g•i•u•r•i•s•p•r•u•d•e•n•z•a
r•o•m•a•n•a
 
Tribunale di Roma - sez. fall. - decr. 14 novembre 1997 - Pres. Briasco - Est. Baccarini - ric. Spa S.A.I.N. Società Appalti Internazionali in liquidazione (avv. L. Manzi)

CONCORDATO PREVENTIVO - CON CESSIONE DEI BENI - VALORE DEL PATRIMONIO - PROVA - ONERE DEL RICORRENTE (Art. 160 L.F.)
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Il proponente un concordato preventivo è tenuto, in sede di proposizione della domanda anche ai sensi dell’art. 2697 cod. civ., a provare l’esistenza di tutti i presupposti oggettivi e soggettivi di cui all’art. 160, 2° comma, L.F. Nel caso di concordato preventivo con cessione dei beni, qualora tra questi vengano ricompresi dei crediti, il proponente è tenuto a dimostrarne l’esistenza, la esigibilità e la consistenza.
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(omissis…)
La consistenza patrimoniale dei beni offerti dalla società risulta nel caso connotata da una grave carenza documentale e logica degli elementi di valutazione portati all’esame del Tribunale: carenza che si traduce in mancanza di elementi di prova positiva.
Circa il patrimonio vantato dalla sain, la società indica, anzitutto, crediti verso i committenti, soprattutto enti pubblici, indicati nella situazione patrimoniale al 31.5.97 per un valore di lire 43 miliardi circa, oltre ad altre lire 11 miliardi complessive per crediti verso società collegate-controllate e crediti vari. In altra parte (f. 10) la sain deduce di avere crediti vari per lire 87 miliardi ma che, essendo in corso o comunque prevedibile un contenzioso, prevede un incasso pari al 75% di tale valore, per totali lire 65.105 milioni.
Mancano elementi per ogni valutazione: non viene nemmeno enunciato in base a quale criterio si possano ritenere i crediti realizzabili al 100% o al 75% o in qualsiasi altra percentuale. Non viene indicato alcun elemento giustificante i criteri di svalutazione, né la necessaria documentazione per dimostrare la esistenza effettiva dei crediti (diversi dei quali sono sub iudicio e per altri la stessa sain prevede un esito contezioso).
È evidente come il Tribunale non possa limitarsi a prendere per buona la affer-mazione, non provata e non giustificata, di qualsivoglia parte. Del pari sarà evidente come, dovendosi verificare con la massima esattezza possibile la reale sussitenza del patrimonio societario, non ci si possa acquietare con semplici affermazioni di stima teorica sganciate da ogni indicazione di riscontro.
Nemmeno sono indicati i tempi di definizione del contenzioso, che possono essere anche assai lunghi, anni e anni e che presumibilmente andrebbero assai oltre i sei mesi dalla omologazione del C.P., con il noto obbligo conseguente di pagare anche gli interessi legali sui crediti nella misura concordataria non ancora soddisfatti. Si noti che tutti gli enti pubblici, dopo il giudizio arbitrale, adiranno prevedibilmente il giudice d’appello e la Cassazione, come già sta avvenendo. Mancano, infine, indicazioni sulle ragioni analitiche del contenzioso (a parte un gruppo di lodi arbitrali depositati, relativi solo a una minor parte delle vicende).
In atti non sussistono elementi per verificare la effettiva esigibilità dei crediti vantati. La sain si limita alla affermazione che, trattandosi (in gran parte) di crediti verso enti pubblici, gli stessi sono sicuramente solventi. Ma non spiega in modo analitico se tali crediti siano pacifici o contestati, se per lavori già eseguiti o in corso di opera (quindi, con costi di realizzazione), se siano stati in parte già scontati o impegnati presso istituti di credito. Tale totale omissione rende, di fatto, impossibile una esatta valutazione del presunto patrimonio di crediti della sain, principale bene offerto dalla stessa per pagare i propri creditori. Né è ammissibile che una società di tali dimensioni non sia in grado di operare precisa e dettagliata specificazione di tali voci al momento della richiesta del concordato. In pratica, la offerta dei beni della sain è assolutamente oscura, così che il tribunale potrebbe optare solo tra tali due scelte: o accettarla per buona e ritenere esistente un credito per decine di miliardi, ancorché non subito esigibile; oppure chiedere una specifica per la quale potrebbero occorrere mesi (si deve presumere che non sia pronta, altrimenti non ci sarebbe ragione per non averla allegata), tempo nel quale ogni istanza di fallimento resterebbe sospesa e le operazioni contestate da sindaci e dal PM e varie cessioni di beni risultanti in atti supererebbero il termine annuale.
Al contrario, sembra adeguato ritenere che sia onere della società provare la consistenza del proprio patrimonio, sin dal momento della richiesta di concordato. Cosa qui non realizzata in modo adeguato, come detto.
Questa, del resto, non solo è la previsione della norma, ma è l’interpretazione costante della giurisprudenza, per la quale la valutazione dei beni ceduti nel concordato “non deve muovere da mere congetture o da ipotesi arbitrarie e più o meno ottimistiche, ma deve poggiare su elementi seri e concreti, capaci di far sorgere la fondata opinione, intesa quasi come certezza, che, in base all’id quod plerumque accidit la liquidazione dei beni stessi fornirà i mezzi necessari per il predetto soddisfacimento” (così Cass. Sez. I, 28.7.89, n. 3527, riportata in modo adesivo da Pajardi, Codice del fallimento, p. 725, Cedam, 1996; Trib. Sassari, 8.8.85 in Il diritto fallimentare, 1985, p. 824; Cass. 9.4.88, n. 2809, in Il fallimento 1988, 582, CED 463508; Cass. 20.11.73 n. 3128, in Giust. Civ. Mass. 1973, 1629; Cass. Sez. I, n. 3936 del 13.12.69, CED 344352; Cass. Sez. I, n. 9580 del 17.9.93, CED 4837817. Accertamento che deve essere talmente specifico, sin dal momento della ammissione, da estendersi alla verifica dell’effettivo valore commerciale del bene, discostandosi da una valutazione meramente astratta per giungere al valore “concretamente realizzabile” per la azienda, “non escluse le offerte di acquisto pervenute” (Trib. Piacenza, 13.6.89, in Il fallimento, 1989, 1059); sempre al fine di giungere non alla semplice possibilità ma alla “quasi certezza” della sufficienza dei beni ceduti.
La giurisprudenza è costante nel ritenere che il requisito patrimoniale debba venire valutato dal Collegio con tale scrupolo da raggiungere la “quasi certezza” della sufficienza dei beni a soddisfare l’onere concordatario, ovviamente con riferimento alle prospettive di realizzo concreto. Nel caso in esame, le notizie fornite non costituiscono prova della sussistenza di un patrimonio sufficiente a coprire tale onere.
I requisiti di ammissibilità vanno, tra l’altro, commisurati anche sul tempo dell’adempimento (qui necessariamente aleatorio, essendo la gran parte dell’attivo dichiarato dipendente dall’esito delle cause in corso).
È evidente, poi, per il generale onere della prova, che spetti al richiedente il dovere di provare quanto asserisce, considerato anche che in questa fase il Tribunale ha di fatto limitata possibilità di accertare d’ufficio il reale valore dei beni che si vogliono conferire.
La necessità di un sicuro accertamento del valore dei cespiti offerti in cessione risulta ancora più evidente se si tengono presenti le vicende del caso in esame. Basterà ricordare come la sain, nella difesa del 10 aprile 1997, quando cercava di evitare il fallimento e accreditare la propria immagine di piena solvibilità, affermava di avere crediti verso enti pubblici per lire 148 miliardi (f. 9 della memoria del 10.4). Due mesi dopo la somma è ridotta a lire 62 miliardi, essendo stato stimato il valore dei beni per il C.P. alla data del 31.5.97. Né può valere a giustificazione la circostanza che la seconda cifra sia stata parzialmente ridotta, rispetto al credito cartolare, poiché è comunque evidente che ai fini delle procedure concorsuali rileva la effettiva realizzabilità del credito e non il valore nominale. Ma non è tutto: si modifica ancora la situazione e, alla data di presentazione della istanza di C.P., il 10.7.97, i crediti si sono ridotti a lire 47.582 milioni. Da notare che nella relazione dello A.U., in data 15.12.96, la situazione patrimoniale risultava vantare crediti per lire 44.550 milioni circa, somma assai inferiore.
Ovviamente, tale valutazione non é decisiva per considerare la vantaggiosità dell’offerta di C.P. Ma aumenta le perplessità circa le modalità di valutazione di questi crediti, oltre a rilevare circa la linearità e coerenza della condotta societaria.
A maggior ragione in quanto, secondo quanto indicato nella memoria del 10.4, f. 9, i 148 miliardi di crediti verso enti pubblici erano bene individuati: 25 mld per lodi già definiti ed esecutivi, 11 mld per procedimenti arbitrali in corso, 40 mld per procedimenti arbitrali in corso, 40 mld per procedimenti da avviare, 61 mld per domande giudiziali già avviate, oltre importi minori. Non è dato comprendere come la iniziale cifra di 148 mld sia stata diminuita; se, poi, dipendesse da cessioni di crediti avvenute dal dicembre al luglio 1997, si tratterebbe di operazioni assai poco compatibili con la coeva richiesta di concordato preventivo e seriamente rilevanti per considerare il vantaggio per la procedura. Se, al contrario, i dati iniziali fossero inesatti, ciò farebbe dubitare della attendibilà, anche delle indicazioni successive.
Si vuole affermare o, piuttosto, ribadire, come il Giudice possa operare solamente su dati certi, non su affermazioni non riscontrabili. È onere di chi propone una domanda, di qualsiasi tenore e specie, fornirne la prova. Onere qui non adempiuto dalla  sain, che non ha provato in modo adeguato né la esistenza e la entità dei propri crediti, né ha dato contezza di una condotta che negava ogni ipotesi di insolvenza fino a pochissime settimane prima della richiesta di C.P.
(omissis)

Adelante [1]
Il decreto, dalle dimensioni e respiro di una approfondita sentenza, del Tribunale romano sopra riportato, mi ha spinto con la sua assolutamente condivisibile motivazione ad alcune riflessioni su tali tematiche, forse non adeguatamente approfondite, anche dalla dottrina e forse ormai quasi accettate come scontate dalla giurisprudenza.
Profilo di grande interesse del provvedimento è quello sul terreno probatorio della esistenza dei presupposti di ammissibilità e sulla valutazione della congruità dei beni ceduti.
Il richiamo che il Tribunale fa all’art. 2697 è ineccepibile.
Che il concordato preventivo sia un processo, una procedura concorsuale è del tutto evidente, così come che questi siano processi di esecuzione forzata collettiva, con implicanze di elementi di volontaria giurisdizione. Il sistema endofallimentare dei procedimenti camerali (art. 737 – 739 cod. proc. civ.); la mutazione del giudice delegato in giudice dell’esecuzione quando procede alla vendita dei beni immobili (art. 108 L.F.) o in giudice istruttore nelle insinuazioni tardive (art. 101); il sistema delle notificazioni e comunicazioni al suo interno adeguato dalla Corte Costitu-zionale a quello processuale ordinario; l’obbligatorietà di un minimale di contraddittorio con il fallendo e invece pieno con gli altri soggetti interagenti, ne sono espressioni evidenti. 
Se, quindi, il concordato preventivo è un processo, la domanda di ammissione di cui all’art. 161 L.F. (“.. la domanda è proposta con ricorso”..) rientra nella previsione degli artt. 99 e100 cod. proc. civ., anche sotto il profilo strettamente letterale della norma e del mezzo processuale (“ricorso”) indicato espressamente tra gli atti processuali ordinari anche dagli artt. 83 e 125 cod. proc. civ. È, quindi, una domanda giudiziale.
Ne consegue pianamente che il debitore, il quale voglia far valere il proprio diritto a proporre un concordato preventivo, debba egli provare l’esistenza dei presupposti e requisiti di cui all’art. 160 L.F., nessuno escluso ed eccettuato.
Nessuno, infatti, solleverebbe perplessità o esitazioni su tale considerazione con riferimento a quanto previsto dai nn. 1-2-3 dall’art. 160, 1° comma, riferendosi ai presupposti soggettivi. Non vi è ragione alcuna perché questo onere probatorio si debba concludere con il 1° comma e non estendersi al successivo 2° comma. 
Si obietta da alcuno che il Tribunale dovrebbe o potrebbe ex officio procedere a tale valutazione avendo gli strumenti tecnici e processuali per svolgere tali accertamenti.
Direi che il Tribunale, più che accertare, debba controllare l’esistenza dei presupposti tutti, soggettivi ed oggettivi, ammissivi. Controllare significa verificare che quod est in actis corrisponda, soddisfi quanto la norma prevede e richiede.
Così anche per la valutazione dei beni.
Il Tribunale dovrà limitarsi a controllare le prove, gli elementi, quanto in sostanza il debitore abbia ritenuto liberamente e volontariamente di allegare in atti per “convincere” il Tribunale in prima battuta e i creditori dopo, in sede di votazione, che i suoi beni ceduti possono (e questo è un altro passaggio essenziale) con la loro realizzazione effettiva e possibile, supportare l’onere concordatario.
Se si cedesse ai creditori (facciamo un’ipotesi di paradosso esemplificativo) il quadro della Gioconda di Leonardo, sarebbe agevole per qualunque debitore allegare stime di insigni esperti attestanti il suo valore intrinseco inestimabile, incommensurabile, straordinario oltretutto conoscibile anche dal giudice come fatto notorio.
Ma nella procedura concorsuale, ciò non basta. 
Occorre dimostrare che tale valore sia concretamente ed attualmente realizzabile; ossia che il bene possa liberamente e senza vincoli essere messo sul mercato (ad esempio una liberalizzazione da parte dello Stato francese); che sia un bene appetibile, sia pure per un mercato ristretto; che in quel momento vi siano richieste di quel genere di bene; che l’andamento dei mercati dimostri – dati alla mano, cioè con vendite similari già concluse in tempi recenti – che vi siano potenziali acquirenti di tale livello e che se ne possa spuntare (sia pure con ragionevoli oscillazioni) un prezzo tale da supportare il concordato preventivo. 
Se il debitore non sarà in grado di offrire sul terreno probatorio tale ragionevole quasi certezza, il Tribunale non sarà tenuto a “soccorrerlo” con accertamenti officiosi, con stime e perizie dell’ultima ora che non potranno dare, oltretutto, responsi definitivi e tranquillanti.
Actore non probante…
Se, pertanto, il giudizio del Tribunale si dovrà incernierare sugli atti e sulle risultanze, ovviamente documentali, che il debitore è tenuto a produrre, l’esistenza dei presupposti di ammissibilità dovrà risultare già nel ricorso. 
Per completezza di esposizione dobbiamo far presente che vi è anche chi (Bonsignori, Il concordato preventivo in Commentario Scialoja - Branca, Roma -Bologna 1980; Tribunale Milano 24 ottobre 1980) sostiene che la fase di esame della domanda rientri nei procedimenti, di volontaria giurisdizione e più esattamente in quelli in Camera di Consiglio. In detti procedimenti il giudice può ai sensi dell’art. 738 cod. proc. civ. “assumere informazioni”. Poiché, si sostiene, a detto potere ufficioso istruttorio non si porrebbe alcun limite, esso potrebbe essere esteso, anche, alla consulenza tecnica (Brescia S. Il concordato preventivo, Maggioli Editore, 1997, e per certi aspetti anche Bonsignori op. cit.). Osservano questi autori, che essendo il concordato preventivo comunque sempre un’attività giurisdizionale, troverebbe spazio l’ammissibilità di mezzi istruttori ex officio tra i quali la CTU ex art. 61 cod. proc. civ.
È agevole osservare come costituisca un’evidente forzatura metodologica l’includere tra “l’assunzione di informazioni” anche la consulenza tecnica, trattandosi di genus ed ambiti completamente diversi e che il richiamo all’art. 61 cod. proc. civ. sia non appropriato in quanto applicabile solo al processo ordinario a contraddittorio pieno nel quale già risultano acquisite le prove. La CTU non è, infatti, un mezzo di prova, bensì un ausilio per il giudice in ordine alla più esatta comprensione di quanto sia stato già provato per tutti e che non possa adempiere a funzioni meramente “esplorative” volte a reperire ed evidenziare fatti favorevoli ad una delle parti. Il debitore proponente invocherebbe tale indagine esplorativa per poter consentire l’ingresso nel processo di “eventuali” fatti a lui favorevoli. (Satta - Punzi, Diritto processuale civile, Padova, 1996 e conforme e stratificata giurisprudenza).
Il richiamo all’art. 738 cod. proc. civ. non è oltretutto completo in quanto anche in altre specialissime occasioni (procedimenti cautelari, d’urgenza, artt. 669, 689, 700 cod. proc. civ.) vi sono spazi per l’assunzione ufficiosa di informazioni, ma sicuramente non estensibili alle indagini peritali. 
Non ultimo aspetto è quello delle spese per la CTU. Nella fase iniziale il debitore non ha ancora costituito il deposito di cui all’art. 163 L.F.; di conseguenza il Tribunale non avrebbe possibilità - non sapendo ancora se ammettere o meno al concordato preventivo - di assolvere l’onere delle spese con il costituendo deposito o con la previsione di esso. Anche perché sarebbe opinabile che le spese di una tale CTU alla quale faccia seguito la dichiarazione di fallimento possano essere assistite dal privilegio di cui all’art. 2775 cod. civ. ma, in ogni caso, mai potrebbero godere della prededuzione non essendosi aperto ancora un procedimento concorsuale. È questa una mia opinione coesistente con altre di segno opposto ritengo, però, dettate più che per fondamenta di diritto, per poter assicurare il pagamento di attività svolte su incarico del giudice. 
Nel provvedimento vi è poi una condivisibile presa di posizione sulla questione della valutazione dei crediti ceduti dal debitore. È questo notoriamente un punctum dolens che si ripete in molte procedure. Ovviamente non quando si tratti di crediti certi, liquidi, esigibili in quanto in tal caso vi sarebbe da verificare solo la solvenza del debitore.
I crediti non così qualificati rappresentano indubbiamente un grosso problema, in quanto è praticamente impossibile verificarne l’esistenza e la consistenza specie allorchè il debitore ne contesti addirittura l’esistenza.
Ed essendo tale accertamento dipendente a volte dall’esito definitivo di un giudizio o in corso o da ancora iniziare, come potrà mai il debitore provare ed il Tribunale verificarne l’effettiva esistenza e consistenza?
Si tratterebbe di divinare l’esito di un processo il quale è assolutamente indipendente da qualsiasi previsione, anche autorevole, da parte di chiunque e che sarà determinato solo da quanto risulterà in quel giudizio e sulla base di ciò che sarà dedotto dalla controparte; da ciò che sarà provato in via di azione e di eccezione.
D’altro canto, quando in una impresa insolvente figurano ingenti crediti - 
nel caso di specie si parla di ben 148 MDL - ragionevolmente non sorti il giorno prima, - viene legittimo dubitare sulla loro effettiva riscuotibilità visto che il 
debitore non è riuscito in precedenza a monetizzarli in alcun modo.
Trasferire, quindi, a tacitazione di debiti certi dei crediti incerti, an quantum et quando, appare una operazione molto discutibile in ordine alla quale giustamente il Tribunale ha negato l’accesso ponendo un fermo sbarramento.
Non dobbiamo infine dimenticare un ultimo aspetto, nella pratica non frequentemente tenuto presente. 
L’art. 236 L.F. punisce l’imprenditore che al solo scopo di essere ammesso alle procedure di amministrazione controllata e di concordato preventivo “si sia attribuito attività inesistenti, ovvero per influire sulla formazione delle maggioranze, abbia simulato crediti in tutto o in parte inesistenti”. Questo reato viene pacificamente incluso tra quelli contro l’amministrazione della giustizia e precisamente contro il corretto andamento delle procedure concorsuali.
La norma che precede è di significativa importanza perché da un lato conferma che il concordato preventivo è un processo al quale quindi sono applicabili i principi sopra ricordati e perché impone all’imprenditore un comportamento di lealtà e trasparenza verso il Tribunale nel richiedere l’ammissione alla procedura, onde - e qui è anche una controprova dell’onere probatorio addossato al debitore - egli non tragga in inganno o tenti di sviare il giudizio del Tribunale nell’ammissione o meno alla procedura.
Si discute se la fattispecie criminosa debba fermarsi alla sola ipotesi della inesistenza o possa estendersi all’esagerata valutazione delle attività, la c.d. sopravvalutazione.
Riepilogando, possiamo dire che prevalentemente si ritiene che la commissione del reato debba fermarsi all’inesistenza di attività, pur lasciando la possibile estensione anche all’aspetto super valutativo delle stesse nei casi nei quali l’apprezzamento di queste non si fermi alla mera valutazione soggettiva dell’imprenditore (il quale potrebbe eccedere in buona fede o per ignoranza) ma sia accompagnato da altri elementi di supporto inveritieri, quali perizie compiacenti, false trattative di acquisto a valori elevati, tali ed idonei a trarre in inganno il Tribunale in questa sommaria e tumultuosa fase iniziale.
Ed allora, quando anche la sopravvalutazione di una attività - e ciò vale anche per i crediti - sia talmente e vistosamente eccessiva rispetto all’effettivo valore oggettivo e sia determinata e accompagnata puntigliosamente da contraddittori riscontri e pervicaci motivazioni e precisazioni tali da incidere in modo significativo nella valutazione di congruità, anche la sopravvalutazione, così intesa, può estendersi fino alla equivalenza della inesistenza delle attività e rientrare così nella ipotesi criminosa ricordata.
Il ricorso al concordato preventivo, ed in particolare a quello con cessione dei beni, un po’ l’ultima spiaggia prima del fallimento, è diventato molto più frequente in questi ultimi anni. Con riferimento al solo Tribunale romano i concordati preventivi (sia con garanzia che con cessione di beni) richiesti dal 1942 al 1997 ammontano a 1178 con una media matematica del 22,6% per anno. Però se segmentiamo questo dato in due momenti temporali le conclusioni sono diverse.
Fino al 1985 il numero delle procedure è stato di 812 con una media annua di 18,8 ricorsi, mentre da quella data al dicembre 1997 il numero è stato di 366 elevando, nell’ultimo e più breve periodo di osservazione, la media annua a 30,5 ricorsi; con un aumento della media dell’11,7%. Non siamo in grado di sapere esattamente, di questi, quanti siano stati accolti o meno e se, successivamente, siano stati omologati. il numero delle dichiarazioni di fallimento è anch’esso aumentato in misura, però, assai maggiore.
Si è cominciato poi a considerare il concordato preventivo - quello però con cessione dei beni - un po’ come un passaggio obbligato prodromico al fallimento, passaggio che non costa nulla tentare (lo si è tentato addirittura contestando la legittimità del deposito per le spese della procedura) anche sapendo trattarsi di un tentativo senza possibilità concrete ma che potrebbe tornare utile come alibi (o supposto tale) per successive, spiacevoli implicazioni penali.
I freni - non che a Roma siano mai stati allentati, anzi tutt’altro - andrebbero ulteriormente ristretti ed andrebbe lanciato un chiaro monito quale quello che nei casi di vistosa e sfrontata inammissibilità, la dichiarazione di fallimento non sarà la sola conseguenza.
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Una riflessione finale.
Solo il concordato preventivo con garanzia consente di ricondurre nel circuito produttivo una impresa che ne era stata espulsa: qualcuno (il garante) si affianca al debitore ed in sua vece, o a lui associato, pagati a stralcio i debiti, riprende quella stessa attività che li aveva provocati, non danneggiando oltre la pubblica economia.
Ma cedere tutti i beni, dissolvere l’impresa a tacitazione di debiti non porta alcuna utilità collettiva e pubblicistica. 
Ecco allora il dubbio che il concordato preventivo con cessione dei beni sia stato un innesto dell’ultima ora nella legge del 1942, forse solo previsto per sporadici casi eccezionali. Sorto il dubbio, ne cerchiamo le conferme. 
Primo indizio. 
Su 26 articoli che disciplinano il concordato preventivo solo il n.2 del 2° comma dell’art.160; l’art.182 e il 2° comma dell’art. 186 parlano esplicitamente del concordato preventivo con cessione dei beni. Un solo articolo e 2 commi di altri due articoli: indubbiamente un po’ pochi per un istituto di dimensioni sicuramente statistiche maggiori di quello con garanzia. L’eccezione è divenuta la regola.
Secondo indizio. 
Il sistema endoprocedurale di controllo e di salvataggio, in atto dal decreto di ammissione provvisoria al passaggio in giudicato della sentenza di omologa, si fonda sui meccanismi degli artt. 167 e 173. 
L’art. 167 laddove dice che “durante la procedura di concordato il debitore con-
serva l’amministrazione dei suoi beni e l’esercizio della impresa, sotto la vigilanza 
e la direzione...” sembra che sia una consequenziale conclusione del solo n.1 dell’art. 160, 2° comma che riguarda il concordato con garanzia e non già anche del 
n. 2 del ricordato articolo e comma che disciplina il concordato con cessione.
Ed è evidente il perchè.
Con il concordato con garanzia l’imprenditore continua l’attività di impresa e conserva l’impresa ed i suoi beni, essendosi obbligato solo al pagamento di percentuali concordatizie, magari con il supporto di un assuntore o garante. Con il concordato con cessione, invece, il debitore interrompe per sempre l’attività di impresa e cede “tutti i beni esistenti nel suo patrimonio alla data della proposta” (art.160, 2° comma, n.2). 
Interviene a questo punto tra domanda ed omologazione (o non omologazione), un processo, estremamente sommario e breve (la fase di preomologa del concordato) che “traghetterà” quella proposta ad una delle due soluzioni sopra ricordate.
Ecco che solo allora il 2° comma del 167 assume un senso logico, ragionevole e razionale, se però lo riferiamo e lo limitiamo al concordato con garanzia.
Che senso avrebbe, infatti, prevedere e disciplinare mutui, vendite, garanzie, fideiussioni, cancellazione di ipoteche, accettazione di eredità, transazioni, donazioni che un debitore, già spogliato si di tutti i beni divenuti indisponibili, dovrebbe compiere - sia pure autorizzato per iscritto - in quel breve lasso di tempo di “traghettamento” che il legislatore del 1942 aveva previsto in due o tre mesi al massimo, come si può ricavare dai fulminei termini contenuti negli artt. 163, 171, 172, 178 (24 ore - 3 gg. - 8 gg. - 30 gg.)?
Non vi sarebbe senso e ragionevolezza alcuna essendo quegli atti ricordati, tutti, negozi giuridici improntati all’ordinarietà di una gestione commerciale a medio e lungo termine; si pensi ad un mutuo ventennale, od una iscrizione ipotecaria i quali, se applicati al concordato con cessione, sarebbero chiaramente destinati solo ad appesantire il passivo con la creazione della prededuzione e diminuire un attivo, già nella disponibilità dei creditori anteriori, i quali o li gestiranno direttamente attraverso il liquidatore loro mandatario o sarà il curatore a farlo.
Invece tutto ciò è indifferente per la massa nel caso di concordato con garanzia, in quanto i creditori si sono accordati su di una percentuale concordata e garantita e il non appesantimento eventuale del patrimonio del debitore - che è rimasto di sua proprietà e disponibilità - è solo un fatto di prudenza del legislatore (ecco la necessità dell’autorizzazione scritta) in vista unicamente dell’eventuale risoluzione o annullamento artt. 137, 138, 186).
Che scopo, finalità, intento, senso avrebbe il debitore di un concordato preventivo con cessione a chiedere l’autorizzazione a compiere quegli atti richiamati nel 167, i quali sono tipici atti di impresa e che quindi non hanno più interesse per lui che l’attività ha cessato e che ha consegnato tutto all’organo concorsuale?
Nemmeno le spese di mantenimento della società debitrice possono essere prelevate da tali risorse divenute ormai dei creditori, essendo obbligazioni in ogni caso successive alla domanda e non contratte nell’interesse della massa. Si pensi ai compensi, di norma non indifferenti, degli organi amministrativi societari. 
Queste riflessioni conducono a concludere che l’art. 167 non si dovrebbe applicare ai concordati preventivi con cessione dei beni e che questo sia un genus anomalo all’interno delle procedure concorsuali volontarie da riservare, visto che comunque esiste nella legge fallimentare, a casi veramente eccezionali. 
Si potrebbe pensare allora che tale forma di concordato preventivo a condizioni facilitate sia stata configurata per “decongestionare” l’ingorgo creato nella giurisdizione dai troppi affari contenziosi. È evidente che in questi concordati preventivi l’intervento della giurisdizione è assai ridotto e praticamente limitato all’omologazione; manca la fase dell’accertamento del passivo; i rimedi avverso la formazione dello stesso; la liquidazione dell’attivo in quanto rimesso al liquidatore dei beni ceduti. L’attività del liquidatore dei beni avrà caratteristiche iure privatorum e la funzione del giudice delegato sarà solo di vigilanza. Indubbio è pertanto un minore carico di lavoro per la giurisdizione.
Questa configurazione potrebbe essere valida e ragionevole come frutto di una politica giudiziaria; solo che tale valenza e ragionevolezza avrebbero sicuramente vigore solo oggi nell’attuale superlavoro della giurisdizione, ma non certo nella mente del legislatore e nella situazione del 1942 che tali preoccupazioni sicuramente ancora non avvertiva. Quindi nemmeno questo aspetto può avere un concreto peso.
Ma allora se qualcosa di valido, ragionevole e sicuramente positivo (cum grano…) in tutto ciò esiste, anche se tali connotazioni di utilità per tutti sono sorte solo oggi, perché non meditare su questo aspetto? Perché non è possibile (tentare di) modulare ed estendere tale commistura di procedimento liquidatorio iure privatorum anche alla procedura concorsuale coattiva, lasciando in ogni caso solo alla giurisdizione penale gli spazi per l’intervento? Non sembra aver senso ragionevole e giustificabile concedere tanti vantaggi a chi si limita ad offrire ai creditori alcunché oltre quanto costoro già non abbiano od avranno ed invece ricevere in cambio di questo “nulla” un salvacondotto dalle conseguenze personali e penali e sottraendo ai creditori la possibilità di esercitare le azioni revocatorie, se non in comparazione con un vantaggio per la collettività. Vantaggio che dovrebbe consistere nel veder consegnati tutti i beni, non dissolti o appesantiti da oneri pregiudizievoli; che detti beni siano prontamente e vantaggiosamente esitabili; che il debitore non abbia posto in essere “lacci e lacciuoli” tali da rendere difficoltoso, incerto, lungo il percorso liquidatorio.
Certezza, celerità, congruità di valori come contropartita dei (tanti) vantaggi al debitore cessionario riconosciuti.
Avanti, quindi, ma con grande prudenza così come dimostrata nel provvedimento annotato ed anche - se possibile - con qualche riflessione su quanto abbiamo accennato, se ritenuto condivisibile o meritevole di attenzione. 
 
 
 
 

Tribunale di Roma - Sez. fallimentare - sent. 21 novembre 1997 - Pres. Maselli - Est. Roberti; Scalchi (Avv. P. Sciubba) c. Fall. “Capparella noleggi S.p.A.”.

CREDITI PRIVILEGIATI - IMPRESA ARTIGIANA - FATTISPECIE - ISCRIZIONE NELL’ALBO DELLE IMPRESE ARTIGIANE - IRRILEVANZA - PREMINENZA DEL LAVORO SUL CAPITALE - RILEVANZA (R. D. 16 marzo 1942 n. 267 Disciplina del fallimento, del concordato preventivo, dell’amministrazione controllata e della liquidazione coatta amministrativa: artt. 54, I° co., 95 e segg.; Cod. civ.: art. 2751 bis n. 5); L. 8 agosto 1985 n. 443: art. 3, II° co.)

Per l’attribuzione del privilegio di cui all’art. 2751 bis n. 5) Cod. Civ. deve escludersi che l’iscrizione nell’Albo delle imprese artigiane valga ad attribuire uno status, rilevando invece l’individuazione nell’impresa dei requisiti richiesti dalla legge 443/85 sull’artigianato. Tra i caratteri essenziali dell’impresa artigiana rileva quello della prevalenza del lavoro personale rispetto al capitale investito. [1]

(omissis)
Motivi della decisione
La domanda non può essere accolta non risultando provata la qualità di imprenditore artigiano invocata dal ricorrente.
Risulta certamente non contestato il credito vantato da Scalchi Aldo, già ammesso al passivo del fallimento della Capparella Noleggi s.p.a. per l’importo di lire 3.450.000, sulla base di fattura relativa a servizi effettuati in favore della società fallita nei mesi di ottobre, novembre, dicembre 1992.
La documentazione depositata e le allegazioni del ricorrente non sono invece idonei a far collocare il credito riconosciuto nell’ambito del privilegio ex art. 2751 bis n. 5 come richiesto.
È noto che il privilegio in esame, introdotto dalla legge 29.7.1975 n. 426, determina una serie di problemi interpretativi essenzialmente originati dall’assenza di un sicuro riferimento normativo da cui trarre precisi dati per la definizione del concetto di “impresa artigiana”. Si è infatti in presenza, in materia, di una serie di disposizioni di difficile coordinamento: l’art. 2083 cod. civ., che comprende gli artigiani tra i piccoli imprenditori, l’art. 2221 cod. civ., che esclude dall’assoggettabilità al fallimento e al concordato preventivo, oltre gli enti pubblici, anche i piccoli imprenditori, l’art. 1 L.F. nello stesso senso del precedente, e le leggi 25.7.1956 n. 860 e 8.8.1985 n. 443 sull’artigianato (la seconda quasi integralmente sostitutiva della precedente). Si ritiene ormai prevalentemente che la definizione di impresa artigiana, ai fini dell’esclusione dall’assoggettabilità al fallimento, sia in parte diversa da quella utilizzabile per il privilegio generale in parola, per il quale il carattere artigianale dell’impresa dovrà desumersi essenzialmente dai criteri dettati dalla legge sull’artigianato (cfr. in relazione alla vigenza della legge 860/56, Cass. 4.11.1990, n. 9080): in quest’ambito in primo luogo deve escludersi che l’iscrizione nell’albo delle imprese artigiane (provata dall’opponente con il documento attestante l’iscrizione) valga ad attribuire uno status all’impresa, idoneo a farle riconoscere il privilegio in esame, rilevando piuttosto quell’iscrizione quale presupposto per agevolazioni tributarie disposte per tali categorie di imprese (cfr. Cass. sez. I, 5.7.1990. n. 7085), né potendo comunque costituire una presunzione sulla natura dell’impresa (cfr. Cass. sez. I, 17.12.1993, n. 12519). In secondo luogo assume rilevanza per la definizione che interessa l’individuazione nell’impresa dei requisiti richiesti dalla legge 443/85 sull’artigianato potendo conseguire, dal rilievo positivo sulla sussistenza di questi, l’attribuzione del privilegio, atteso che la causa di prelazione privilegia il credito laddove in concreto sussistano le ragioni per accordare il trattamento preferenziale e, quindi, solo ove il credito corrisponda alle caratteristiche previste dal legislatore per il riconoscimento della prelazione (cfr. Cass. 24.1.1995, n. 840). Tra i caratteri essenziali dell’impresa artigiana viene quindi in rilievo quello della prevalenza del lavoro personale e anche manuale nel processo produttivo rispetto al capitale investito (cfr. A. Genova 17.10.1991 Grimaldi c. Fall. Spanio, Trib. Milano 16.1.1992, Soc. Totanox c. Fall. Soc. Imm. Gallarate) anche considerando che il riconoscimento della natura privilegiata del credito artigianale si fonda sull’esigenza di accordare all’artigiano una tutela similare a quella dei lavoratori dipendenti o parasubordinati (cfr. Trib. Milano 10.6.1993) proprio in considerazione della prevalenza nell’attività del fattore lavoro rispetto al fattore capitale e della equiparabilità del reddito a quello di un dipendente.
Nel caso in esame non può riscontrarsi la prevalenza indicata poiché dalla dichiarazione relativa ai redditi d’impresa dell’anno 1991, unico documento depositato unitamente al certificato d’iscrizione delle imprese artigiane, emerge, nello stato patrimoniale, un valore di beni materiali ammortizzabili pari a lire 256.200.000 e un capitale netto di lire 88.339.000, mentre non risultano dipendenti ed è riportato un reddito d’impresa di lire 6.225.000. Ne deriva che, se pure il titolare dell’attività, lo stesso opponente, presta certamente il proprio lavoro nell’impresa, la sproporzione tra l’attività che può esercitare il solo titolare e il valore dello stato patrimoniale indica una prevalenza del capitale sul lavoro, non risultando da altre fonti (non è stata richiesta alcuna prova testimoniale né risulta acquisita ulteriore documentazione) un rapporto diverso fra i due fattori produttivi (cfr. per l’ipotesi opposta, con conseguente diversa soluzione, Trib. Bologna 7.4.1993, Due c. Fall. Soc. Nove electric). Pertanto, non risultando provata la qualità di impresa artigiana del ricorrente, l’opposizione deve essere respinta rimanendo quindi confermata l’ammissione al passivo fallimentare per l’importo indicato in via chirografaria.
(omissis)

L’imprenditore artigiano uno e plurimo.
L’identificazione della fattispecie dell’imprenditore artigiano è questione aperta da sempre, e rilevante sia sotto il profilo sistematico che sotto quello applicativo. Lasciata in ombra la sistematica, ormai generalmente travolta da una legislazione atecnica e provvisoria almeno quanto sovrabbondante, generata da svariate matrici culturali ed ideologiche e piegata a rappresentare giorno per giorno nell’ordinamento le più diverse inquietudini, dedichiamo alcune brevi riflessioni al profilo applicativo.La qualificazione di un’impresa come artigiana rileva principalmente a due effetti: a) l’assoggettabilità a fallimento dell’imprenditore che si pretende artigiano, tenendosi altresì conto della forma individuale ovvero societaria che abbia assunto; b) l’ammissibilità dell’imprenditore che si pretende artigiano a godere del privilegio accordato dall’art. 2751 bis n. 5 cod. civ. nella ripartizione dell’attivo conseguente ad una procedura esecutiva, individuale o concorsuale. Il provvedimento in epigrafe affronta la questione sub “b)”, e riordina con completezza gli elementi normativi del combinato disposto dal quale si cerca di ricavare la nozione in discorso. 
Essi sono: a) l’art. 2083 cod. civ., con il quale, com’è noto, il legislatore della codificazione comprende l’imprenditore artigiano all’interno della nozione di piccolo imprenditore; la norma ha principalmente il fine di escludere la fattispecie de qua dall’ambito applicativo della disciplina della pubblicità, della contabilità e del fallimento caratteristica dell’imprenditore commerciale; sotto il profilo applicativo, tuttavia, tale regime eccezionale rileva essenzialmente ai fini dell’esclusione dal fallimento ex art. 2221 cod. civ., poiché, da un lato, l’art. 8 della novella L. 29.12.1993 n. 580 ha ormai reso comune a qualunque imprenditore (anche piccolo, agricolo ovvero in forma di società semplice) l’obbligo-onere della pubblicità, e, dall’altro, la disciplina tributaria dell’accertamento grava gli imprenditori, anche piccoli, di adempimenti contabili certamente superiori a quelli dai quali il Codice Civile li esenta. 
b) la nota L. 08.08.1985 n. 443 - quasi integralmente sostitutiva della precedente L. 25.07.1956 n. 860 e contenente i principi fondamentali di cui all’art. 117 Cost. destinati ad informare la legislazione regionale di tutela, sviluppo ed agevolazione dell’artigianato - all’art. 2 definisce imprenditore artigiano colui che svolge in misura prevalente il proprio lavoro, anche manuale, nel processo produttivo; la medesima legge, all’art. 4, accorda alla relativa impresa limiti dimensionali piuttosto ampi (variabili da 18 a 40 dipendenti) e contempla fra le imprese artigiane anche quelle che effettuano lavorazioni in serie; l’art. 3, inoltre, prevede la possibilità che l’impresa artigiana sia costituita in forma di società di persone o cooperativa, purché, in tali casi, il lavoro abbia funzione preminente sul capitale; c) l’art. 1 R. D. 16.03.42 n. 267, che, nella formulazione risultante dalla declaratoria di parziale illegittimità (Corte Cost. 22 dicembre 1989 n. 570, in: Foro It. 1990, I, 1132 n. SILVESTRI) che ha espunto dal comma secondo ogni indicazione quantitativa, conferma la non assoggettabilità al fallimento dei piccoli imprenditori ma precisa che in nessun caso possono essere riconosciute tali le società commerciali. Il coordinamento delle disposizioni ora richiamate è sempre stato laborioso. 
L’interpretazione dell’art. 2083, peraltro, non è univoca. Non si comprende infatti se l’artigiano sia, ex lege ed in quanto tale, piccolo imprenditore, accanto al piccolo commerciante, al coltivatore diretto ed a quanti esercitano un’impresa con lavoro prevalentemente proprio e dei familiari, ovvero se solo questi ultimi integrino la fattispecie di piccolo imprenditore e, pertanto, gli artigiani siano menzionati dalla norma a titolo esemplificativo, e siano piccoli se e in quanto soddisfino in concreto il requisito della prevalenza che, solo, definisce la fattispecie di piccolo imprenditore. Questa interpretazione è tuttora ritenuta prevalente -salvo quanto si dirà infra-, anche se per ragioni extratestuali, connesse alla difficoltà di reperire un’adeguata definizione normativa del piccolo commerciante, senza la quale, evidentemente, la norma non può essere applicata nella prima lettura. Vigendo, pertanto, l’interpretazione secondo la quale il criterio della prevalenza del lavoro proprio e dei familiari è vincolante per qualunque imprenditore che voglia sottrarsi, in quanto piccolo, alla disciplina dell’imprenditore commerciale, - segnatamente agli effetti di cui agli artt. 2221 cod. civ. e 1 L.F. -, anche l’artigiano che invochi tale esenzione deve presentare detta caratteristica, e darne dimostrazione. In contrasto con tale ricostruzione, tuttavia, la fattispecie di artigiano che si ricava dalla legge 443/85 sopra richiamata sub “b)”, malgrado l’apparente coincidenza letterale della definizione di cui all’art. 2, non richiede affatto il ricorrere di detta prevalenza, ed anzi comprende nella nozione le imprese che effettuano lavorazioni in serie, nonché quelle che, particolarmente nel settore tessile, si avvalgono delle opere di numerosi dipendenti. Ancor più evidente è l’incompatibilità dell’artigiano di cui alla citata legge speciale, con il piccolo imprenditore descritto, ormai solo in negativo, dall’art. 1 L.F.. Se infatti l’art. 3 della legge 443/85 consente che l’impresa artigiana sia costituita in forma di società di persone (esclusa la S.a.s.) ovvero di cooperativa, la disposizione fallimentare esclude testualmente che possano essere considerati piccoli imprenditori le società commerciali, nel novero delle quali sono tradizionalmente ricomprese le società in nome collettivo, suscettibili di costituire impresa artigiana, oltre alle cooperative, che peraltro soggiacciono a liquidazione coatta amministrativa. 
Le proposte avanzate per ricondurre a coerenza tale assetto normativo hanno seguito tre direttrici principali: a) conciliare con mezzi argomentativi le diverse nozioni normative; b) reputare le diverse nozioni indipendenti le une dalle altre e valevoli ciascuna a fini specifici (quella codicistica e quella fallimentare al fine di escludere l’applicabilità dello statuto dell’imprenditore commerciale, quella della legge speciale ai fini amministrativi propri della legislazione agevolativa regionale); c) considerare la nozione di cui alla legge speciale come abrogativa in parte qua dell’art. 2083 cod. civ. e dell’art. 1 L.F., ed unica fonte definitoria dell’impresa artigiana a tutti gli effetti di legge, anche civilistici; d) considerare l’impresa artigiana un tertium genus fra impresa commerciale ed impresa agricola, e, in particolare, qualificare la società artigiana come società civile (figura già contemplata nel codice abrogato) onde rendere irrilevante la qualificazione della stessa in termini dimensionali (grande o piccola) ai fini dell’applicabilità dello statuto dell’imprenditore commerciale, senz’altro esclusa per difetto della natura commerciale di tale impresa. La giurisprudenza, raccogliendo le diverse suggestioni provenienti da tutte le proposte ricostruttive ricordate, ha conservato alla questione una dimensione fortemente casistica, riconoscendo la sussistenza dell’impresa artigiana in tutte quelle fattispecie in cui, a prescindere dall’iscrizione dell’impresa all’albo di cui all’art. 5 L. 443/85, i volumi economico-contabili dell’impresa relativi alle immobilizzazioni, al volume d’affari ed agli imponibili ai fini dei tributi diretti, fossero modesti, tali da escludere la ricorrenza di un profitto capitalistico vero e proprio. Ad ulteriore temperamento, peraltro, si è talora interpretato il criterio della prevalenza in termini non già quantitativi ma qualitativi, onde riconoscere natura artigiana anche ad imprese che risultano fortemente capitalizzate esclusivamente a causa di caratteristiche strutturali proprie della produzione prescelta (cfr., sulla questione oggetto del provvedimento in rassegna, Cass. sez I, 2 giugno 1995 n. 6221, Mass.). 
La sentenza in commento non si discosta dall’orientamento prevalente. Essa, richiamandosi a precedenti di legittimità, esclude che possa adottarsi un concetto unitario di impresa artigiana, valido tanto agli effetti fallimentari che civilistici, e dà rilievo, ai fini del riconoscimento del privilegio di cui all’art. 2751 bis cod. civ., al criterio codicistico della prevalenza del lavoro, specificando tuttavia che la sussistenza di tale requisito va verificata sulla scorta delle indicazioni risultanti dalla legge di tutela dell’artigianato. Con tale legge infatti, la norma di cui all’art. 2751 bis cod. civ., condivide la ratio agevolativa del particolare settore economico a cui appartiene l’impresa in questione. All’esito si esclude l’applicazione del privilegio sulla scorta delle risultanze economico-contabili dell’impresa instante, confermando la dominanza del criterio casistico sopra ricordato. Tale orientamento presenta un apprezzabile contenuto di equità, consentendo di dare rilievo ad aspetti di specie che potrebbero venir trascurati, anche quando significativi, nell’applicazione di un criterio interpretativo più generale ed astratto. Certamente, tuttavia, alla luce dei principi della cosiddetta ‘analisi economica del diritto’, l’adozione di criteri non generalizzabili incide sempre negativamente sull’iniziativa degli imprenditori, che, in definitiva, non sono posti in grado di valutare pienamente i rischi connessi a decisioni come quella, ad esempio, di concedere credito o dilazioni di pagamento ad un soggetto fallibile, poiché il trattamento giuridico dei loro interessi dipenderà da valutazioni di merito condotte caso per caso. 
Un’indicazione alternativa può invece ricavarsi da un’interessante decisione del Giudice delle leggi (Corte Cost. sentenza 23 luglio 1991 n. 368, in: Foro It. 1992, I, 2064, n. FABIANI), che, avendo contenuto di sentenza interpretativa di rigetto, non modifica l’ordinamento vigente, costituendo tuttavia precedente autorevole. La Corte, chiamata a pronunciarsi circa la vessata questione dell’assoggettabilità a fallimento delle società artigiane, ha respinto l’eccezione di incostituzionalità sollevata dal Tribunale di Savona a carico dell’art. 1, 2° comma, L.F. in relazione all’art. 3 Cost., precisando che la parte di tale disposizione che esclude le società commerciali dal regime privilegiato di non fallibilità proprio del piccolo imprenditore, non è applicabile alle società artigiane, per l’incompatibilità che sussiste fra tale disposizione e quella di cui all’art. 3 della L. 443/85, cronologicamente successiva e prevalente sulla prima ai sensi dell’art. 15 disp. prel. cod. civ.. Ne consegue che l’impresa artigiana caduta in istato di insolvenza, non può essere assoggettata a fallimento solo perché costituita in forma societaria, dovendo anche in tal caso operare il criterio dimensionale. Trattandosi di sentenza di rigetto essa vincola il solo giudice remittente, tuttavia la soluzione adottata rafforza la tesi dottrinale che ravvisa nella legge sull’artigianato l’unica fonte regolatrice dell’impresa artigiana ad ogni effetto di legge, ovvero quella che considera comunque l’impresa artigiana un genere a sé stante, sebbene il tenore di alcune espressioni contenute nella motivazione riecheggi il consueto criterio distintivo basato sull’assenza di profitto speculativo (cfr. capo 3 della motivazione, in fine) e sebbene la Corte non rinunci a ribadire che la fattispecie di impresa artigiana descritta dalla legge speciale si inserisce in quella delineata dall’art. 2083 cod.civ..
 
 
 

Tribunale di Roma - Sez. fallimentare - sent. 27 settembre 1997 - Pres. Grimaldi - Est. Grimaldi - Neartic s.r.l. in liquidazione (avv. G. Iannotta) c/ A.S.A. s.r.l. (avv. V. Greco) e fall. Neartic s.r.l. (contumace).

PROCEDIMENTO CIVILE - PROCURA NUOVO DIFENSORE - FORMA - ATTO SEPARATO - VALIDITÀ (art. 15 L.F.; art. 83 cod. proc. civ.).

DICHIARAZIONE DI FALLIMENTO - PROCEDIMENTO - COMPARIZIONE DELL’IMPRENDITORE - TERMINE NOTIFICA DE-CRETO FISSAZIONE UDIENZA - PERENTORIETÀ - INSUSSISTENZA (art. 15 L.F.).

È valida la procura rilasciata al nuovo difensore a margine della comparsa di costituzione, in quanto la stessa può essere apposta anche su un’atto diverso da quelli tassativamente elencati nell’art. 83 cod. proc. civ. [1]

Il termine fissato dal Giudice per la notifica al debitore dell’istanza di fallimento e del decreto di convocazione ha natura meramente ordinatoria. La mancata osservanza di esso rileva solo se la notifica sia effettuata in tempi così ravvicinati da impedire concretamente al debitore l’effettivo esercizio del diritto di difesa. [2]

(omissis)
L’opponente ha eccepito l’irritualità della costituzione in giudizio dell’avv. Vincenzo Greco in sostituzione dell’avv. Gianni Gregori, quale procuratore della convenuta A.S.A. Aterno Società Agraria s.r.l. non essendo il nuovo procuratore munito di procura speciale autenticata da notaio.
L’eccezione è priva di fondamento.
Invero il Supremo Collegio ha ripetutamente affermato il principio secondo cui in tema di procura alle liti la disciplina stabilita dall’art. 83 cod. proc. civ. si applica solo per la nomina del primo difensore; pertanto nel caso in cui nel corso del giudizio, venga nominato un nuovo difensore in sostituzione di quello indicato nell’atto introduttivo della lite, la procura può essere apposta anche su un atto diverso da quelli tassativamente elencati nella citata norma. (Cass. 8.3.95 n.2697 e 25.5.91 n.5923). Pertanto deve ritenersi valida la procura rilasciata dalla convenuta al nuovo procuratore, avv. Vincenzo Greco, a margine dell’atto denominato “comparsa di costituzione di nuovo difensore” e conseguentemente deve ritenersi processualmente valida la costituzione del suddetto legale per la convenuta medesima.
(omissis)
Con il primo motivo dell’opposizione l’opponente deduce la nullità dell’impugnata sentenza per violazione del suo diritto di difesa garantito dall’art.15 della L.F. così come modificato con sentenza della Corte Costituzionale, rilevando al riguardo, che l’istanza di fallimento ed il pedissequo decreto con cui il Giudice designato dal collegio disponeva la convocazione delle parti dinanzi a sè e fissava la relativa udienza le furono notificati non nel termine di almeno quaranta giorni prima dell’udienza medesima, come stabilito dal Giudice anzidetto, bensì in un termine minore precisamente, solo cinque giorni prima della data dell’udienza.
Rileva, altresì, l’opponente che, nell’udienza stabilita, la richiesta di un rinvio per consentire la sua costituzione e l’audizione del suo legale rappresentante, richiesta formulata dal dr. Proc. Paolo Palmeri intervenuto in sostituzione del liquidatore di essa opponente, era stata dal giudice designato respinta.
Invero, va rilevato, innanzitutto che il termine che viene fissato dal Giudice designato all’istruttoria prefallimentare per la notifica al debitore dell’istanza di fallimento e del decreto di convocazione del debitore medesimo in apposita udienza non ha carattere perentorio ma è un termine meramente ordinatorio, cosicchè la non osservanza di esso non comporta alcuna decadenza né alcuna invalidità della sentenza dichiarativa di fallimento se non in quanto la notifica anzidetta sia effettuata in tempi così ravvicinati rispetto alla data dell’udienza da impedire concretamente al debitore l’effettivo esercizio del diritto di difesa il che nella fattispecie in esame non si è verificato, considerato che la notifica alla società opponente dell’istanza di fallimento proposta nei suoi confronti dalla A.S.A. - Aterno Società Agraria s.r.l. nonchè del decreto di convocazione dinanzi al giudice designato fu eseguita, come risulta dall’esame del fascicolo relativo all’istruttoria prefallimentare, in data 25 maggio 1995 per l’udienza del 1 giugno 1995 e quindi in un termine che, ancorchè inferiore a quello stabilito dal giudice, deve ritenersi pur sempre congruo ai fini della possibilità di un adeguato esercizio del diritto di difesa da parte della attuale opponente. 
(omissis)

[1] Sulla procura al nuovo difensore nominato durante il giudizio.
Per interpretazione costante la procura speciale per la nomina di un nuovo difensore nel corso del giudizio o in sostituzione di un altro, può essere effettuata anche su un atto diverso da quelli indicati nel 3° comma dell’art. 83 cod. proc. civ., purchè evidenzi inequivocabilmente la volontà della parte di conferire la procura.
In tal senso, cfr. Cass. Civ., I Sez., 8 marzo 1995, n. 2697, in Giust. Civ. Mass., 1995, 542; Cass. Civ., II Sez., 25 maggio 1991, n. 5923, in Giust. Civ. Mass., 1991, fasc. 5; Cass. Civ., III Sez., 4 dicembre 1991, n. 6438, in Giust. Civ. Mass., 1981, fasc. 12.
Invero il principio richiamato non sembra essere esente da critiche. 
Deve ricordarsi come ai sensi del 2° comma dell’art. 83 cod. proc. civ., la procura alle liti vada conferita con atto pubblico o con scrittura privata autenticata, e solo in quest’ultimo caso al difensore è riconosciuto il potere di autenticare la firma.
La ratio di tale norma è insita nello scopo pratico a cui la procura tende, che è quello di consentire alla parte, priva dello ius postulandi, di stare in giudizio attraverso il suo difensore.
Orbene, se da un lato è innegabile che in tema di procura alle liti la disciplina stabilita dall’art 83, si applica solo per la nomina del primo difensore, è altrettanto pacifico che nel nostro sistema giuridico all’avvocato difensore non è dato un potere di certificazione generale, ma solo quello, eccezionale, di autenticare la sottoscrizione della parte che a lui si affida, quando la procura viene apposta in calce o a margine degli atti che la norma contenuta nell’art. 83, 3° comma, specificamente menziona.
Si deduce da ciò che qualora la procura alle liti sia contenuta in un atto diverso da quelli espressamente richiamati dal 3° comma dell’art 83 cod. proc. civ. l’atto, se non autenticato da notaio, si presenta ab origine privo della forza del documento che fa piena prova fino a querela di falso, così come richiesto dall’ordinamento vigente. 
Alla luce di quest’ultimo principio, nella fattispecie commentata, non sembra del tutto infondata la eccezione di irritualità della costituzione proposta dal difensore dell’opponente fondata sul fatto che il nuovo procuratore non era munito di procura speciale autenticata da notaio.
Un chiarimento per la composizione del problema affrontato in sentenza non viene neanche dalla recente legge 27 maggio 1997, n.141, che ha aggiunto al 3° comma dell’art. 83 la seguente proposizione: “la procura si considera apposta in calce anche se rilasciata su foglio separato che sia però materialmente congiunto all’atto a cui si riferisce”.
Sembra chiaro che gli atti a cui fa riferimento la nuova normativa sono quelli elencati nello stesso 3° comma dell’art.83 cod. proc. civ.
Sul punto merita di essere segnalata la posizione estrema sostenuta dalla dottrina maggioritaria che, in seno al dibattito giuridico avviato con la riforma del 3° comma dell’art. 83 cod. proc. civ. (L. 27 maggio 1997, n. 141), ed a fronte della legislazione di altri Paesi Comunitari e del processo che si svolge dinanzi alla Corte di Giustizia della Comunità Europea, giunge ad auspicare la validità della procura su foglio autonomo anche se non congiunta ad uno degli atti elencati nell’art. 83, 3° comma (mandato presunto).
In tal senso, cfr. Cipriani, in Foro it., 1997, I, 3152; De Luca, in Le nuove leggi civili commentate, 1997, 6, 1295; AA.VV., in Gius, Rassegna di Giurisprudenza Civile annotata, pag. 2280; Acone, in Corriere Giuridico, 1997, 10, 1159.

[2] Non perentorietà del termine per la notificazione al debitore del decreto di
 convocazione
 In tema di diritto di difesa e dei termini che devono intercorrere tra la notifica del decreto di fissazione dell’udienza prefallimentare e la discussione della stessa, si evidenzia che la Corte Costituzionale con sentenza del 16 luglio 1970, n. 141 in Dir. fall. 1970, II, 601, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 15, nella parte in cui esso non prevede l’obbligo per il Tribunale Fallimentare di disporre la comparizione dell’imprenditore in camera di consiglio per l’esercizio del diritto di difesa nei limiti compatibili con la natura di tale procedimento.
A fronte di tale principio l’istruttoria prefallimentare postula che il debitore venga preventivamente convocato e messo in grado di svolgere le opportune difese, ma non anche che il debitore stesso, dopo tale convocazione, sia tenuto al corrente delle ulteriori circostanze che emergano nel corso della procedura, essendo suo onere di seguirne gli sviluppi per tutelare i propri diritti.
In sostanza, il diritto di difesa del debitore nella fase anteriore alla dichiarazione di fallimento, può ritenersi assicurato ogni volta che lo stesso sia stato posto in condizione di conoscere e contrastare, personalmente, con memorie e con altri mezzi, le ragioni poste dai creditori a sostegno dell’istanza di fallimento.
In merito alla necessità in sede prefallimentare di una effettiva audizione dell’imprenditore in camera di consiglio, con la concessione di un termine per la sua comparizione, si segnala che in giurisprudenza si è consolidato il principio tendente a contemperare le esigenze del diritto di difesa dell’imprenditore costituzionalmente tutelato, con le esigenze di urgenza e tempestività della dichiarazione di fallimento.
Per tali motivi la Corte di cassazione, in merito al tempo che deve intercorrere tra l’avviso e l’udienza, preso atto che la normativa vigente nulla dice a tal proposito, ha disposto che la congruità, del termine necessario a garantire il diritto di difesa, va valutata caso per caso, ritenendo che l’obbligo di convocazione non deve essere esasperato al punto da subire una rigida formalizzazione, ma è sufficiente che il debitore sia stato posto in condizione di conoscere e contraddire i motivi che possono portare alla dichiarazione di fallimento.
Sul punto cfr. Cass. Civ. I sez, 4 agosto 1988 n. 4824, in Il fallimento, 1989, 1, 13; Cass. Civ. I Sez., 4 agosto 1988, n. 4827, in Il fallimento, 1989, 1, 15; Cass. Civ. I Sez., 9 febbraio 1987, n.1380, in Il fallimento, 1987, 7, 752. 
Per l’applicazione pratica di tale principio, oltre alla sentenza in commento, cfr. Trib. Napoli, 24 febbraio 1997, in Il fallimento, 1997, 8, 853; Trib. Torino, 29 agosto 1994, in Il fallimento, 1995, 1, 99; Trib. Roma, 14 febbraio 1995, in Il fallimento, 1995, 11, 1158; Trib. Bologna, 14 maggio 1986, in Il fallimento, 1987, 4, 422; Trib. Modena, 3 settembre 1985, in Il fallimento, 1986, 2, 229; Trib. Milano, 7 ottobre 1985, in Il fallimento, 1986, 2, 229.
d•i • g•i•a•n•f•r•a•n•c•o • t•o•r•i•n•o
 
 
 

Tribunale di Roma - Sez. fallimentare - sent. 10 novembre 1997 - Pres. Grimaldi - Est. Grimaldi - Rivera Andrea (avv. R. Galli) c/ fall. FMN di Liliana Meschini & C. e altri (contumaci).

DICHIARAZIONE DI FALLIMENTO - PROCEDIMENTO - COMPARIZIONE DELL’IMPRENDITORE - DIRITTO DI DIFESA - MORTE DEL LEGALE RAPPRESENTANTE DI SOCIETÀ DI PERSONE - RILEVANZA - NECESSITÀ NOMINA CURATORE SPECIALE - (art. 15 L.F., art. 78 cod. proc. civ.).

Qualora dopo la notifica dell’istanza di fallimento e del pedissequo decreto di fissazione dell’udienza prefallimentare, morisse il legale rappresentante della società debitrice, è necessario promuovere la nomina di un curatore speciale ex art. 78 cod. proc. civ. non potendosi in difetto dichiarare il fallimento della società. [1]

(omissis)
Dall’esame degli atti del fascicolo d’ufficio relativo alla fase dell’istruttoria prefallimentare, risulta che, sebbene l’istanza di fallimento proposta dalla Ceramiche Musa ed il pedissequo decreto di fissazione dell’udienza di comparizione delle parti dinanzi al giudice designato fosse stata ritualmente notificata alla legale rappresentante della società fallenda, Meschini Liliana, nell’udienza del 21 aprile 1994, fissata per l’audizione la medesima non potè comparire per esercitare il diritto di difesa, essendo nelle more deceduta, come lo stesso procuratore della creditrice ebbe a rendere noto nell’udienza anzidetta. In tale situazione, al fine di osservare il precetto di cui all’art. 15 della L.F. come modificato dalla menzionata sentenza della Corte Costituzionale, sarebbe stato necessario promuovere la nomina di un curatore speciale ex art. 78 cod. proc. civ., onde consentire alla società fallenda, rimasta priva di legale rappresentante a seguito del decesso di Meschini Liliana, la quale in base a specifica clausola dell’atto costitutivo della società (art.7: cfr. Doc. n.6 del fascicolo dell’opponente) era l’unica socia alla quale era stata conferita l’amministrazione e la legale rappresentanza della società, di comparire, appunto attraverso il curatore speciale, nell’udienza e di esercitare ivi il diritto di difesa in ordine alle istanze di fallimento nei suoi confronti proposte.
(omissis)

[1] Sulla morte del legale rappresentante della società di persone in pendenza della convocazione in camera di consiglio
Non risultano precedenti specifici con riferimento alla morte del legale rappresentante di società di persone. La tesi prospettata dall’organo giudicante nella situazione di specie è da condividere in toto.
Infatti la impossibilità di difendersi in sede prefallimentare è dipesa esclusivamente da eventi naturali e non da comportamenti negligenti e/o dilatori tenuti dal debitore. In più va aggiunto che le norme del cod. civ. che dettano la disciplina per le società semplici non prevedono, a differenza delle società di capitali, dei meccanismi che assicurino la continuazione della rappresentanza giuridica della società, nei casi in cui viene meno il rappresentante legale.
Rebus sic stantibus, nella situzione di specie, per garantire il diritto di difesa della società fallenda sarebbe stata necessaria la nomina di un curatore speciale ex art. 78 cod. proc. civ..
Si segnala che per le società di capitali la giurisprudenza è giunta a conclusioni opposte rispetto a quella a cui è pervenuto l’organo giudicante nella fattipecie commentata, stabilendo che la morte del legale rappresentante della società non è causa di sospensione o di interruzione di istruttoria prefallimentare.
In tal senso cfr. Trib. Roma, 15 giugno 1985, in Dir. fall., 1986, II, 426; Trib. Roma, 18 febbraio 1984, in Dir. fall., II, 619.
La ratio di tale diversa soluzione, è rinvenuta nel dettato dell’ art. 2386, 6° comma, cod. civ., che prevede, per il caso di cessazione dell’amministratore unico, l’obbligo della convocazione dell’assemblea di urgenza da parte del collegio sindacale il quale può compiere nel frattempo gli atti di ordinaria amministrazione (cfr. Trib. Milano, 3 ottobre 1974, in Dir. Fall., 1975, II, 77; Trib. Frosinone, 27 maggio 1968, in Giur. Mer., 1969, I, 314).
In sostanza per le società di capitali è necessario convocare ritualmente la società debitrice e, una volta assicurata e rispettata tale garanzia difensiva, non va disposta una nuova convocazione, quale che sia la vicenda giuridica della persona fisica del legale rappresentante, in quanto la vacanza dell’organo della persona giuridica non può incidere sullo svolgimento del procedimento in corso e, comunque, la rappresentanza della persona giuridica è assicurata dai meccanismi disposti dall’ordinamento vigente.
d•i • g•i•a•n•f•r•a•n•c•o • t•o•r•i•n•o
 
 
 

Tribunale di Roma - Sez. Fallimentare - sent. 27 settembre 1997 - Pres. Briasco - Est. Baccarini - CARIVIT Cassa di Risparmio della Provincia di Viterbo S.p.a. 
c/ Fall. GLS 89 S.r.l.

INTERESSI - INTERESSI ULTRALEGALI - CONTRATTO DI CONTO CORRENTE BANCARIO - RIFERIMENTO ALLE CONDIZIONI DI PIAZZA - INSUFFICIENZA. (art. 1284 cod. civ.)

Non può essere ritenuta valida, per violazione dell’art. 1284, 3° comma, cod. civ., la clausola che lasci la variazione del tasso d’interesse alla discrezionalità della parte contraente dominante, anche se riferendola alle variazioni di mercato, perché l’approvazione per iscritto di interessi superiori a quelli legali non può prescindere dalla loro esatta individuazione, in via oggettiva, con quantificazione precisa o riferimento a criteri ugualmente precisi, verificabili da chiunque[1].

(omissis) 
Motivi della decisione
La ricorrente censura, altresì, la esclusione del credito relativo agli interessi di mora maturati sulle somme relative al c/c .... 
(omissis)
Come noto, la Cassazione con costante giurisprudenza ha ritenuto necessario e sufficiente che nel contratto di c/c siano indicati “criteri certi e oggettivi che consentano la concreta quantificazione del tasso di interesse, ancorché ciò avvenga per relationem, mediante il richiamo ad elementi estranei al documento stesso”, ritenendo rispettoso di simili requisiti proprio il richiamo “alle condizioni praticate usualmente dalle aziende di credito sulla piazza” (così, in termini, Sez. I, n. 1112 del 14/02/84, CED n. 433250).
Peraltro, questa giurisprudenza poggia sul presupposto che le condizioni suindicate “vengano fissate su scala nazionale con accordi di cartello per modo che il rinvio al tasso usuale vale ad ancorare la misura degli interessi a fatti oggettivi, certi e di agevole riscontro, non influenzabili dal singolo istituto bancario” (come sempre in termini prosegue la citata sentenza n. 1112/84; si vedano anche: Sez. I, n. 8335 del 12/11/87, CED 455906; Sez. I, n. 6554 del 3/12/88, CED 460866; Sez. I, n. 2644 del 30/05/89, CED 462940; Sez. I, n. 2765 del 7/03/92, CED 476114; Sez. III, n. 1110 del 3/02/94, CED 485203; Sez. II, n. 6113 del 25/06/94, CED 487196; Sez. I, n. 9227 del 01/09/95, CED 493852; App. Milano del 11/04/86, in Banca Borsa e Titoli di Credito, 1987, 605, che fa espresso e univoco collegamento tra il rinvio alle condizioni su piazza e i tassi ABI; Trib. Milano del 11/01/90, in Diritto della Banca e del mercato finanziario, 1991, 148). Solo così può parlarsi di “elementi estrinseci, obiettivamente e sicuramente individuabili”, la cui pubblicità è assicurata a mezzo di pubblicazione nei bollettini delle banche e nei giornali quotidiani” (come dice Sez. I, n. 2521 del 9/04/83, CED 427385).
È significativo e chiarificatore che la Cassazione abbia invece ritenuto non valido un generico riferimento agli “usi bancari”, rilevando “che non esiste alcuna documentazione ufficiale degli usi in tema di interessi e che non risulta che le banche pratichino tassi di interesse uguali” per cui simile indicazione è invalida in quanto non permetterebbe “la sicura determinabilità del tasso di interesse” (Sez. I, n. 2262 del 9/04/84, CED 434310 e 434307; si veda anche Trib. Roma del 27/06/87, in Nuovo Diritto, 1988, 64).
(omissis)
In altre parole, la S.C. ritiene ammissibile il riferimento ad elementi oggettivi e certi, ancorché esterni al contratto, noti o facilmente conoscibili e riscontrabili; simili clausole infatti, per quanto onerose, sono consapevolmente accettate dal correntista.
(omissis) 
Quindi la Cassazione ha espressamente ritenuto ammissibili formule come quella qui in esame unicamente per la certezza che simile dizione indica che il saggio degli interessi viene ancorato a condizioni fissate su scala nazionale, certe ed oggettive, riscontrabili da chiunque, facilmente conoscibili.
(omissis)
 
Quanto sopra comporta la necessità di verificare in concreto come il criterio di determinazione del saggio di interesse indicato in contratto sia stato inteso e applicato dall’istituto.
Infatti è notorio come gli istituti bancari applichino saggi di interesse estremamente differenziati, tra istituto e istituto e persino nell’ambito della stessa banca in relazione al singolo cliente. Come pure lo è che varino il saggio di interesse in base a plurimi criteri, tra cui il tasso nazionale indicato è solamente uno dei tanti. 
(omissis)
Infatti, è significativo che quella parte della giurisprudenza di merito che perviene alla dichiarazione di nullità delle clausole che approvano interessi ultralegali con riferimento alle condizioni usualmente praticate su piazza, non contesta i principi di diritto sanciti dalla Suprema Corte, ma si basa su una differente constatazione della realtà creditizia. Secondo questi giudici di merito, infatti, non esiste alcuna pubblicazione ufficiale che certifichi tali condizioni “usuali”, ne sussiste un unico tasso uniformemente applicato dagli istituti per tutta la clientela (così in termini, Trib. Napoli del 25/03/94, in Giur. Comm., 1995, 446; identiche conclusioni per Trib. Genova del 09/5/89, in Giur. Civ. Comm., 1990, 62; Trib. Macerata del 17/08/89, in Diritto della banca e del mercato finanziario, 1991, 148; App. Milano del 31/01/92, in Banca Borsa e Titoli, 1992, 550; Trib. Milano del 24/02/92, in Banca Borsa e Titoli, 1992, 550; Trib. Pavia dell’1/10/93 in Giur. Comm., 1995, 446). 
(omissis) 
In definitiva, tanto secondo la Cassazione che secondo la giurisprudenza di merito, la formula che indica il saggio di interesse con riferimento a criteri esterni avrà valore solo se ed in quanto lo stesso venga determinato con precisa applicazione di condizioni generali, indicate in sede nazionale, non influenzabili dal singolo istituto e facilmente conoscibili da chiunque così da consentire al correntista di verificare le variazioni (in termini, si rimanda ancora a Sez. I, n. 2644 del 30.05.89, CED 462940). Ove questo non risulti verificato, non sarà dimostrata la ammissibilità della clausola e, quindi, gli interessi saranno dovuti nella minor misura di legge.
(omissis) 

Ancora sulla illeggittimità della pattuizione di interssi ultralegali con riferimento alle condizioni bancarie su piazza.
È noto, in materia di interessi bancari, l’alternarsi in giurisprudenza di pronunce che, numericamente, propendono per la validità dei tassi ultralegali stabiliti con rinvio agli usi uniformi. 
La sentenza in esame[1]  emessa in fattispecie relativa a contratto anteriore alla entrata in vigore della l. 7 febbraio 1992. 4. 154, è da segnalarsi perchè evidenzia l’accentuarsi di una tendenza che, propendendo per la massima chiarezza dei rapporti bancari, tanto diffusi quanto assai spesso confusi, giudica radicalmente nulla la clausola in discorso e conferma una singolare frattura tra giurisprudenza di merito e giurisprudenza di legittimità.
La tesi abitualmente sostenuta dagli istituti di credito si richiama ad una giuris-prudenza del Supremo Collegio che, a partire dalla sentenza n. 3028 del 30/06/78, ha ripetutamente riconosciuto la congruità della motivazione dei giudici di merito che avevano ritenuto il mero riferimento alle condizioni “di piazza” sufficiente a determinare, in modo non equivoco, l’ammontare del tasso degli interessi ultra-legali.
Tale tesi può essere esaustivamente rappresentata dalla seguente massima: “In tema di pattuizioni di interessi superiori alla misura legale, per i quali l’art. 1284, 3° comma cod. civ. richiede la forma scritta ad substantiam sono valide, in base ai principi generali sulla determinazione o determinabilità dell’oggetto del contratto, le clausole negoziali che fissino gli interessi dei conti correnti di corrispondenza con riferimento alle condizioni praticate usualmente dalle aziende di credito sulla piazza, trattandosi di un criterio di determinabilità oggettivo, certo e di agevole riscontro. Infatti, i tassi attivi praticati dalle aziende di credito sono fissati su scala nazionale con accordi di cartello, non influenzabili dal singolo istituto bancario, ed il correntista è in grado di sapere, usando l’ordinaria diligenza, che gli interessi sono variabili nel tempo, nonchè di verificarne l’andamento”.[2]
In tale contesto giurisprudenziale è tuttavia presto affiorato il problema, d’ordine pratico e reale, consistente nella capacità del riferimento contrattuale alle norme bancarie uniformi di ottemperare, sia pure per relationem, al disposto dell’art. 1284, 3° comma cod. civ.
La dottrina prima e la giurisprudenza di merito successivamente, sembrano uniformemente orientarsi, con argomentazioni sempre più convincenti, nel senso della soluzione negativa.[3]
Si è infatti prepotentemente e sempre più frequentemente posto il quesito se esista e -nel caso sia possibile rispondere affermativamente- quale sia in Italia il tasso effettivo di interesse sugli scoperti di conto corrente “praticato usualmente dalle aziende di credito sulla piazza” ai propri clienti a norma dell’art. 7, 3° comma, Norme Uniforme Bancarie.
La risposta, per certi versi sbalorditiva, è che, in realtà, nessuno lo sa ...!
Nessuno sa, in effetti, né quale sia l’esatto ammontare del tasso degli interessi bancari, né, tantomeno, il criterio della sua determinazione.
Il problema appare, ictu oculi, notevolmente rilevante, dato che incide sulla validità o meno della - nota - clausola contenuta nei contratti di conto corrente bancario, che determina gli interessi dovuti dal correntista. L’oggetto di questa pattuizione potrà infatti considerarsi determinato o determinabile, ai sensi dell’art. 1346 cod. civ., in quanto il tasso di riferimento possa essere stabilito in modo univoco e come frutto di una valutazione oggettiva capace di consentire alle parti, ed in particolare al cliente, di conoscere, già al momento della stipulazione del contratto e, successivamente, nel corso del rapporto, l’esatto ammontare della propria obbligazione, così come richiesto dalla giurisprudenza più sopra citata.
In proposito il Tribunale di Genova,[4] ha ritenuto nozione di comune esperienza, esplicitamente ammessa dalla stessa banca in quel giudizio, che: “I tassi applicati sono variabili in relazione a logiche di mercato, le quali comportano diversità di comportamento tra i diversi istituti di credito ed in relazione alla qualità soggettiva dei debitori” giungendo quindi a negare l’esistenza di un “uso bancario idoneo a integrare validamente la pattuizione degli interessi ultralegali”.
Il Tribunale di Roma[5], già chiamato a decidere sulla medesima questione, ha a suo tempo ritenuto necessario rivolgersi alla Banca d’Italia per ottenerne informazioni in ordine “ai tassi attivi sugli scoperti di conto corrente applicati dagli istituti di credito nel periodo 1 gennaio 1976 - 31 dicembre 1984”. Ebbene a tale richiesta, si narra in motivazione: “ ... la Banca d’Italia ha risposto trasmettendo alcune tabelle, desunte dal Bollettino del suo servizio studi, relative ai tassi medi, i quali, com’è ovvio, sono ben diversi dai tassi più frequentemente praticati. Peraltro, la stessa rilevazione dei tassi medi mostra chiaramente l’inesistenza di un attendibile tasso d’uso, diverso da un tasso rimesso alla discrezionalità degli istituti di credito, pur nell’ambito di elastici parametri offerti dal mercato. In tali condizioni è evidente che non esiste affatto un tasso d’uso (e non medio) rilevabile ex post, ma solo una fascia di tassi, compresi probabilmente tra il prime rate ed il top rate, nella quale gli istituti di credito si muovono con assoluta discrezionalità” inducendo così il Tribunale capitolino a dichiarare la nullità della clausola del contratto di conto corrente che fa riferimento, per la determinazione degli interessi dovuti dal correntista alla banca, “alle condizioni usualmente praticate dalle aziende sulla piazza”.
Appare evidente, pertanto, che se esistono due limiti di interessi ultralegali (uno favorevole ed uno sfavorevole al correntista) ogni rapporto può collocarsi, a discrezione della banca, nell’ambito di quest’arco, ed è proprio l’impossibilità di individuare a priori l’esatto tasso di volta in volta praticato a rendere indeterminato l’oggetto della pattuizione sul saggio degli interessi. 
L’inattendibilità della giurisprudenza dominante è desumibile dalle indicazioni che lo stesso sistema bancario, tramite l’ABI (Associazione Bancaria Italiana) ha fornito alla Commissione delle Comunità Europee nel corso di una procedura a norma dell’art. 85 del trattato CEE[6] e così sinteticamente riassumibile: 1) quanto ai tassi attivi, dal 1970 le banche non sono state più vincolate dagli accordi di cartello interbancario; 2) dal 01/05/75 il comitato esecutivo dell’ABI provvede a dichiarare il prime rate, ma tale indicazione non vincola le banche che mantengono la facoltà di scaglionare i livelli dei loro tassi; 3) dal febbraio 1983 il carattere indicativo del prime rate è stato formalmente confermato nel senso che la determinazione dei tassi attivi è competenza delle banche e l’ABI si limita a dare le indicazioni statistiche sul prime rate medio nel sistema bancario.
Il fenomeno è ancor più evidente se si prendono in considerazione gli stessi dati della Banca d’Italia disaggregati su base regionale. In tal modo emerge che per la medesima operazione vengono applicati tassi d’interesse, anche qui in media, che variano di diversi punti percentuali in più o in meno a seconda della collocazione geografica della piazza nella quale l’operazione viene realizzata.
Si aggiunga, come di comune esperienza, la differenza dei tassi che nascono e si spiegano in ragione delle condizioni soggettive del cliente e delle caratteristiche dell’operazione di finanziamento di volta in volta presa in considerazione, per rendere ancor più manifesta l’impossibilità di ricavare nel modo esatto richiesto dall’art. 1284, 3° comma, cod. civ., la misura degli interessi “praticati usualmente dalle aziende di credito sulla piazza”.
Appurato che l’ammontare del saggio degli interessi rientra in una fascia di valori costituito, al livello inferiore, dal miglior prime rate, ed a quello superiore dal top rate o più alto, si deve quindi rilevare non solo che non è dato di conoscere esattamente il valore minimo ed il valore massimo di questa scala, essendo noti solo i valori medi, ma, soprattutto, che manca ogni criterio oggettivo che consenta di definire, all’interno di questa fascia, il tasso in concreto applicato in modo aprioristico.
In definitiva è da escludersi che l’obbligo della forma ad substantiam sia assolto dal rinvio meramente generico all’insieme di disposizioni contenute in un altro testo predisposto unilateralmente, in cui si fa rinvio a sua volta non ad una misura quantitativa fissata con precisione, ma alle contingenti e mutevoli pratiche “usualmente” coniazioni dalle aziende di credito. 
L’elemento de relato verrebbe dunque, in questo caso, determinato attraverso una clausola di relatio ad un’altra clausola di relatio, entrambe per lo più generiche nel precetto e non direttamente determinanti la misura concreta degli interessi dovuti.
Deve concludersi, pertanto, che non esiste un uso bancario idoneo ad integrare validamente la clausola di pattuizione degli interessi ultralegali nel suo aspetto formale, sicché appare ancora estremamente attuale l’osservazione di chi (Bruno Inzitari, in nota 3), con certa ironia, rammentava il seguente “brano di un remoto ma significativo legislatore ...: L’obbligo imposto al mutuante, che stipula gli interessi, di consegnare la pattuizione in un atto scritto, equivale a un appello alla pubblica opinione ed esercita la più efficace influenza sul pudore del mutuante, il quale non oserebbe sfidare con cinico coraggio la pubblica riprovazione che colpisce l’usuriere”. 
Col riportare alla memoria tale sbiadito monito, contenuto nella relazione ministeriale dal codice civile del 1865, l’Autore efficacemente evidenziava come, ad oltre un secolo di distanza, la cruda realtà economica contemporanea sembra avere del tutto dimenticato i moralistici ammonimenti del legislatore ottocentesco, ed il richiamo al controllo della pubblica opinione sul pudore del mutuante che contratta una misura ultralegale degli interessi, appare certamente come un obsoleto ed assai ingenuo appello a favore di colui che, nel linguaggio giuridico odierno, viene eufemisticamente definito contraente debole.
[1] V. recentemente, stesso Giudice: Trib. Roma, Sez. Fall., 07/04/97. Pres. Briasco, Est. Baccarini, Cassa di Risparmio Provincia delle Provincie Lombarde S.p.a. c./ Fall. Siderurgico Flaminio.

[2] Cass. 30/05/89, n.2644, in Giust. Civ., 1989, I, p. 2034, con nota di Maria Costanza; conf.; Cass. 20/06/78, n.3028 cit.; Cass. 09/04/83, n.2521; Cass. 14/02/84, n.1112; Cass. 28/05/84, n.3252; Cass. 12/11/87, n. 8335; Cass. 03/12/80, n.6554; Cass. 20/08/92, n.9719, in Foro It., 1993, 2714.

[3] Per la tesi dell’invalidità si sono espressi: Librando “In tema di interessi bancari convenzionali, in Foro Padano, 1978, I, 203; Inzitari “Limiti all’ammissibilità della relatio nella determinazione per iscritto degli interessi ultralegali” in Giur. it., 1984, II, pag. 501 ss.; Quadri, “Le obbligazioni pecuniarie” in Tratt. Dir. Priv. diretto da Rescigno, 9° Ed. Torino, 1984, pag. 566; Perlingieri, “Forma dei negozi e formalismo degli interpreti”, Napoli, 1987, p. 71 ss; A. Nigro “Inte-ressi ultralegali e condizioni praticate usualmente dalle aziende di credito sulla piazza” in Dir. banca, 1988, I, p. 528 ss; Costanza, “Norme bancarie uniformi e derogabilità degli artt. 1283 e 1284”, in Giust. Civ. 1989, I, p. 2037 ss.. In giurisprudenza: App. Na-poli, 10/03/82, in Banca Borsa e Titoli di Credito, 1983, II, p. 187; Trib. Roma 27/06/87, in Giust. Civ., I°, 2994 (v. anche nota 5); Trib. Roma, 15/05/89, inedita ma massimata in Fallimento, 1989, p. 1279; Cass. 09/04/84, n.2262, confermativa della citata App. Napoli 10/03/82, la quale, pur ammettendo la possibilità di determinare per relationem un tasso ultralegale di interessi, ha ritenuto esauriente la motivazione del giudice di merito che aveva appunto affermato l’insufficienza, al riguardo, del riferimento agli usi bancari, rilevando che non esiste alcuna documentazione ufficiale degli usi bancari in tema di interessi e che non risulta che le banche pratichino tassi di interessi uguali); ed ancora Cass. 21/12/87, n. 9518 che ha cassato la decisione dei giudici del merito che avevano ritenuto sufficiente l’espressione “tasso bancario” adoperato nelle pattuizioni tra le parti senza considerare che la sua genericità non consentiva la concreta individuazione o determinabilità del tasso di interesse pattuito. Da ultimo, Cass. 09/12/97 n.12456 - che sembra determinare una inversione di tendenza della giurisprudenza di legittimità, propendendo, infine, verso la nullità della clausola de qua- secondo la quale: “Il riferimento contenuto in un contratto bancario alle “condizioni praticate normalmente dalle aziende di credito su piazza” è da considerarsi sufficiente solo ove esistano vincolanti discipline del saggio fissate su scala nazionale con accordi di cartello e non già ove quegli accordi contengano diverse tipologie di tassi o, addirittura, non costituiscano più un parametro centralizzato e vincolante, im-ponendosi, in quest’ultimo caso, l’accertamento in concreto del grado di univocità della fonte richiamata, per stabilire a quale previsione le parti abbiano potuto effettivamente riferirsi”.

[4] Trib. Genova, 09/05/89, in Banca Borsa etc., 1991, II, p. 198 e ss., con nota di Gustavo Olivieri.

[5] Trib. Roma, 27/06/87, B.N.L. c./ Fall. OR.VEND., Pres. Castaldi, rel. Di Amato, in Temi Romana, con nota dell’Avv. Maurizio Calò, pubblicata anche -con data 05/03/87- in Giust. Civ. 1988, I, p. 534, con nota di Santosuosso: “Clausola determinativa degli interessi nei contratti di conto corrente bancario”, e in Riv. Dir. Comm. 1988, II, p. 270, nonchè -con data 22/06/87- in Foro It., 1988, I, c.1720.

[6] In Banca Borsa etc., 1988, II, p. 190, con osservazioni di Olivieri.