione tra l’attività
che può esercitare il solo titolare e il valore dello stato patrimoniale
indica una prevalenza del capitale sul lavoro, non risultando da altre
fonti (non è stata richiesta alcuna prova testimoniale né
risulta acquisita ulteriore documentazione) un rapporto diverso fra i due
fattori produttivi (cfr. per l’ipotesi opposta, con conseguente diversa
soluzione, Trib. Bologna 7.4.1993, Due c. Fall. Soc. Nove electric). Pertanto,
non risultando provata la qualità di impresa artigiana del ricorrente,
l’opposizione deve essere respinta rimanendo quindi confermata l’ammissione
al passivo fallimentare per l’importo indicato in via chirografaria.
(omissis)
L’imprenditore artigiano uno e plurimo.
L’identificazione della fattispecie
dell’imprenditore artigiano è questione aperta da sempre, e rilevante
sia sotto il profilo sistematico che sotto quello applicativo. Lasciata
in ombra la sistematica, ormai generalmente travolta da una legislazione
atecnica e provvisoria almeno quanto sovrabbondante, generata da svariate
matrici culturali ed ideologiche e piegata a rappresentare giorno per giorno
nell’ordinamento le più diverse inquietudini, dedichiamo alcune
brevi riflessioni al profilo applicativo.La qualificazione di un’impresa
come artigiana rileva principalmente a due effetti: a) l’assoggettabilità
a fallimento dell’imprenditore che si pretende artigiano, tenendosi altresì
conto della forma individuale ovvero societaria che abbia assunto; b) l’ammissibilità
dell’imprenditore che si pretende artigiano a godere del privilegio accordato
dall’art. 2751 bis n. 5 cod. civ. nella ripartizione dell’attivo conseguente
ad una procedura esecutiva, individuale o concorsuale. Il provvedimento
in epigrafe affronta la questione sub “b)”, e riordina con completezza
gli elementi normativi del combinato disposto dal quale si cerca di ricavare
la nozione in discorso.
Essi sono: a) l’art. 2083 cod.
civ., con il quale, com’è noto, il legislatore della codificazione
comprende l’imprenditore artigiano all’interno della nozione di piccolo
imprenditore; la norma ha principalmente il fine di escludere la fattispecie
de qua dall’ambito applicativo della disciplina della pubblicità,
della contabilità e del fallimento caratteristica dell’imprenditore
commerciale; sotto il profilo applicativo, tuttavia, tale regime eccezionale
rileva essenzialmente ai fini dell’esclusione dal fallimento ex art. 2221
cod. civ., poiché, da un lato, l’art. 8 della novella L. 29.12.1993
n. 580 ha ormai reso comune a qualunque imprenditore (anche piccolo, agricolo
ovvero in forma di società semplice) l’obbligo-onere della pubblicità,
e, dall’altro, la disciplina tributaria dell’accertamento grava gli imprenditori,
anche piccoli, di adempimenti contabili certamente superiori a quelli dai
quali il Codice Civile li esenta.
b) la nota L. 08.08.1985 n. 443
- quasi integralmente sostitutiva della precedente L. 25.07.1956 n. 860
e contenente i principi fondamentali di cui all’art. 117 Cost. destinati
ad informare la legislazione regionale di tutela, sviluppo ed agevolazione
dell’artigianato - all’art. 2 definisce imprenditore artigiano colui che
svolge in misura prevalente il proprio lavoro, anche manuale, nel processo
produttivo; la medesima legge, all’art. 4, accorda alla relativa impresa
limiti dimensionali piuttosto ampi (variabili da 18 a 40 dipendenti) e
contempla fra le imprese artigiane anche quelle che effettuano lavorazioni
in serie; l’art. 3, inoltre, prevede la possibilità che l’impresa
artigiana sia costituita in forma di società di persone o cooperativa,
purché, in tali casi, il lavoro abbia funzione preminente sul capitale;
c) l’art. 1 R. D. 16.03.42 n. 267, che, nella formulazione risultante dalla
declaratoria di parziale illegittimità (Corte Cost. 22 dicembre
1989 n. 570, in: Foro It. 1990, I, 1132 n. SILVESTRI) che ha espunto dal
comma secondo ogni indicazione quantitativa, conferma la non assoggettabilità
al fallimento dei piccoli imprenditori ma precisa che in nessun caso possono
essere riconosciute tali le società commerciali. Il coordinamento
delle disposizioni ora richiamate è sempre stato laborioso.
L’interpretazione dell’art. 2083,
peraltro, non è univoca. Non si comprende infatti se l’artigiano
sia, ex lege ed in quanto tale, piccolo imprenditore, accanto al piccolo
commerciante, al coltivatore diretto ed a quanti esercitano un’impresa
con lavoro prevalentemente proprio e dei familiari, ovvero se solo questi
ultimi integrino la fattispecie di piccolo imprenditore e, pertanto, gli
artigiani siano menzionati dalla norma a titolo esemplificativo, e siano
piccoli se e in quanto soddisfino in concreto il requisito della prevalenza
che, solo, definisce la fattispecie di piccolo imprenditore. Questa interpretazione
è tuttora ritenuta prevalente -salvo quanto si dirà infra-,
anche se per ragioni extratestuali, connesse alla difficoltà di
reperire un’adeguata definizione normativa del piccolo commerciante, senza
la quale, evidentemente, la norma non può essere applicata nella
prima lettura. Vigendo, pertanto, l’interpretazione secondo la quale il
criterio della prevalenza del lavoro proprio e dei familiari è vincolante
per qualunque imprenditore che voglia sottrarsi, in quanto piccolo, alla
disciplina dell’imprenditore commerciale, - segnatamente agli effetti di
cui agli artt. 2221 cod. civ. e 1 L.F. -, anche l’artigiano che invochi
tale esenzione deve presentare detta caratteristica, e darne dimostrazione.
In contrasto con tale ricostruzione, tuttavia, la fattispecie di artigiano
che si ricava dalla legge 443/85 sopra richiamata sub “b)”, malgrado l’apparente
coincidenza letterale della definizione di cui all’art. 2, non richiede
affatto il ricorrere di detta prevalenza, ed anzi comprende nella nozione
le imprese che effettuano lavorazioni in serie, nonché quelle che,
particolarmente nel settore tessile, si avvalgono delle opere di numerosi
dipendenti. Ancor più evidente è l’incompatibilità
dell’artigiano di cui alla citata legge speciale, con il piccolo imprenditore
descritto, ormai solo in negativo, dall’art. 1 L.F.. Se infatti l’art.
3 della legge 443/85 consente che l’impresa artigiana sia costituita in
forma di società di persone (esclusa la S.a.s.) ovvero di cooperativa,
la disposizione fallimentare esclude testualmente che possano essere considerati
piccoli imprenditori le società commerciali, nel novero delle quali
sono tradizionalmente ricomprese le società in nome collettivo,
suscettibili di costituire impresa artigiana, oltre alle cooperative, che
peraltro soggiacciono a liquidazione coatta amministrativa.
Le proposte avanzate per ricondurre
a coerenza tale assetto normativo hanno seguito tre direttrici principali:
a) conciliare con mezzi argomentativi le diverse nozioni normative; b)
reputare le diverse nozioni indipendenti le une dalle altre e valevoli
ciascuna a fini specifici (quella codicistica e quella fallimentare al
fine di escludere l’applicabilità dello statuto dell’imprenditore
commerciale, quella della legge speciale ai fini amministrativi propri
della legislazione agevolativa regionale); c) considerare la nozione di
cui alla legge speciale come abrogativa in parte qua dell’art. 2083 cod.
civ. e dell’art. 1 L.F., ed unica fonte definitoria dell’impresa artigiana
a tutti gli effetti di legge, anche civilistici; d) considerare l’impresa
artigiana un tertium genus fra impresa commerciale ed impresa agricola,
e, in particolare, qualificare la società artigiana come società
civile (figura già contemplata nel codice abrogato) onde rendere
irrilevante la qualificazione della stessa in termini dimensionali (grande
o piccola) ai fini dell’applicabilità dello statuto dell’imprenditore
commerciale, senz’altro esclusa per difetto della natura commerciale di
tale impresa. La giurisprudenza, raccogliendo le diverse suggestioni provenienti
da tutte le proposte ricostruttive ricordate, ha conservato alla questione
una dimensione fortemente casistica, riconoscendo la sussistenza dell’impresa
artigiana in tutte quelle fattispecie in cui, a prescindere dall’iscrizione
dell’impresa all’albo di cui all’art. 5 L. 443/85, i volumi economico-contabili
dell’impresa relativi alle immobilizzazioni, al volume d’affari ed agli
imponibili ai fini dei tributi diretti, fossero modesti, tali da escludere
la ricorrenza di un profitto capitalistico vero e proprio. Ad ulteriore
temperamento, peraltro, si è talora interpretato il criterio della
prevalenza in termini non già quantitativi ma qualitativi, onde
riconoscere natura artigiana anche ad imprese che risultano fortemente
capitalizzate esclusivamente a causa di caratteristiche strutturali proprie
della produzione prescelta (cfr., sulla questione oggetto del provvedimento
in rassegna, Cass. sez I, 2 giugno 1995 n. 6221, Mass.).
La sentenza in commento non si
discosta dall’orientamento prevalente. Essa, richiamandosi a precedenti
di legittimità, esclude che possa adottarsi un concetto unitario
di impresa artigiana, valido tanto agli effetti fallimentari che civilistici,
e dà rilievo, ai fini del riconoscimento del privilegio di cui all’art.
2751 bis cod. civ., al criterio codicistico della prevalenza del lavoro,
specificando tuttavia che la sussistenza di tale requisito va verificata
sulla scorta delle indicazioni risultanti dalla legge di tutela dell’artigianato.
Con tale legge infatti, la norma di cui all’art. 2751 bis cod. civ., condivide
la ratio agevolativa del particolare settore economico a cui appartiene
l’impresa in questione. All’esito si esclude l’applicazione del privilegio
sulla scorta delle risultanze economico-contabili dell’impresa instante,
confermando la dominanza del criterio casistico sopra ricordato. Tale orientamento
presenta un apprezzabile contenuto di equità, consentendo di dare
rilievo ad aspetti di specie che potrebbero venir trascurati, anche quando
significativi, nell’applicazione di un criterio interpretativo più
generale ed astratto. Certamente, tuttavia, alla luce dei principi della
cosiddetta ‘analisi economica del diritto’, l’adozione di criteri non generalizzabili
incide sempre negativamente sull’iniziativa degli imprenditori, che, in
definitiva, non sono posti in grado di valutare pienamente i rischi connessi
a decisioni come quella, ad esempio, di concedere credito o dilazioni di
pagamento ad un soggetto fallibile, poiché il trattamento giuridico
dei loro interessi dipenderà da valutazioni di merito condotte caso
per caso.
Un’indicazione alternativa può
invece ricavarsi da un’interessante decisione del Giudice delle leggi (Corte
Cost. sentenza 23 luglio 1991 n. 368, in: Foro It. 1992, I, 2064, n. FABIANI),
che, avendo contenuto di sentenza interpretativa di rigetto, non modifica
l’ordinamento vigente, costituendo tuttavia precedente autorevole. La Corte,
chiamata a pronunciarsi circa la vessata questione dell’assoggettabilità
a fallimento delle società artigiane, ha respinto l’eccezione di
incostituzionalità sollevata dal Tribunale di Savona a carico dell’art.
1, 2° comma, L.F. in relazione all’art. 3 Cost., precisando che la
parte di tale disposizione che esclude le società commerciali dal
regime privilegiato di non fallibilità proprio del piccolo imprenditore,
non è applicabile alle società artigiane, per l’incompatibilità
che sussiste fra tale disposizione e quella di cui all’art. 3 della L.
443/85, cronologicamente successiva e prevalente sulla prima ai sensi dell’art.
15 disp. prel. cod. civ.. Ne consegue che l’impresa artigiana caduta in
istato di insolvenza, non può essere assoggettata a fallimento solo
perché costituita in forma societaria, dovendo anche in tal caso
operare il criterio dimensionale. Trattandosi di sentenza di rigetto essa
vincola il solo giudice remittente, tuttavia la soluzione adottata rafforza
la tesi dottrinale che ravvisa nella legge sull’artigianato l’unica fonte
regolatrice dell’impresa artigiana ad ogni effetto di legge, ovvero quella
che considera comunque l’impresa artigiana un genere a sé stante,
sebbene il tenore di alcune espressioni contenute nella motivazione riecheggi
il consueto criterio distintivo basato sull’assenza di profitto speculativo
(cfr. capo 3 della motivazione, in fine) e sebbene la Corte non rinunci
a ribadire che la fattispecie di impresa artigiana descritta dalla legge
speciale si inserisce in quella delineata dall’art. 2083 cod.civ..
Tribunale di Roma - Sez. fallimentare
- sent. 27 settembre 1997 - Pres. Grimaldi - Est. Grimaldi - Neartic s.r.l.
in liquidazione (avv. G. Iannotta) c/ A.S.A. s.r.l. (avv. V. Greco) e fall.
Neartic s.r.l. (contumace).
PROCEDIMENTO CIVILE - PROCURA NUOVO
DIFENSORE - FORMA - ATTO SEPARATO - VALIDITÀ (art. 15 L.F.; art.
83 cod. proc. civ.).
DICHIARAZIONE DI FALLIMENTO - PROCEDIMENTO
- COMPARIZIONE DELL’IMPRENDITORE - TERMINE NOTIFICA DE-CRETO FISSAZIONE
UDIENZA - PERENTORIETÀ - INSUSSISTENZA (art. 15 L.F.).
È valida la procura rilasciata
al nuovo difensore a margine della comparsa di costituzione, in quanto
la stessa può essere apposta anche su un’atto diverso da quelli
tassativamente elencati nell’art. 83 cod. proc. civ. [1]
Il termine fissato dal Giudice per
la notifica al debitore dell’istanza di fallimento e del decreto di convocazione
ha natura meramente ordinatoria. La mancata osservanza di esso rileva solo
se la notifica sia effettuata in tempi così ravvicinati da impedire
concretamente al debitore l’effettivo esercizio del diritto di difesa.
[2]
(omissis)
L’opponente ha eccepito l’irritualità
della costituzione in giudizio dell’avv. Vincenzo Greco in sostituzione
dell’avv. Gianni Gregori, quale procuratore della convenuta A.S.A. Aterno
Società Agraria s.r.l. non essendo il nuovo procuratore munito di
procura speciale autenticata da notaio.
L’eccezione è priva di fondamento.
Invero il Supremo Collegio ha ripetutamente
affermato il principio secondo cui in tema di procura alle liti la disciplina
stabilita dall’art. 83 cod. proc. civ. si applica solo per la nomina del
primo difensore; pertanto nel caso in cui nel corso del giudizio, venga
nominato un nuovo difensore in sostituzione di quello indicato nell’atto
introduttivo della lite, la procura può essere apposta anche su
un atto diverso da quelli tassativamente elencati nella citata norma. (Cass.
8.3.95 n.2697 e 25.5.91 n.5923). Pertanto deve ritenersi valida la procura
rilasciata dalla convenuta al nuovo procuratore, avv. Vincenzo Greco, a
margine dell’atto denominato “comparsa di costituzione di nuovo difensore”
e conseguentemente deve ritenersi processualmente valida la costituzione
del suddetto legale per la convenuta medesima.
(omissis)
Con il primo motivo dell’opposizione
l’opponente deduce la nullità dell’impugnata sentenza per violazione
del suo diritto di difesa garantito dall’art.15 della L.F. così
come modificato con sentenza della Corte Costituzionale, rilevando al riguardo,
che l’istanza di fallimento ed il pedissequo decreto con cui il Giudice
designato dal collegio disponeva la convocazione delle parti dinanzi a
sè e fissava la relativa udienza le furono notificati non nel termine
di almeno quaranta giorni prima dell’udienza medesima, come stabilito dal
Giudice anzidetto, bensì in un termine minore precisamente, solo
cinque giorni prima della data dell’udienza.
Rileva, altresì, l’opponente
che, nell’udienza stabilita, la richiesta di un rinvio per consentire la
sua costituzione e l’audizione del suo legale rappresentante, richiesta
formulata dal dr. Proc. Paolo Palmeri intervenuto in sostituzione del liquidatore
di essa opponente, era stata dal giudice designato respinta.
Invero, va rilevato, innanzitutto
che il termine che viene fissato dal Giudice designato all’istruttoria
prefallimentare per la notifica al debitore dell’istanza di fallimento
e del decreto di convocazione del debitore medesimo in apposita udienza
non ha carattere perentorio ma è un termine meramente ordinatorio,
cosicchè la non osservanza di esso non comporta alcuna decadenza
né alcuna invalidità della sentenza dichiarativa di fallimento
se non in quanto la notifica anzidetta sia effettuata in tempi così
ravvicinati rispetto alla data dell’udienza da impedire concretamente al
debitore l’effettivo esercizio del diritto di difesa il che nella fattispecie
in esame non si è verificato, considerato che la notifica alla società
opponente dell’istanza di fallimento proposta nei suoi confronti dalla
A.S.A. - Aterno Società Agraria s.r.l. nonchè del decreto
di convocazione dinanzi al giudice designato fu eseguita, come risulta
dall’esame del fascicolo relativo all’istruttoria prefallimentare, in data
25 maggio 1995 per l’udienza del 1 giugno 1995 e quindi in un termine che,
ancorchè inferiore a quello stabilito dal giudice, deve ritenersi
pur sempre congruo ai fini della possibilità di un adeguato esercizio
del diritto di difesa da parte della attuale opponente.
(omissis)
[1] Sulla procura al nuovo difensore
nominato durante il giudizio.
Per interpretazione costante la
procura speciale per la nomina di un nuovo difensore nel corso del giudizio
o in sostituzione di un altro, può essere effettuata anche su un
atto diverso da quelli indicati nel 3° comma dell’art. 83 cod. proc.
civ., purchè evidenzi inequivocabilmente la volontà della
parte di conferire la procura.
In tal senso, cfr. Cass. Civ.,
I Sez., 8 marzo 1995, n. 2697, in Giust. Civ. Mass., 1995, 542; Cass. Civ.,
II Sez., 25 maggio 1991, n. 5923, in Giust. Civ. Mass., 1991, fasc. 5;
Cass. Civ., III Sez., 4 dicembre 1991, n. 6438, in Giust. Civ. Mass., 1981,
fasc. 12.
Invero il principio richiamato
non sembra essere esente da critiche.
Deve ricordarsi come ai sensi del
2° comma dell’art. 83 cod. proc. civ., la procura alle liti vada conferita
con atto pubblico o con scrittura privata autenticata, e solo in quest’ultimo
caso al difensore è riconosciuto il potere di autenticare la firma.
La ratio di tale norma è
insita nello scopo pratico a cui la procura tende, che è quello
di consentire alla parte, priva dello ius postulandi, di stare in giudizio
attraverso il suo difensore.
Orbene, se da un lato è
innegabile che in tema di procura alle liti la disciplina stabilita dall’art
83, si applica solo per la nomina del primo difensore, è altrettanto
pacifico che nel nostro sistema giuridico all’avvocato difensore non è
dato un potere di certificazione generale, ma solo quello, eccezionale,
di autenticare la sottoscrizione della parte che a lui si affida, quando
la procura viene apposta in calce o a margine degli atti che la norma contenuta
nell’art. 83, 3° comma, specificamente menziona.
Si deduce da ciò che qualora
la procura alle liti sia contenuta in un atto diverso da quelli espressamente
richiamati dal 3° comma dell’art 83 cod. proc. civ. l’atto, se non
autenticato da notaio, si presenta ab origine privo della forza del documento
che fa piena prova fino a querela di falso, così come richiesto
dall’ordinamento vigente.
Alla luce di quest’ultimo principio,
nella fattispecie commentata, non sembra del tutto infondata la eccezione
di irritualità della costituzione proposta dal difensore dell’opponente
fondata sul fatto che il nuovo procuratore non era munito di procura speciale
autenticata da notaio.
Un chiarimento per la composizione
del problema affrontato in sentenza non viene neanche dalla recente legge
27 maggio 1997, n.141, che ha aggiunto al 3° comma dell’art. 83 la
seguente proposizione: “la procura si considera apposta in calce anche
se rilasciata su foglio separato che sia però materialmente congiunto
all’atto a cui si riferisce”.
Sembra chiaro che gli atti a cui
fa riferimento la nuova normativa sono quelli elencati nello stesso 3°
comma dell’art.83 cod. proc. civ.
Sul punto merita di essere segnalata
la posizione estrema sostenuta dalla dottrina maggioritaria che, in seno
al dibattito giuridico avviato con la riforma del 3° comma dell’art.
83 cod. proc. civ. (L. 27 maggio 1997, n. 141), ed a fronte della legislazione
di altri Paesi Comunitari e del processo che si svolge dinanzi alla Corte
di Giustizia della Comunità Europea, giunge ad auspicare la validità
della procura su foglio autonomo anche se non congiunta ad uno degli atti
elencati nell’art. 83, 3° comma (mandato presunto).
In tal senso, cfr. Cipriani, in
Foro it., 1997, I, 3152; De Luca, in Le nuove leggi civili commentate,
1997, 6, 1295; AA.VV., in Gius, Rassegna di Giurisprudenza Civile annotata,
pag. 2280; Acone, in Corriere Giuridico, 1997, 10, 1159.
[2] Non perentorietà del
termine per la notificazione al debitore del decreto di
convocazione
In tema di diritto di difesa
e dei termini che devono intercorrere tra la notifica del decreto di fissazione
dell’udienza prefallimentare e la discussione della stessa, si evidenzia
che la Corte Costituzionale con sentenza del 16 luglio 1970, n. 141 in
Dir. fall. 1970, II, 601, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale
dell’art. 15, nella parte in cui esso non prevede l’obbligo per il Tribunale
Fallimentare di disporre la comparizione dell’imprenditore in camera di
consiglio per l’esercizio del diritto di difesa nei limiti compatibili
con la natura di tale procedimento.
A fronte di tale principio l’istruttoria
prefallimentare postula che il debitore venga preventivamente convocato
e messo in grado di svolgere le opportune difese, ma non anche che il debitore
stesso, dopo tale convocazione, sia tenuto al corrente delle ulteriori
circostanze che emergano nel corso della procedura, essendo suo onere di
seguirne gli sviluppi per tutelare i propri diritti.
In sostanza, il diritto di difesa
del debitore nella fase anteriore alla dichiarazione di fallimento, può
ritenersi assicurato ogni volta che lo stesso sia stato posto in condizione
di conoscere e contrastare, personalmente, con memorie e con altri mezzi,
le ragioni poste dai creditori a sostegno dell’istanza di fallimento.
In merito alla necessità
in sede prefallimentare di una effettiva audizione dell’imprenditore in
camera di consiglio, con la concessione di un termine per la sua comparizione,
si segnala che in giurisprudenza si è consolidato il principio tendente
a contemperare le esigenze del diritto di difesa dell’imprenditore costituzionalmente
tutelato, con le esigenze di urgenza e tempestività della dichiarazione
di fallimento.
Per tali motivi la Corte di cassazione,
in merito al tempo che deve intercorrere tra l’avviso e l’udienza, preso
atto che la normativa vigente nulla dice a tal proposito, ha disposto che
la congruità, del termine necessario a garantire il diritto di difesa,
va valutata caso per caso, ritenendo che l’obbligo di convocazione non
deve essere esasperato al punto da subire una rigida formalizzazione, ma
è sufficiente che il debitore sia stato posto in condizione di conoscere
e contraddire i motivi che possono portare alla dichiarazione di fallimento.
Sul punto cfr. Cass. Civ. I sez,
4 agosto 1988 n. 4824, in Il fallimento, 1989, 1, 13; Cass. Civ. I Sez.,
4 agosto 1988, n. 4827, in Il fallimento, 1989, 1, 15; Cass. Civ. I Sez.,
9 febbraio 1987, n.1380, in Il fallimento, 1987, 7, 752.
Per l’applicazione pratica di tale
principio, oltre alla sentenza in commento, cfr. Trib. Napoli, 24 febbraio
1997, in Il fallimento, 1997, 8, 853; Trib. Torino, 29 agosto 1994, in
Il fallimento, 1995, 1, 99; Trib. Roma, 14 febbraio 1995, in Il fallimento,
1995, 11, 1158; Trib. Bologna, 14 maggio 1986, in Il fallimento, 1987,
4, 422; Trib. Modena, 3 settembre 1985, in Il fallimento, 1986, 2, 229;
Trib. Milano, 7 ottobre 1985, in Il fallimento, 1986, 2, 229.
d•i • g•i•a•n•f•r•a•n•c•o • t•o•r•i•n•o
Tribunale di Roma - Sez. fallimentare
- sent. 10 novembre 1997 - Pres. Grimaldi - Est. Grimaldi - Rivera Andrea
(avv. R. Galli) c/ fall. FMN di Liliana Meschini & C. e altri (contumaci).
DICHIARAZIONE DI FALLIMENTO - PROCEDIMENTO
- COMPARIZIONE DELL’IMPRENDITORE - DIRITTO DI DIFESA - MORTE DEL LEGALE
RAPPRESENTANTE DI SOCIETÀ DI PERSONE - RILEVANZA - NECESSITÀ
NOMINA CURATORE SPECIALE - (art. 15 L.F., art. 78 cod. proc. civ.).
Qualora dopo la notifica dell’istanza
di fallimento e del pedissequo decreto di fissazione dell’udienza prefallimentare,
morisse il legale rappresentante della società debitrice, è
necessario promuovere la nomina di un curatore speciale ex art. 78 cod.
proc. civ. non potendosi in difetto dichiarare il fallimento della società.
[1]
(omissis)
Dall’esame degli atti del fascicolo
d’ufficio relativo alla fase dell’istruttoria prefallimentare, risulta
che, sebbene l’istanza di fallimento proposta dalla Ceramiche Musa ed il
pedissequo decreto di fissazione dell’udienza di comparizione delle parti
dinanzi al giudice designato fosse stata ritualmente notificata alla legale
rappresentante della società fallenda, Meschini Liliana, nell’udienza
del 21 aprile 1994, fissata per l’audizione la medesima non potè
comparire per esercitare il diritto di difesa, essendo nelle more deceduta,
come lo stesso procuratore della creditrice ebbe a rendere noto nell’udienza
anzidetta. In tale situazione, al fine di osservare il precetto di cui
all’art. 15 della L.F. come modificato dalla menzionata sentenza della
Corte Costituzionale, sarebbe stato necessario promuovere la nomina di
un curatore speciale ex art. 78 cod. proc. civ., onde consentire alla società
fallenda, rimasta priva di legale rappresentante a seguito del decesso
di Meschini Liliana, la quale in base a specifica clausola dell’atto costitutivo
della società (art.7: cfr. Doc. n.6 del fascicolo dell’opponente)
era l’unica socia alla quale era stata conferita l’amministrazione e la
legale rappresentanza della società, di comparire, appunto attraverso
il curatore speciale, nell’udienza e di esercitare ivi il diritto di difesa
in ordine alle istanze di fallimento nei suoi confronti proposte.
(omissis)
[1] Sulla morte del legale rappresentante
della società di persone in pendenza della convocazione in camera
di consiglio
Non risultano precedenti specifici
con riferimento alla morte del legale rappresentante di società
di persone. La tesi prospettata dall’organo giudicante nella situazione
di specie è da condividere in toto.
Infatti la impossibilità
di difendersi in sede prefallimentare è dipesa esclusivamente da
eventi naturali e non da comportamenti negligenti e/o dilatori tenuti dal
debitore. In più va aggiunto che le norme del cod. civ. che dettano
la disciplina per le società semplici non prevedono, a differenza
delle società di capitali, dei meccanismi che assicurino la continuazione
della rappresentanza giuridica della società, nei casi in cui viene
meno il rappresentante legale.
Rebus sic stantibus, nella situzione
di specie, per garantire il diritto di difesa della società fallenda
sarebbe stata necessaria la nomina di un curatore speciale ex art. 78 cod.
proc. civ..
Si segnala che per le società
di capitali la giurisprudenza è giunta a conclusioni opposte rispetto
a quella a cui è pervenuto l’organo giudicante nella fattipecie
commentata, stabilendo che la morte del legale rappresentante della società
non è causa di sospensione o di interruzione di istruttoria prefallimentare.
In tal senso cfr. Trib. Roma, 15
giugno 1985, in Dir. fall., 1986, II, 426; Trib. Roma, 18 febbraio 1984,
in Dir. fall., II, 619.
La ratio di tale diversa soluzione,
è rinvenuta nel dettato dell’ art. 2386, 6° comma, cod. civ.,
che prevede, per il caso di cessazione dell’amministratore unico, l’obbligo
della convocazione dell’assemblea di urgenza da parte del collegio sindacale
il quale può compiere nel frattempo gli atti di ordinaria amministrazione
(cfr. Trib. Milano, 3 ottobre 1974, in Dir. Fall., 1975, II, 77; Trib.
Frosinone, 27 maggio 1968, in Giur. Mer., 1969, I, 314).
In sostanza per le società
di capitali è necessario convocare ritualmente la società
debitrice e, una volta assicurata e rispettata tale garanzia difensiva,
non va disposta una nuova convocazione, quale che sia la vicenda giuridica
della persona fisica del legale rappresentante, in quanto la vacanza dell’organo
della persona giuridica non può incidere sullo svolgimento del procedimento
in corso e, comunque, la rappresentanza della persona giuridica è
assicurata dai meccanismi disposti dall’ordinamento vigente.
d•i • g•i•a•n•f•r•a•n•c•o • t•o•r•i•n•o
Tribunale di Roma - Sez. Fallimentare
- sent. 27 settembre 1997 - Pres. Briasco - Est. Baccarini - CARIVIT Cassa
di Risparmio della Provincia di Viterbo S.p.a.
c/ Fall. GLS 89 S.r.l.
INTERESSI - INTERESSI ULTRALEGALI
- CONTRATTO DI CONTO CORRENTE BANCARIO - RIFERIMENTO ALLE CONDIZIONI DI
PIAZZA - INSUFFICIENZA. (art. 1284 cod. civ.)
Non può essere ritenuta valida,
per violazione dell’art. 1284, 3° comma, cod. civ., la clausola che
lasci la variazione del tasso d’interesse alla discrezionalità della
parte contraente dominante, anche se riferendola alle variazioni di mercato,
perché l’approvazione per iscritto di interessi superiori a quelli
legali non può prescindere dalla loro esatta individuazione, in
via oggettiva, con quantificazione precisa o riferimento a criteri ugualmente
precisi, verificabili da chiunque[1].
(omissis)
Motivi della decisione
La ricorrente censura, altresì,
la esclusione del credito relativo agli interessi di mora maturati sulle
somme relative al c/c ....
(omissis)
Come noto, la Cassazione con costante
giurisprudenza ha ritenuto necessario e sufficiente che nel contratto di
c/c siano indicati “criteri certi e oggettivi che consentano la concreta
quantificazione del tasso di interesse, ancorché ciò avvenga
per relationem, mediante il richiamo ad elementi estranei al documento
stesso”, ritenendo rispettoso di simili requisiti proprio il richiamo “alle
condizioni praticate usualmente dalle aziende di credito sulla piazza”
(così, in termini, Sez. I, n. 1112 del 14/02/84, CED n. 433250).
Peraltro, questa giurisprudenza
poggia sul presupposto che le condizioni suindicate “vengano fissate su
scala nazionale con accordi di cartello per modo che il rinvio al tasso
usuale vale ad ancorare la misura degli interessi a fatti oggettivi, certi
e di agevole riscontro, non influenzabili dal singolo istituto bancario”
(come sempre in termini prosegue la citata sentenza n. 1112/84; si vedano
anche: Sez. I, n. 8335 del 12/11/87, CED 455906; Sez. I, n. 6554 del 3/12/88,
CED 460866; Sez. I, n. 2644 del 30/05/89, CED 462940; Sez. I, n. 2765 del
7/03/92, CED 476114; Sez. III, n. 1110 del 3/02/94, CED 485203; Sez. II,
n. 6113 del 25/06/94, CED 487196; Sez. I, n. 9227 del 01/09/95, CED 493852;
App. Milano del 11/04/86, in Banca Borsa e Titoli di Credito, 1987, 605,
che fa espresso e univoco collegamento tra il rinvio alle condizioni su
piazza e i tassi ABI; Trib. Milano del 11/01/90, in Diritto della Banca
e del mercato finanziario, 1991, 148). Solo così può parlarsi
di “elementi estrinseci, obiettivamente e sicuramente individuabili”, la
cui pubblicità è assicurata a mezzo di pubblicazione nei
bollettini delle banche e nei giornali quotidiani” (come dice Sez. I, n.
2521 del 9/04/83, CED 427385).
È significativo e chiarificatore
che la Cassazione abbia invece ritenuto non valido un generico riferimento
agli “usi bancari”, rilevando “che non esiste alcuna documentazione ufficiale
degli usi in tema di interessi e che non risulta che le banche pratichino
tassi di interesse uguali” per cui simile indicazione è invalida
in quanto non permetterebbe “la sicura determinabilità del tasso
di interesse” (Sez. I, n. 2262 del 9/04/84, CED 434310 e 434307; si veda
anche Trib. Roma del 27/06/87, in Nuovo Diritto, 1988, 64).
(omissis)
In altre parole, la S.C. ritiene
ammissibile il riferimento ad elementi oggettivi e certi, ancorché
esterni al contratto, noti o facilmente conoscibili e riscontrabili; simili
clausole infatti, per quanto onerose, sono consapevolmente accettate dal
correntista.
(omissis)
Quindi la Cassazione ha espressamente
ritenuto ammissibili formule come quella qui in esame unicamente per la
certezza che simile dizione indica che il saggio degli interessi viene
ancorato a condizioni fissate su scala nazionale, certe ed oggettive, riscontrabili
da chiunque, facilmente conoscibili.
(omissis)
Quanto sopra comporta la necessità
di verificare in concreto come il criterio di determinazione del saggio
di interesse indicato in contratto sia stato inteso e applicato dall’istituto.
Infatti è notorio come gli
istituti bancari applichino saggi di interesse estremamente differenziati,
tra istituto e istituto e persino nell’ambito della stessa banca in relazione
al singolo cliente. Come pure lo è che varino il saggio di interesse
in base a plurimi criteri, tra cui il tasso nazionale indicato è
solamente uno dei tanti.
(omissis)
Infatti, è significativo
che quella parte della giurisprudenza di merito che perviene alla dichiarazione
di nullità delle clausole che approvano interessi ultralegali con
riferimento alle condizioni usualmente praticate su piazza, non contesta
i principi di diritto sanciti dalla Suprema Corte, ma si basa su una differente
constatazione della realtà creditizia. Secondo questi giudici di
merito, infatti, non esiste alcuna pubblicazione ufficiale che certifichi
tali condizioni “usuali”, ne sussiste un unico tasso uniformemente applicato
dagli istituti per tutta la clientela (così in termini, Trib. Napoli
del 25/03/94, in Giur. Comm., 1995, 446; identiche conclusioni per Trib.
Genova del 09/5/89, in Giur. Civ. Comm., 1990, 62; Trib. Macerata del 17/08/89,
in Diritto della banca e del mercato finanziario, 1991, 148; App. Milano
del 31/01/92, in Banca Borsa e Titoli, 1992, 550; Trib. Milano del 24/02/92,
in Banca Borsa e Titoli, 1992, 550; Trib. Pavia dell’1/10/93 in Giur. Comm.,
1995, 446).
(omissis)
In definitiva, tanto secondo la
Cassazione che secondo la giurisprudenza di merito, la formula che indica
il saggio di interesse con riferimento a criteri esterni avrà valore
solo se ed in quanto lo stesso venga determinato con precisa applicazione
di condizioni generali, indicate in sede nazionale, non influenzabili dal
singolo istituto e facilmente conoscibili da chiunque così da consentire
al correntista di verificare le variazioni (in termini, si rimanda ancora
a Sez. I, n. 2644 del 30.05.89, CED 462940). Ove questo non risulti verificato,
non sarà dimostrata la ammissibilità della clausola e, quindi,
gli interessi saranno dovuti nella minor misura di legge.
(omissis)
Ancora sulla illeggittimità
della pattuizione di interssi ultralegali con riferimento alle condizioni
bancarie su piazza.
È noto, in materia di interessi
bancari, l’alternarsi in giurisprudenza di pronunce che, numericamente,
propendono per la validità dei tassi ultralegali stabiliti con rinvio
agli usi uniformi.
La sentenza in esame[1] emessa
in fattispecie relativa a contratto anteriore alla entrata in vigore della
l. 7 febbraio 1992. 4. 154, è da segnalarsi perchè evidenzia
l’accentuarsi di una tendenza che, propendendo per la massima chiarezza
dei rapporti bancari, tanto diffusi quanto assai spesso confusi, giudica
radicalmente nulla la clausola in discorso e conferma una singolare frattura
tra giurisprudenza di merito e giurisprudenza di legittimità.
La tesi abitualmente sostenuta
dagli istituti di credito si richiama ad una giuris-prudenza del Supremo
Collegio che, a partire dalla sentenza n. 3028 del 30/06/78, ha ripetutamente
riconosciuto la congruità della motivazione dei giudici di merito
che avevano ritenuto il mero riferimento alle condizioni “di piazza” sufficiente
a determinare, in modo non equivoco, l’ammontare del tasso degli interessi
ultra-legali.
Tale tesi può essere esaustivamente
rappresentata dalla seguente massima: “In tema di pattuizioni di interessi
superiori alla misura legale, per i quali l’art. 1284, 3° comma cod.
civ. richiede la forma scritta ad substantiam sono valide, in base ai principi
generali sulla determinazione o determinabilità dell’oggetto del
contratto, le clausole negoziali che fissino gli interessi dei conti correnti
di corrispondenza con riferimento alle condizioni praticate usualmente
dalle aziende di credito sulla piazza, trattandosi di un criterio di determinabilità
oggettivo, certo e di agevole riscontro. Infatti, i tassi attivi praticati
dalle aziende di credito sono fissati su scala nazionale con accordi di
cartello, non influenzabili dal singolo istituto bancario, ed il correntista
è in grado di sapere, usando l’ordinaria diligenza, che gli interessi
sono variabili nel tempo, nonchè di verificarne l’andamento”.[2]
In tale contesto giurisprudenziale
è tuttavia presto affiorato il problema, d’ordine pratico e reale,
consistente nella capacità del riferimento contrattuale alle norme
bancarie uniformi di ottemperare, sia pure per relationem, al disposto
dell’art. 1284, 3° comma cod. civ.
La dottrina prima e la giurisprudenza
di merito successivamente, sembrano uniformemente orientarsi, con argomentazioni
sempre più convincenti, nel senso della soluzione negativa.[3]
Si è infatti prepotentemente
e sempre più frequentemente posto il quesito se esista e -nel caso
sia possibile rispondere affermativamente- quale sia in Italia il tasso
effettivo di interesse sugli scoperti di conto corrente “praticato usualmente
dalle aziende di credito sulla piazza” ai propri clienti a norma dell’art.
7, 3° comma, Norme Uniforme Bancarie.
La risposta, per certi versi sbalorditiva,
è che, in realtà, nessuno lo sa ...!
Nessuno sa, in effetti, né
quale sia l’esatto ammontare del tasso degli interessi bancari, né,
tantomeno, il criterio della sua determinazione.
Il problema appare, ictu oculi,
notevolmente rilevante, dato che incide sulla validità o meno della
- nota - clausola contenuta nei contratti di conto corrente bancario, che
determina gli interessi dovuti dal correntista. L’oggetto di questa pattuizione
potrà infatti considerarsi determinato o determinabile, ai sensi
dell’art. 1346 cod. civ., in quanto il tasso di riferimento possa essere
stabilito in modo univoco e come frutto di una valutazione oggettiva capace
di consentire alle parti, ed in particolare al cliente, di conoscere, già
al momento della stipulazione del contratto e, successivamente, nel corso
del rapporto, l’esatto ammontare della propria obbligazione, così
come richiesto dalla giurisprudenza più sopra citata.
In proposito il Tribunale di Genova,[4]
ha ritenuto nozione di comune esperienza, esplicitamente ammessa dalla
stessa banca in quel giudizio, che: “I tassi applicati sono variabili in
relazione a logiche di mercato, le quali comportano diversità di
comportamento tra i diversi istituti di credito ed in relazione alla qualità
soggettiva dei debitori” giungendo quindi a negare l’esistenza di un “uso
bancario idoneo a integrare validamente la pattuizione degli interessi
ultralegali”.
Il Tribunale di Roma[5], già
chiamato a decidere sulla medesima questione, ha a suo tempo ritenuto necessario
rivolgersi alla Banca d’Italia per ottenerne informazioni in ordine “ai
tassi attivi sugli scoperti di conto corrente applicati dagli istituti
di credito nel periodo 1 gennaio 1976 - 31 dicembre 1984”. Ebbene a tale
richiesta, si narra in motivazione: “ ... la Banca d’Italia ha risposto
trasmettendo alcune tabelle, desunte dal Bollettino del suo servizio studi,
relative ai tassi medi, i quali, com’è ovvio, sono ben diversi dai
tassi più frequentemente praticati. Peraltro, la stessa rilevazione
dei tassi medi mostra chiaramente l’inesistenza di un attendibile tasso
d’uso, diverso da un tasso rimesso alla discrezionalità degli istituti
di credito, pur nell’ambito di elastici parametri offerti dal mercato.
In tali condizioni è evidente che non esiste affatto un tasso d’uso
(e non medio) rilevabile ex post, ma solo una fascia di tassi, compresi
probabilmente tra il prime rate ed il top rate, nella quale gli istituti
di credito si muovono con assoluta discrezionalità” inducendo così
il Tribunale capitolino a dichiarare la nullità della clausola del
contratto di conto corrente che fa riferimento, per la determinazione degli
interessi dovuti dal correntista alla banca, “alle condizioni usualmente
praticate dalle aziende sulla piazza”.
Appare evidente, pertanto, che
se esistono due limiti di interessi ultralegali (uno favorevole ed uno
sfavorevole al correntista) ogni rapporto può collocarsi, a discrezione
della banca, nell’ambito di quest’arco, ed è proprio l’impossibilità
di individuare a priori l’esatto tasso di volta in volta praticato a rendere
indeterminato l’oggetto della pattuizione sul saggio degli interessi.
L’inattendibilità della
giurisprudenza dominante è desumibile dalle indicazioni che lo stesso
sistema bancario, tramite l’ABI (Associazione Bancaria Italiana) ha fornito
alla Commissione delle Comunità Europee nel corso di una procedura
a norma dell’art. 85 del trattato CEE[6] e così sinteticamente riassumibile:
1) quanto ai tassi attivi, dal 1970 le banche non sono state più
vincolate dagli accordi di cartello interbancario; 2) dal 01/05/75 il comitato
esecutivo dell’ABI provvede a dichiarare il prime rate, ma tale indicazione
non vincola le banche che mantengono la facoltà di scaglionare i
livelli dei loro tassi; 3) dal febbraio 1983 il carattere indicativo del
prime rate è stato formalmente confermato nel senso che la determinazione
dei tassi attivi è competenza delle banche e l’ABI si limita a dare
le indicazioni statistiche sul prime rate medio nel sistema bancario.
Il fenomeno è ancor più
evidente se si prendono in considerazione gli stessi dati della Banca d’Italia
disaggregati su base regionale. In tal modo emerge che per la medesima
operazione vengono applicati tassi d’interesse, anche qui in media, che
variano di diversi punti percentuali in più o in meno a seconda
della collocazione geografica della piazza nella quale l’operazione viene
realizzata.
Si aggiunga, come di comune esperienza,
la differenza dei tassi che nascono e si spiegano in ragione delle condizioni
soggettive del cliente e delle caratteristiche dell’operazione di finanziamento
di volta in volta presa in considerazione, per rendere ancor più
manifesta l’impossibilità di ricavare nel modo esatto richiesto
dall’art. 1284, 3° comma, cod. civ., la misura degli interessi “praticati
usualmente dalle aziende di credito sulla piazza”.
Appurato che l’ammontare del saggio
degli interessi rientra in una fascia di valori costituito, al livello
inferiore, dal miglior prime rate, ed a quello superiore dal top rate o
più alto, si deve quindi rilevare non solo che non è dato
di conoscere esattamente il valore minimo ed il valore massimo di questa
scala, essendo noti solo i valori medi, ma, soprattutto, che manca ogni
criterio oggettivo che consenta di definire, all’interno di questa fascia,
il tasso in concreto applicato in modo aprioristico.
In definitiva è da escludersi
che l’obbligo della forma ad substantiam sia assolto dal rinvio meramente
generico all’insieme di disposizioni contenute in un altro testo predisposto
unilateralmente, in cui si fa rinvio a sua volta non ad una misura quantitativa
fissata con precisione, ma alle contingenti e mutevoli pratiche “usualmente”
coniazioni dalle aziende di credito.
L’elemento de relato verrebbe dunque,
in questo caso, determinato attraverso una clausola di relatio ad un’altra
clausola di relatio, entrambe per lo più generiche nel precetto
e non direttamente determinanti la misura concreta degli interessi dovuti.
Deve concludersi, pertanto, che
non esiste un uso bancario idoneo ad integrare validamente la clausola
di pattuizione degli interessi ultralegali nel suo aspetto formale, sicché
appare ancora estremamente attuale l’osservazione di chi (Bruno Inzitari,
in nota 3), con certa ironia, rammentava il seguente “brano di un remoto
ma significativo legislatore ...: L’obbligo imposto al mutuante, che stipula
gli interessi, di consegnare la pattuizione in un atto scritto, equivale
a un appello alla pubblica opinione ed esercita la più efficace
influenza sul pudore del mutuante, il quale non oserebbe sfidare con cinico
coraggio la pubblica riprovazione che colpisce l’usuriere”.
Col riportare alla memoria tale
sbiadito monito, contenuto nella relazione ministeriale dal codice civile
del 1865, l’Autore efficacemente evidenziava come, ad oltre un secolo di
distanza, la cruda realtà economica contemporanea sembra avere del
tutto dimenticato i moralistici ammonimenti del legislatore ottocentesco,
ed il richiamo al controllo della pubblica opinione sul pudore del mutuante
che contratta una misura ultralegale degli interessi, appare certamente
come un obsoleto ed assai ingenuo appello a favore di colui che, nel linguaggio
giuridico odierno, viene eufemisticamente definito contraente debole.
[1] V. recentemente, stesso Giudice:
Trib. Roma, Sez. Fall., 07/04/97. Pres. Briasco, Est. Baccarini, Cassa
di Risparmio Provincia delle Provincie Lombarde S.p.a. c./ Fall. Siderurgico
Flaminio.
[2] Cass. 30/05/89, n.2644, in Giust.
Civ., 1989, I, p. 2034, con nota di Maria Costanza; conf.; Cass. 20/06/78,
n.3028 cit.; Cass. 09/04/83, n.2521; Cass. 14/02/84, n.1112; Cass. 28/05/84,
n.3252; Cass. 12/11/87, n. 8335; Cass. 03/12/80, n.6554; Cass. 20/08/92,
n.9719, in Foro It., 1993, 2714.
[3] Per la tesi dell’invalidità
si sono espressi: Librando “In tema di interessi bancari convenzionali,
in Foro Padano, 1978, I, 203; Inzitari “Limiti all’ammissibilità
della relatio nella determinazione per iscritto degli interessi ultralegali”
in Giur. it., 1984, II, pag. 501 ss.; Quadri, “Le obbligazioni pecuniarie”
in Tratt. Dir. Priv. diretto da Rescigno, 9° Ed. Torino, 1984, pag.
566; Perlingieri, “Forma dei negozi e formalismo degli interpreti”, Napoli,
1987, p. 71 ss; A. Nigro “Inte-ressi ultralegali e condizioni praticate
usualmente dalle aziende di credito sulla piazza” in Dir. banca, 1988,
I, p. 528 ss; Costanza, “Norme bancarie uniformi e derogabilità
degli artt. 1283 e 1284”, in Giust. Civ. 1989, I, p. 2037 ss.. In giurisprudenza:
App. Na-poli, 10/03/82, in Banca Borsa e Titoli di Credito, 1983, II, p.
187; Trib. Roma 27/06/87, in Giust. Civ., I°, 2994 (v. anche nota 5);
Trib. Roma, 15/05/89, inedita ma massimata in Fallimento, 1989, p. 1279;
Cass. 09/04/84, n.2262, confermativa della citata App. Napoli 10/03/82,
la quale, pur ammettendo la possibilità di determinare per relationem
un tasso ultralegale di interessi, ha ritenuto esauriente la motivazione
del giudice di merito che aveva appunto affermato l’insufficienza, al riguardo,
del riferimento agli usi bancari, rilevando che non esiste alcuna documentazione
ufficiale degli usi bancari in tema di interessi e che non risulta che
le banche pratichino tassi di interessi uguali); ed ancora Cass. 21/12/87,
n. 9518 che ha cassato la decisione dei giudici del merito che avevano
ritenuto sufficiente l’espressione “tasso bancario” adoperato nelle pattuizioni
tra le parti senza considerare che la sua genericità non consentiva
la concreta individuazione o determinabilità del tasso di interesse
pattuito. Da ultimo, Cass. 09/12/97 n.12456 - che sembra determinare una
inversione di tendenza della giurisprudenza di legittimità, propendendo,
infine, verso la nullità della clausola de qua- secondo la quale:
“Il riferimento contenuto in un contratto bancario alle “condizioni praticate
normalmente dalle aziende di credito su piazza” è da considerarsi
sufficiente solo ove esistano vincolanti discipline del saggio fissate
su scala nazionale con accordi di cartello e non già ove quegli
accordi contengano diverse tipologie di tassi o, addirittura, non costituiscano
più un parametro centralizzato e vincolante, im-ponendosi, in quest’ultimo
caso, l’accertamento in concreto del grado di univocità della fonte
richiamata, per stabilire a quale previsione le parti abbiano potuto effettivamente
riferirsi”.
[4] Trib. Genova, 09/05/89, in Banca
Borsa etc., 1991, II, p. 198 e ss., con nota di Gustavo Olivieri.
[5] Trib. Roma, 27/06/87, B.N.L.
c./ Fall. OR.VEND., Pres. Castaldi, rel. Di Amato, in Temi Romana, con
nota dell’Avv. Maurizio Calò, pubblicata anche -con data 05/03/87-
in Giust. Civ. 1988, I, p. 534, con nota di Santosuosso: “Clausola determinativa
degli interessi nei contratti di conto corrente bancario”, e in Riv. Dir.
Comm. 1988, II, p. 270, nonchè -con data 22/06/87- in Foro It.,
1988, I, c.1720.
[6] In Banca Borsa etc., 1988, II,
p. 190, con osservazioni di Olivieri.
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