DOTTRINA 
Eugenio Picozza e
Annalisa Di Giovanni
 
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F•a•l•l•i•m•e•n•t•o d•e•l•l’•i•m•p•r•e•n•d•i•t•o•r•e e • r•e•g•i•m•e • d•e•i l•a•v•o•r•i • p•u•b•b•l•i•c•i
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1. Premessa
Una trattazione esaustiva di questa problematica richiederebbe quasi certamente una dimensione monografica, attesa la rilevanza del tema medesimo dal punto di vista comunitario e nazionale, soprattutto in virtù 
delle innovative soluzioni date in parte dalla più recente legislazione sui lavori pubblici, in parte da orientamenti coraggiosi ed anticonformisti della giurisprudenza amministrativa
Ci si deve quindi accontentare di tracciare una sorta di “programma”, nel quale peraltro - come potrà notare l’attento lettore - le soluzioni proposte non verranno semplicemente avanzate in via apodittica, ma si cercherà appunto di fornirne, seppure sinteticamente, un consistente appoggio in via interpretativa o giurisprudenziale.
Senza pretesa di completezza, i nodi principali che ruotano attorno alla problematica generale, possono così essere riassunti:
  fallimento dell’imprenditore e regime di iscrizione all’albo nazionale dei costruttori: conseguenze sulla impresa fallita (cedente), e possibilità di recupero totale o parziale delle iscrizioni medesime da parte di altre imprese (cessionarie); regime della partecipazione alle gare pubbliche;
  fallimento dell’imprenditore e disciplina della cessione d’azienda in senso lato (comprensiva cioè del c.d. “affitto d’azienda”): riflessi sul regime di iscrizione all’A.N.C. e sulla partecipazione alle gare pubbliche;
  fallimento dell’imprenditore e regime del c.d. esercizio provvisorio: riflessi sulla esecuzione in corso di opere pubbliche e sulla possibilità dell’esercizio provvisorio di partecipazione a nuove gare.
 
 
2. L’orientamento generale del diritto comunitario in materia.
2.1. Impresa, fallimento e libera prestazione dei servizi.
Come è noto, il fallimento non risulta finora oggetto di specifiche direttive della C.E., al contrario di altre fattispecie dinamiche dell’imprenditore, soprattutto in materia societaria.
Ciò non toglie la possibilità di ricavare dei principi generali di diritto originario o derivato applicabili anche al fallimento, nell’ambito dei rapporti con la procedura di attribuzione del contratto di appalto di oo.pp. o la sua esecuzione.
I due principi fondamentali attorno ai quali si innesta la disciplina comunitaria degli appalti pubblici sono infatti costituiti: dalla libera prestazione dei servizi (art. 59 del Trattato), servizi definiti dal successivo art. 60 del Trattato di Maastricht; dalle regole di concorrenza tra le imprese (art. 85 e segg.) applicabili anche alle imprese pubbliche nei limiti dei paragrafi 1 e 2 dell’art. 90.
Per completezza, è rilevante anche l’art. 92 del Trattato (aiuti pubblici), perché in alcuni casi è suscettibile di integrare la c.d. offerta anomala.
I principi fondamentali, tratti da libertà economiche che secondo il Trattato sono anch’esse fondamentali [1] attribuiscono quindi in modo immediato e diretto ai cittadini comunitari “diritti soggettivi” che possono essere fatti valere nei rapporti giuridici di tipo verticale (con i pubblici poteri) o di tipo orizzontale (con le altre imprese pubbliche e private). Tali situazioni giuridiche soggettive possono essere “limitate” per ragioni specifiche previste dal Trattato medesimo (v. ad es. l’art. 36 sulle eccezioni e limitazioni al diritto alla libera circolazione delle merci), ma l’interpretazione della portata e del campo di applicazione della eccezione o limitazione non spetta all’autorità nazionale competente all’emanazione del provvedimento sfavorevole, bensì al controllo amministrativo della Commissione C.E. e a quello giurisdizionale della Corte di Giustizia.
Da un punto di vista dogmatico, quindi, mentre esiste un effetto giuridico di “limitazione” e al limite di “estinzione” di situazioni giuridiche soggettive per opera del provvedimento amministrativo eccezionale, non esiste un effetto giuridico “conformativo” proprio dello stato sociale di diritto, ovvero dell’interventismo dirigistico e pianificatore dell’economia privata (art. 41, 3° comma, Costituzione); e nemmeno si dà ingresso alla c.d. degradazione o affievolimento del diritto soggettivo in interesse legittimo. Ciò in quanto non solo il diritto comunitario non conosce e non applica la distinzione tra diritti soggettivi ed interessi legittimi (art. B del Trattato di Maastricht, che garantisce la protezione di diritti ed interessi; art. 8 del Trattato modificato dal Trattato sulla U.E., secondo cui i cittadini comunitari godono dei diritti e sono soggetti ai doveri previsti dalle norme del Trattato medesimo); ma rifiuta la distinzione delle norme in norme di azione e norme di relazione, ancora applicata dalla giurisprudenza della Cassazione e del giudice amministrativo;[2] ed infine non applica la prassi della previa intermediazione dell’annullamento dei provvedimenti amministrativi illegittimi, che è poi alla base del concetto di diritto patrimoniale conseguenziale presente non nella nostra Costituzione, bensì nelle leggi sul Consiglio di Stato e sui TT.AA.RR. Infatti, l’azione di annullamento dei provvedimenti amministrativi illegittimi adottati dalle istituzioni comunitarie 
(art. 171 del Trattato) è indipendente da quella di responsabilità e risarcimento danni (artt. 178 e 215 del Trattato), che si estende anche a comportamenti e ingiustificati ritardi nel-
la omissione di atti, quanto meno dovuti; mentre esiste addirittura un’azione per valutare e sanzionare l’illegittimità della omissione di atti da parte delle istituzioni comunitarie, e quindi un’azione sul comportamento della p.a. e non sul provvedimento.
Questi concetti generali, che potrebbero sembrare vaghi ed astratti, anche a causa del malvezzo italiano di considerare più importanti gli atti derivati di diritto comunitario (regola-menti, direttive, decisioni) e non quelli di rango costituzionale e originario (principi del Trattato, principi non scritti 
ma dichiarati con efficacia vincolante per ogni pubblico potere di ogni Stato membro dalla Corte di Giustizia della U.E.), sono invece essenziali per impostare correttamente il punto di vista comunitario sul fallimento e sull’albo nazionale dei costruttori.
Quanto al primo, vi sono dei precedenti nella giurisprudenza della Corte di Giustizia, che prendono atto della cessione d’azienda, sia pure ai fini della applicazione di determinate disposizioni contenute nella direttiva 77/187/CEE - concernente il ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri, relative alla salvaguardia dei diritti dei lavoratori in caso di trasferimento di imprese, di stabilimenti o di parti di stabilimenti[3]. Inoltre un accenno, sia pure indiretto, è contenuto nella legge comunitaria 428/90, capo VII (Il lavoro), le cui disposizioni sono state appunto emanate per recepire ed applicare con il metodo dettato dalle leggi comunitarie generali (86/89) alcune direttive comunitarie in materia di lavoro: in particolare l’art. 47, 6° comma: “I lavoratori che non passano alle dipendenze dell’acquirente, dell’affittuario o del subentrante hanno diritto di precedenza nelle assunzioni che questi ultimi effettuino entro un anno dalla data del trasferimento, ovvero entro il periodo maggiore stabilito dagli accordi collettivi. Nei confronti dei lavoratori predetti, che vengano assunti dall’acquirente, dall’affittuario o dal subentrante in un momento successivo al trasferimento d’azienda, non trova applicazione l’articolo 2112 del codice civile”.
Si può quindi ragionevolmente affermare che l’istituto e la procedura di fallimento (rimessi, come si vedrà subito infra, alle legislazioni e regolamentazioni nazionali) si inquadra, anche nel diritto comunitario, da un lato nelle sopravvenienze giuridiche, come altri mutamenti dinamici dell’impresa, dall’altro nei fatti di interposizione (attraverso gli organi del fallimento e le potestà ad essi attribuite); e che, anzi, le procedure fallimentari sono considerate importanti ai fini di garantire il rispetto della concorrenza sana ed effettiva tra le imprese (art. 3 del Trattato di Maastricht), pur lasciandosi, in ultima analisi la discrezionalità di scelta alle amministrazioni aggiudicatrici, le sole entità competenti, sempre secondo la giurisprudenza della Corte di Giustizia, a verificare in concreto i requisiti generali di partecipazione alle gare richiesti alle imprese concorrenti). Dispone infatti la direttiva 93/37/C.E. - ma la disposizione è identica in tutte le direttive sugli appalti pubblici -, all’art. 24: “Può essere escluso dalla partecipazione all’appalto ogni imprenditore:
a] che sia in stato di fallimento, di liquidazione, di cessazione d’attività, di regolamento giudiziario o di concordato preventivo o in ogni altra analoga situazione risultante da una procedura della stessa natura prevista dalle legislazioni o regolamentazioni nazionali;
b] relativamente al quale sia in corso una procedura di di-chiarazione di fallimento, di amministrazione controllata, di concordato preventivo oppure ogni altra procedura della
stessa natura prevista dalle legislazioni e regolamentazioni nazionali”.
Tale disposizione è riportata quasi letteralmente dal D.Lgs. 19 dicembre 1991 n. 406, di recezione della 
direttiva 89/440/C.E., non essendo finora stata recepita la direttiva 93/37/CEE sugli appalti di lavori pubblici. 
È importante notare che, peraltro, la direttiva medesima prende in considerazione non già la fattispecie del fallimento come processo,[4] ma il procedimento preparatorio della dichiarazione di fallimento e il provvedimento giurisdizionale di dichiarazione attraverso gli effetti - non importa qui accertare se di tipo costitutivo o ricognitivo - della sentenza: cioè lo stato di fallimento. Pertanto, ricostruire il regime e le possibilità giuridiche del “fallimento” attraverso i suoi istituti (affitto d’azienda, cessione in blocco, vendita di rami, cessione delle iscrizioni ecc.) spetta all’interprete che, peraltro, è obbligato ad utilizzare il criterio di interpretazione conforme al diritto comunitario[5]. Sotto questo profilo, per quanto riguarda la partecipazione alle gare pubbliche, il principio generale è quello della concorrenza seria ed effettiva: pertanto l’amministrazione aggiudicatrice - a prescindere dalle norme nazionali sulla sospensione e cancellazione dall’albo, che peraltro non riguardano le altre imprese comunitarie, se non quelle del Belgio - che ammetta alla partecipazione le imprese che si trovano nella situazione di cui alle lettere a) e b) dell’art. 24 della citata direttiva, deve applicare i principi dell’obbligo di motivazione e di proporzionalità,[6] non assicurando altrimenti la par condicio tra le imprese concorrenti e soprattutto la “serietà” ed “effettività” di concorrenza nel procedimento di attribuzione dell’appalto pubblico.
Per quanto riguarda la fase di esecuzione in senso stretto dell’opera pubblica, il diritto comunitario non interviene direttamente, in quanto le direttive hanno di mira soprattutto l’armonizzazione procedurale: peraltro, ciò non toglie che dall’armonizzazione procedimentale derivi anche un effetto di armonizzazione “sostanziale” in quanto le direttive contengono una definizione precisa del contratto di appalto e l’enucleazione della sua natura giuridica: di conseguenza, se il diritto comunitario definisce come contratto di appalto l’esecuzione comunque denominata di lavori pubblici o di opera pubblica affidata da una amministrazione aggiudicatrice ad un imprenditore, vanno poi applicati i principi generali che regolano negli Stati membri l’esecuzione dei contratti e le vicende fisiologiche e patologiche dei medesimi[7]. Sotto questo profilo, gli eventuali procedimenti e provvedimenti amministrativi “autoritativi” intervenienti nella fase di esecuzione del contratto debbono essere compatibili con la libera prestazione dei servizi, al pari di quelli che intervengono nella fase di formazione del contratto medesimo.
Sotto questo profilo il punto di maggior frizione tra diritto comunitario e diritto amministrativo nazionale riguarda il c.d. intuitus personae, cioè il carattere personale e fiduciario del contratto di appalto[8]. Per il diritto comunitario le trasformazioni dell’impresa che rientrano nella dinamica naturale dei fatti economici vanno riconosciute, salvi i limiti dettati dal diritto penale e dalle norme di polizia (ordine pubblico, ecc.): tale impostazione è alla base dell’equiparazione dei raggruppamenti di imprenditori comunque denominati e imprenditori singoli, ma non esaurisce i suoi effetti nella fase di attribuzione del contratto, perché - come si vedrà subito appresso - la problematica rifluisce anche nella fase di gestione del contratto, ad esempio attraverso il recupero delle iscrizioni A.N.C.; ovvero le procedure di vendita d’azienda, affitto ed esercizio provvisorio, durante il processo fallimentare.
In tale contesto, proprio la riconduzione al primato dei principi generali del diritto comunitario originario (in particolare la libera prestazione dei servizi, ed anche la libera circolazione delle merci) consente di indirizzare in modo corretto e generale la soluzione globale del problema senza doversi limitare al caso singolo, in quanto direttamente contemplato dalle direttive sugli appalti o dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia (è l’esempio del consorzio “aperto” negli appalti pubblici di servizi, avversato talvolta dalla giurisprudenza; oppure della partecipazione di una holding operativa alla iscrizione nell’albo e alle gare pubbliche in conto delle imprese collegate e controllate)[9].
Forse la giurisprudenza ordinaria e amministrativa sottovaluta gli obblighi su di essa incombenti di assicurare il primato e la diretta applicazione del diritto comunitario derivante dal principio di leale collaborazione dell’art. 5 del Trattato; ma occorre ricordare che, dopo il gruppo di sentenze della Corte di Giustizia del 1996[10] sulla responsabilità diretta di tutti i pubblici poteri degli Stati membri che con le proprie azioni od omissioni abbiano recato lesioni a situazioni giuridiche soggettive protette direttamente dal Trattato, il quadro di riferimento giuridico è alquanto mutato, se non altro perché il cittadino comunitario leso nei suoi diritti ha un’azione diretta di risarcimento nei confronti del Governo dello Stato membro inadempiente, presso il Tribunale Civile competente. E tale azione non è soggetta ad alcuna preventiva intermediazione: né la dichiarazione di costituzionalità della legge interna incompatibile, né l’annullamento del provvedimento amministrativo illegittimo secondo i parametri del diritto comunitario, né, tanto meno, il preventivo accertamento della responsabilità civile del giudice.
Quindi il problema va affrontato e risolto in termini generali, prendendo atto che le modificazioni oggettive dell’impresa e dell’azienda compatibili con il diritto comunitario e non vietate da norme penali dell’ordinamento nazionale non possono essere ostacolate da un preteso intuitus personae del contratto di appalto di opere pubbliche, perfettamente comprensibile anche nell’analisi economica dell’imprenditore ottocentesco[11], ma non rispondente alla situazione di fatto e di diritto dell’impresa nel 2000.
Occorre prendere atto che anche nella legislazione italiana sono stati fatti notevoli passi avanti: basti ricordare gli articoli 35 e 36 della legge 109/94 e successive modificazioni ed integrazioni. Ma, ad esempio, tutte le norme di recezione delle direttive appalti sui R.T.I. (nello stesso D.Lgs. 406/91, nella legge 109/94, nei D.Lgs. 157 e 158/95) sono quantomeno “carenti” rispetto agli obblighi imposti dal diritto comunitario al proposito; e quindi, o vengono interpretate in modo conforme, in modo da assicurare quell’effetto utile che è alla base del diritto comunitario medesimo, oppure debbono essere disapplicate in parte qua e non solo dalla P.A.[12], ma soprattut-
to da parte del giudice che addirit-
tura può e deve disapplicare anche 
norme di diritto processuale incompatibili[13].
Del resto non mancano in giurisprudenza e nell’attività consultiva sentenze e pareri che prendono atto con chiarezza della forza integratrice del diritto comunitario rispetto alle discipline amministrative nazionali. Rinviando infra l’analisi delle pronunce cautelari del TAR e del Consiglio di Stato in merito alla possibilità di recupero di iscrizioni da imprese dichiarate fallite, è sufficiente ricordare la decisa presa di posizione del Consiglio di Stato, Sez. II, n. 552/97 del 12 marzo 1997, in merito alla vicenda della incorporazione della Società Telecom nella Stet: in una fattispecie, cioè, dove l’intuitus personae derivante dall’affidamento della concessione di pubblico servizio ai sensi del D.P.R.. 156/1973 è indiscutibile. Premesso che la incorporazione costituisce una forma di 
realizzazione della fusione delle società (art. 2501, 1° comma, cod.civ.), essa è cioè uno strumento per realizzare lo sviluppo delle imprese attraverso il valore aggiunto derivante dalla concentrazione di esse, l’alto consesso, oltre ad altre pregevoli considerazioni, pone quella secondo cui: “Una diversa conclusione, infine, condurrebbe alla non accettabile conseguenza di impedire alla società titolare della concessione di servizi di telecomunicazione l’utilizzazione di uno strumento imprenditoriale quale la incorporazione in altra società; ciò sarebbe irrazionale e contrastante con l’esercizio dei diritti di iniziativa economica privata riconosciuti dalla Costituzione e dal Trattato C.E.”. 
Effettivamente, l’organo consultivo ha toccato il punto centrale della questione, dal momento che anche la Costituzione, salvo i limiti delle libertà fondamentali e dei diritti umani[14] va quantomeno interpretata in modo conforme all’ordinamento comunitario. Da ciò i ripetuti e recenti tentativi di configurare nell’art. 41, 1° comma, il riconoscimento del mercato e delle sue regole (che peraltro, si osserva incidentalmente, dovrebbero convivere con quella della programmazione dell’iniziativa economica pubblica e privata a fini sociali e financo con quelle della riserva ai pubblici poteri dei servizi pubblici, delle fonti d’energia e dei monopoli, secondo la discrezionale valutazione del legislatore interno: art. 43).
Ora, per impostare correttamente il problema nei confronti del fallimento, occorre attenersi ad una verità elementare, riconosciuta anche dal diritto comunitario, cioè quella secondo cui chi fallisce è il soggetto, cioè l’imprenditore, anche se in forma societaria, ma non l’impresa o l’azienda oggettivamente considerate (artt. 2082 e 2558 cod.civ.).
Tale constatazione, sempre maggiormente messa in evidenza dalla dottrina del diritto commerciale e del diritto fallimentare, è alla base di istituti quali l’affitto d’azienda, la vendita in blocco, ecc., perché l’impresa non è solo diritto soggettivo dell’imprenditore, non più di quanto la pubblica amministrazione sia organo esecutivo dei programmi del potere politico. Per cui il principio della libera prestazione dei servizi si applica anche a tale fattispecie, pur nei limiti e con le cautele che sono dettate dal diritto nazionale. Sotto questo profilo, l’insegnamento della Corte di Giustizia è chiaro: tranne le fattispecie attratte dalla competenza diretta ed esclusiva del diritto comunitario (ad esempio nella materia agricola o nella politica commerciale e doganale comune), laddove il diritto soggettivo comunitario non può subire degradazioni o affievolimenti di sorta ad opera del legislatore o dell’amministrazione dello Stato membro, spetta alle competenti autorità di questo stabilire le legislazioni e le regolamentazioni inerenti, che peraltro debbono perseguire il principio della effettività comunitaria e cioè assicurare la tutela efficace e rapida (compatibilmente con le esigenze dell’ordinamento giudiziario) dei diritti soggettivi direttamente protetti dall’ordinamento comunitario, ivi compreso quello alla libera prestazione dei servizi (art. 59 del Trattato).
Quindi, in ultima analisi, il problema della effettività della libera prestazione dei servizi nel quadro delle procedure fallimentari, non si pone con riferimento all’ammissibilità di istituti quali l’affitto e la vendita d’azienda, del resto ormai esplicitamente riconosciuto dalla legge 223/1991, ma nei rapporti di diritto pubblico incidenti sulla libera prestazione dei servizi, ed in particolare con i provvedimenti (iscrizione, sospensione, cancellazione, recupero di iscrizione) dell’Albo Nazionale dei Costruttori.
Pare quindi essenziale, prima di affrontare, pure con riferimento al diritto nazionale, le singole fattispecie, verificare anche il parametro comunitario rispetto all’albo medesimo.

2.2 I provvedimenti dell’Albo Nazionale dei Costruttori e il diritto alla libera prestazione dei servizi.
Molto sinteticamente, occorre ricordare che l’Albo Nazionale dei Costruttori viene considerato dal diritto comunitario una “lista ufficiale di imprenditori”: cioè, secondo la dogmatica del diritto amministrativo comunitario, un provvedimento costitutivo di un procedimento dichiarativo, nel quale non vi è spazio per la creazione di status e, meno che mai, per la creazione o costituzione di diritti soggettivi.[15] Ciò consente di fare a meno della complessa diatriba dottrinale interna, la quale oscilla come il pendolo di Foucault tra la teorica della limitazione e quella della costituzione delle situazioni giuridiche soggettive per opera di provvedimenti della P.A. sulla base della riserva di legge (art. 41, 2° comma e 97 Costituzione). Si deve peraltro incidentalmente notare che la tesi della creazione di status (quale onore equiparare l’appaltatore iscritto all’albo ad una sorta di cittadino-imprenditore!) scopre un involontario lapsus freudiano (dal momento che anche il diritto ed in particolare il diritto pubblico, particolarmente legato ai fenomeni del potere, non sfugge alle regole della psicanalisi), perché denota l’intento corporativo da cui è animata la disciplina, degno di altri regimi e sistemi economici.
Di fatto già la direttiva 71/305, pubblicata sulla G.U.C.E. del 16/8/71, n. L 185 all’art. 28, paragrafo 1, prescriveva: “Gli Stati membri ove esistono liste ufficiali di imprenditori devono, all’entrata in vigore della presente direttiva, adattarle alle disposizioni dell’art. 23 lettere a),b),c),d) e g) e degli articoli 24, 25 e 26.”.
E ai seguenti paragrafi: “2. Per ogni appalto, gli imprenditori iscritti nelle liste possono presentare all’amministrazione aggiudicatrice un certificato d’iscrizione rilasciato dall’autorità competente. Nel certificato sono menzionate le referenze che hanno permesso l’iscrizione sulla lista e la relativa classifica”.
“3. L’iscrizione certificata dalle autorità competenti in una lista ufficiale, costituisce, per le amministrazioni aggiudicatrici degli altri Stati membri, una presunzione di idoneità dell’imprenditore soltanto ai sensi dell’art. 23 lettere a),b),c),d), e g) degli artt. 24 e 25, lettere b) e c) e dell’art. 26 lettere b) e d), e non ai sensi dell’art. 25 lettera a) e dell’art. 26 lettere a), c) ed e) per i lavori corrispondenti alla sua categoria”.
Al di là della interpretazione letterale delle norme di tale direttiva, è chiaro perché nel diritto amministrativo comunitario l’iscrizione in una lista ufficiale di imprenditori non può mai avere effetti costitutivi di status o di situazioni giuridiche soggettive di vantaggio. Infatti lo status preso in considerazione dal diritto comunitario è unico ed unitario, ed è quello appunto di cittadino europeo, da cui deriva, per il cittadino che faccia l’imprenditore o per le società di diritto pubblico e privato equiparate a tale fine dall’art. 58 alle persone fisiche, il godimento di tutti i diritti e la soggezione a tutti i doveri previsti dal Trattato medesimo (art. 8), tra cui indubbiamente il diritto alla libera prestazione dei servizi e l’assoggettamento agli obblighi di concorrenza tra le imprese[16]. Non conoscendo il diritto comunitario la distinzione diritto soggettivo-interesse legittimo, né la degradazione, l’affievolimento, ecc., il diritto sorge dall’art. 59 del Trattato e quindi può essere semplicemente “dichiarato” in funzione di scienza e di conoscenza in un elenco o “lista”.
Se la dottrina italiana non prende in considerazione questo dato di partenza, ogni analisi è parziale perché viene fatta solo attraverso il parametro dell’art. 41, 1° e 2° comma, della Costituzione, o, nella migliore delle ipotesi, ricondotta alla fattispecie dei controlli (ma dove sono i programmi?) del 3° comma del medesimo articolo 41.
Da un punto di vista generale occorrerebbe quindi concludere che la normazione italiana sull’albo primaria e secondaria, almeno per come la giurisprudenza interpreta la natura giuridica dei provvedimenti ed in particolare di quello di iscrizione all’albo, è in contrasto con quella comunitaria, in quanto l’affievolimento o degradazione del diritto soggettivo d’imprenditore a mero interesse legittimo (costantemente affermata dalla giurisprudenza amministrativa) e comunque l’impossibilità del risarcimento del danno ex art. 28 Costituzione per omissione, ritardo o esercizio illegittimo del potere di iscrizione, contrastano irrimediabilmente con l’effettività specifica e risarcitoria dei diritti soggettivi direttamente protetti dal Trattato (v. in giurisprudenza Corte di Giustizia, sentenza del 23 maggio 1996 citata, che ha sottoposto al principio della responsabilità civile e al conseguente risarcimento del danno proprio un provvedimento amministrativo negativo sulla libera circolazione delle merci, in violazione dell’art. 30 del Trattato).
Tuttavia per legittimare una persistente efficacia giuridica dell’A.N.C., quanto meno nei confronti delle imprese italiane, si è invocata la prassi della c.d. discriminazione alla rovescia, consistente nella possibilità, a determinate condizioni, di sottoporre i soli cittadini ed imprese di uno Stato membro ad un regime giuridico più sfavorevole di quello mantenuto nei confronti degli altri cittadini ed imprese comunitarie[17].
Tale tesi, per lo meno ad avviso personale di chi scrive, non convince in quanto si è sviluppata su fattispecie per la massima parte anteriori alla creazione del mercato unico (1993) e allo stesso Trattato di Maastricht che unifica diritti e doveri comunitari, appunto, nello status di cittadino europeo. 
Sotto questo profilo, è irragionevole sostenere che un’impresa italiana, la quale può e deve presentare le proprie iscrizioni in una gara comunitaria (non importa se lanciata in Italia o in un altro Stato europeo), possa essere discriminata nei confronti dei concorrenti stranieri, a suo danno e a favore dei concorrenti; ma anche ammettendo che ciò possa essere legittimato per la partecipazione ai soli appalti di lavori pubblici di importo inferiore alla soglia comunitaria (ma corre l’obbligo di avvertire che il recente Libro Verde sugli appalti pubblici nell’Unione Europea non è certo di questo avviso, perché anzi ritiene che le libertà garantite dal Trattato debbano esplicarsi in tutti gli appalti anche sotto la soglia), non è certamente compatibile con le iscrizioni e i recuperi che consentono la partecipazione agli appalti sopra lo soglia comunitaria. Del resto un problema analogo è stato recentemente affrontato e risolto dalla Corte di Giustizia, con la sentenza 25 aprile 1996 in causa C-87/94 (appalti pubblici - settore dei trasporti - direttiva 90/531/CEE, Commissione c/Regno del Belgio, in Racc. 1996, I, p. 2043 e segg.). Nella motivazione, che conviene riportare integralmente sul punto, si afferma infatti: “Sull’applicabilità del diritto comunitario.
30. È pacifico che la SRWT é un’impresa pubblica la quale gestisce una rete che fornisce un servizio al pubblico nel settore dei trasporti mediante autobus, ai sensi dell’art. 2 della direttiva, e che essa era pertanto tenuta a rispettare, a norma dell’art. 4, le norme della direttiva quando ha assegnato l’appalto di fornitura degli otto lotti di autobus che sono all’origine del ricorso.
31. Tuttavia, poiché tutti gli offerenti erano società belghe, il governo belga ha sostenuto che la causa riguardava una situazione meramente interna, alla quale il diritto comunitario non si applica.
32. Quest’argomento non può essere accolto.
33. Infatti, l’obbligo imposto agli enti aggiudicatori dall’art. 4 n.1, della direttiva non è soggetto ad alcuna condizione relativa alla nazionalità o al luogo di stabilimento degli offerenti. 
Inoltre, come l’avvocato generale ha rilevato al paragrafo 24 delle sue conclusioni, è sempre possibile che imprese stabilite in altri Stati membri siano riguardate, direttamente o indirettamente, dall’assegnazione di un appalto. 

La procedura prevista dall’appalto dev’essere pertanto rispettata indipendentemente dalla nazionalità o dal luogo di stabilimento degli offerenti”. (Raccolta 1996, pp. 2079 - 2080). 
Ora, proprio in base a tale insegnamento, a fortiori, l’accesso alle gare comunitarie sugli appalti, che costituisce il presupposto giuridico per la realizzazione proprio del mercato unico nel settore degli appalti medesimi, non può essere ostacolato nei confronti di alcuna impresa a prescindere dalla nazionalità o dal luogo di stabilimento dell’offerente: sia le amministrazioni aggiudicatrici che gli Stati membri non solo debbono astenersi dalle misure vietate, ma debbono rimuovere quelle esistenti che siano incompatibili. Sul punto già la direttiva 305/71 era precisa in quanto imponeva l’obbligo di adattare le liste ufficiali di imprenditori al diritto comunitario. Ma tale obbligo è ripreso dall’art. 29 della direttiva vigente, ove è scomparso l’inciso “all’entrata in vigore della presente direttiva”, per la semplice ragione che la giurisprudenza comunitaria ha nel frattempo elaborato la regola delle direttive self-executing accettata anche dalla nostra Corte Costituzionale[18] (v. sentenza 64/90 e successive).
Pertanto lo Stato italiano e per esso il Ministero dei Lavori pubblici presso cui è incardinato l’Albo Nazionale dei Costruttori è soggetto ad un doppio obbligo positivo (di adattamento) e negativo (di non mantenere le norme sull’albo che ostacolino la libera prestazione dei servizi).
Poiché il termine per la ricezione della direttiva 93/37 coincide con quello della sua entrata in vigore (v. art. 37) all’obbligo imposto agli Stati membri dall’art. 29 corrisponde un diritto soggettivo dei cittadini e delle imprese direttamente e immediatamente protetto dal Trattato, in quanto il comando impartito è chiaro, preciso e non condizionato.
Di conseguenza, nella misura in cui il diniego di accesso all’albo, ovvero il diniego di recupero di iscrizione od altri istituti - che saranno infra esaminati - venga assunto in modo incompatibile con il principio della libera prestazione dei servizi e recando una discriminazione o un rischio di discriminazione ai cittadini ed imprenditori italiani nell’accesso alle gare quantomeno di rilevanza comunitaria, ritengo che ogni impresa lesa possa avere un’azione di risarcimento danni presso il Tribunale Civile competente contro il Governo italiano in analogia con la sentenza Lomas[19]. 
Inoltre, la tutela specifica del diritto soggettivo comunitario può essere assicurata (come anche la più recente giurisprudenza amministrativa, infra, mostra di ritenere possibile), sia con provvedimenti provvisori ed urgenti che ordinino all’albo l’iscrizione o il recupero di iscrizione da impresa cessante, sia con provvedimenti giurisdizionali di merito che annullino i provvedimenti ed i “comportamenti omissivi” delle autorità dell’albo. In particolare, è anche da ritenere che il giudice amministrativo possa e debba ammettere sia ricorsi ex art. 700 cod. proc. civ., quali ricorsi cautelari autonomi sia provvedimenti inaudita altera parte ex art. 669 cod. proc. civ. in quanto la Corte di Giustizia ha riconosciuto proprio in materia di appalti pubblici la necessità, in base a quanto previsto dall’art. 2 della direttiva 665/89 (e 13/92 per i settori esclusi) che negli Stati membri siano espressamente attribuiti poteri giurisdizionali o equiparati che permettano: a) di prendere con la massima sollecitudine e con procedure d’urgenza provvedimenti provvisori intesi a riparare la violazione o impedire che altri danni siano causati agli interessi coinvolti, compresi i provvedimenti intesi a sospendere o a far sospendere la procedura di aggiudicazione pubblica di un appalto o l’esecuzione di qualsiasi decisione presa dalle autorità aggiudicatrici (per maggiore precisione occorre distinguere tra tutela cautelare specifica nel corso di una procedura apposita di aggiudicazione di un appalto, sentenza Corte di Giustizia 19.9.1996, in causa 236/96 Repubblica Ellenica, Racc. 1996, I, p. 4459 e segg.); anche se il provvedimento o comportamento illegittimo della amministrazione aggiudicatrice sia direttamente o indirettamente collegabile a questioni relative all’iscrizione all’A.N.C.; essa è direttamente prevista dalle due direttive sopra citate; e tutela cautelare anche atipica quale strumento per realizzare nel processo amministrativo il principio di effettività comunitaria, ed in particolare la libera prestazione dei servizi ex art. 59 del Trattato nei confronti di atti e comportamenti dell’A.N.C. illegittimi dal punto di vista comunitario; in tal caso il giudice amministrativo, mancando una fonte diretta di diritto derivato, deve utilizzare il principio di disapplicazione anche processuale della legge interna incompatibile, sancito dalla Corte di Giustizia nella sentenza 19.6.1990 n. 213.89 Factortame, in Racc. 1990, 
I, p. 2433 e segg. e successivamente ripreso nel caso Peterbroek (sentenza Corte di Giustizia 12 dicembre 1995, causa C-312/93 in Raccolta 1995 I, 4599); b) annullare o 
far annullare le decisioni illegittime, compresa la soppressione delle specificazioni tecniche, economiche o finanziarie discriminatorie figuranti nei documenti di gara, nei capitolati d’oneri o in ogni altro documento connesso con la pro-cedura di aggiudicazione dell’appalto in questione (ben 
potendo in tal caso consistere tale documento in un provvedimento negativo dell’Albo sulla iscrizione, recupero, ecc., come pure in un mero comportamento omissivo).

3. Fallimento dell’imprenditore e regime di iscrizione all’albo nazionale dei costruttori: conseguenze sulla impresa fallita (cedente), e possibilità di recupero totale o parziale delle iscrizioni medesime da parte di altre imprese (cessionarie); regime della partecipazione alle gare pubbliche.
Descritto, sia pure sinteticamente, il punto di vista del diritto comunitario, si possono prendere in rassegna i casi più rappresentativi di diritto nazionale, iniziando appunto dalla problematica circa la possibilità di recupero di singole iscrizioni da parte di una impresa nel quadro di una operazione di cessione globale o parziale delle medesime.
Le norme in proposito, contenute dagli artt. 35 e 36 della legge 109/94, non sono di grande aiuto se non nell’ambito di una interpretazione analogica, in quanto riguardano fenomeni dinamici dell’impresa e dell’azienda nel suo complesso, anche se indicativi della volontà di preferire in conformità al diritto comunitario “l’utilizzazione di strumenti di sviluppo imprenditoriale” e comunque fenomeni dinamici fisiologici nei rapporti tra le imprese e quindi nel gioco del mercato, anche degli appalti, rispetto alla immodificabilità soggettiva dell’appaltatore, tanto nei rapporti con le amministrazioni aggiudicatrici, quanto con l’Albo nazionale dei costruttori[20].
Né possono essere direttamente utilizzate le specifiche norme contenute negli articoli 8 (qualificazione) e 9 (norme in materia di partecipazione alle gare) della medesima legge, anche se l’obiettivo del rispetto del diritto comunitario e della libera concorrenza tra operatori deve essere tenuto presente sia nel regolamento di delegificazione relativo alla qualificazione (stante il rinvio diretto contenuto all’art. 8, 1° comma, nei confronti dell’art. 1, 1° comma della stessa legge), sia all’art. 9, in virtù dell’inciso contenuto anch’esso al 1° comma dell’art. 9 (“Fermo restando quanto disposto dall’art. 8”), soprattutto in ordine ai contenuti e finalità del D.M. di “revisione dell’albo esistente” previsto dal 3° comma dell’art. 9 e attualmente in itinere.
Occorre quindi distinguere tra effetti del fallimento sulla iscrizione all’Albo dell’imprenditore falli-
to ed effetti su eventuali cessionari di beni che abbiano interesse a rilevare le singole iscrizioni all’A.N.C. dell’imprenditore fallito.
Quanto al primo la legge è molto chiara in quanto al medesimo art. 8, 7° comma, dispone: “Fino al 31 dicembre 1999, il Comitato Centrale dell’Albo nazionale dei costruttori dispone la sospensione da tre mesi a sei mesi dalla partecipazione alle procedure di affidamento di lavori pubblici nei casi previsti dall’art. 24, 1° comma, della direttiva 93/37/CEE del Consiglio del 14.6.1993. Resta fermo quanto previsto dalla vigente disciplina antimafia ed in materia di misure di prevenzione. Ai fini dell’applicazione delle disposizioni del primo periodo, sono abrogate le norme incompatibili relative alla sospensione e alla cancellazione dall’Albo di cui alla legge 10 febbraio 1962 n. 57, e sono inefficaci i procedimenti iniziati in base alla normativa previgente. A decorrere dal 1 gennaio 2000, all’esclusione dalla partecipazione alle procedure di affidamento provvedono direttamente le stazioni appaltanti sulla base dei medesimi criteri”.
Di conseguenza, “In forza della cennata abrogazione delle norme incompatibili relative alla sospensione e alla cancellazione di cui alla legge 57/1962, deve quindi ritenersi che un imprenditore che sia già stato dichiarato fallito non può più essere cancellato dall’Albo, ma solo sospeso, in quanto lo stato di fallimento o di concordato, che era previsto nel punto 3 dell’art. 21 l.n. 57/62 come autonoma causa di cancellazione è stato incorporato tra le cause di sospensione”[21].
Quanto ai secondi, l’applicabilità del recupero di iscrizioni dell’impresa appartenente all’imprenditore fallito è ammessa nell’ambito delle fattispecie descritte dagli artt. 35 e 36 della legge 109/94 (cessioni di azienda, atti di trasformazione, fusione e scissione; cessioni di ramo d’azienda) in virtù della “preferenza” accordata dall’art. 35, 4° comma, della legge 109/94 alla circolare del Ministero dei LL.PP. 2 agosto 1985 n. 382, pubblicata nella G.U. n. 190 del 13 agosto 1985 rispetto alla più restrittiva previsione contenuta nell’art. 25 del D.M. 9.3.1989 n. 172.
Ciò non solo è coerente alla capacità giuridica e di agire degli organi del fallimento, ma a ben vedere non costituisce altro che una interpretazione estensiva dei diritti di iniziativa economica garantiti dall’art. 41 della Costituzione e dagli artt. 3 e 59 del Trattato sull’Unione Europea: non si comprende infatti perché al fallimento dovrebbe essere vietato compiere quelle operazioni (fatto salvo il limite della tutela degli interessi cui l’intera procedura fallimentare è preordinata e che sono oggettivati alla stregua degli interessi pubblici, attraverso l’attribuzione dei poteri a funzionari pubblici quali il Tribunale, il Giudice Delegato e lo stesso Curatore che è egualmente un pubblico funzionario alla stregua della procedura fallimentare) che sono consentite, per così dire, nelle vicende “fisiologiche” di mutamento oggettivo dell’impresa[22]. Sul punto peraltro la giurisprudenza, per lo menoquella a nostra conoscenza, non si è espressa con sentenze “di merito” ma tuttavia con ordinanze cautelari motivate, sia di primo grado che di appello. 
Di particolare interesse è in proposito Cons. Stato, Sez. IV, 1365/97 relativo alla richiesta di recupero di singole iscrizioni corrispondenti ad alcuni rami d’azienda acquistati da un’impresa nei confronti di altra impresa sottoposta a procedura concorsuale. 
Il Consiglio di Stato ha infatti con notevole precisione e concisione sostenuto: “che l’acquisto da parte di azienda non equivale a subingresso di un’impresa ad altra impresa”; “che pertanto lo stesso acquisto non può esser identificato come prosieguo dell’impresa fallita”; “che d’altra parte la vendita di beni aziendali è possibile nel corso delle procedure concorsuali e che tale alienazione permette il subingresso nel rapporto contrattuale di appalto di opera pubblica, già stipulato dall’impresa sottoposta a procedura concorsuale e già titolare dei beni alienati” (sia pure nei limiti stabiliti dall’art. 36 delle legge 109/94); “che il recupero di iscrizione, a seguito di acquisto di ramo d’azienda da impresa sottoposta a procedura concorsuale, non è un modo per eludere la norma sulla sospensione dell’iscrizione (art. 8, 7° comma, l. 11 febbraio 1994 n. 109) attesa l’eterogeneità tra l’acquisto indicato e la successione ad impresa preesistente”.
Tale essendo lo stato della giurisprudenza cautelare, sulla fattispecie in generale è possibile citare una serie di sentenze, tra cui si segnala per compiutezza e precisione TAR Abruzzo L’Aquila n. 563 del 25.19.1996, in Rassegna TT.AA.RR. 1996, n. 4604 e segg., la cui massima stabilisce: “Nel caso di cessione d’azienda, è ammesso il recupero dell’iscrizione all’A.N.C. in favore dell’impresa avente causa, la quale nelle more dell’apposita procedura è anche legittimata ad eseguire i contratti già stipulati sotto la condizione risolutiva della deliberazione negativa sulla sua domanda di recupero. L’art. 2558 Cod.Civ. secondo cui l’acquirente dell’azienda subentra nei contratti stipulati salvo recesso del terzo entro tre mesi dalla notizia di trasferimento, è applicabile anche ai contratti d’appalto con la pubblica amministrazione”.
Molto importante è anche un punto della motivazione in cui si ribadisce: “Fuori luogo è anche il richiamo al divieto assoluto di cessione del contratto, contenuto nell’atto impugnato, in quanto nella specie non si verte nell’ipotesi di cessione di un contratto, disciplinata dall’art. 1406 cod. civ., cessione che ha effetto solo se l’altra parte vi consente, ma si verte nella ben diversa situazione di cessione di azienda, regolata dall’art. 2558 ricordato che comporta gli effetti che abbiamo visto senza bisogno del consenso del terzo contraente cui è riconosciuta la ricordata facoltà di recesso entro un termine breve e per una giusta causa, facoltà che l’amministrazione non ha nella specie esercitato.
“L’applicabilità dell’articolo 2558 citato anche nei confronti della P.A., discende dal fatto che il contratto d’appalto d’opere pubbliche, una volta stipulato, è un tipico atto di diritto privato stipulato dall’imprenditore per l’esercizio dell’azienda, per cui, in mancanza di una norma derogatoria, si applicano le regole proprie di tale ramo del diritto che prevedono il subentro dell’acquirente dell’azienda nei contratti stipulati per il suo esercizio e che non abbiano - come abbiamo visto non ha il contratto d’appalto di opere pubbliche - carattere personale”[23].
Molto più complessa è la possibilità di subentro in singoli contratti di appalto di opere pubbliche. Vale la pena di ricordare i termini essenziali della questione: l’originaria formulazione dell’art. 339 della legge sui LL.PP. vietava ogni forma di cessione o sostituzione nell’appalto di opere pubbliche. La norma è stata peraltro sostituita dall’art. 22 del D.L. 13 maggio 1991 n.152, convertito in l. 203/91, per cui l’attuale formulazione è solamente la seguente: “È vietata qualunque cessione di credito e qualunque procura, le quali non siano riconosciute”.
Sotto l’impero della norma originaria la dottrina commercialistica si era frastagliata[24]. Ad avviso di chi scrive, e anche del Cianflone, il fallimento determina uno scioglimento del rapporto contrattuale ex nunc 
e non già un’ipotesi di impossibilità sopravvenuta della prestazione[25]. Tuttavia poiché l’art. 81 u.c. della L.F. dispone espressamente che “sono salve le norme relative al contratto d’appalto per le opere pubbliche”. È in queste ultime che si deve trovare la radice per la soluzione del problema. Al riguardo, escluso che la fattispecie della sostituzione sia equiparabile a quella della cessione del contratto (tuttora vietata e penalmente sanzionata dall’art. 18 della legge 55/90) ed escluso che la mera sostituzione sia più vietata dalla legge fondamentale dei LL.PP. il cui articolo 339 è stato, come si è sopra visto, sostituito nel 1991, a nostro avviso la soluzione va ricercata nella natura giuridica dell’appalto di opere pubbliche che nella fase di esecuzione, come limpidamente ricordava il Tar Abruzzo, è un contratto d’appalto retto in linea di principio dalle norme del diritto privato. Non vi sono dunque motivi di ordine generale per non applicare le possibilità previste dall’art. 81 della L.F. anche ai contratti d’appalto dell’imprenditore fallito, ferma restando la cautela di cui l’operazione ai sensi dell’art. 81 della L.F. deve essere circondata.
Anche in tal caso, perlomeno a nostra conoscenza, non risultano precedenti giurisprudenziali relativamente alle possibilità di recupero delle iscrizioni: ma il problema non è correttamente posto in termini di “recupero” e ciò deriva dal fatto che nessuna norma di legge, salvo l’articolo 36 della legge 109/94 a proposito dell’affitto di azienda, si occupa di questa fattispecie.
Nel fenomeno della sostituzione o subentro non vi è trasferimento di un soggetto ad un altro come nel recupero (art. 25 D.M. 172/1989), ma semmai una particolare forma di “voltura” dell’iscrizione in favore del fallimento medesimo: l’istituto non è previsto in alcuna norma di legge, ma a nostro avviso è egualmente possibile costruirlo in analogia con quanto avviene a proposito dell’esercizio provvisorio durante il fallimento (art. 90 della L.F.). Il tema si è concretamente posto in giurisprudenza a proposito di alcune autorizzazioni ad attività economiche, quali l’autorizzazione amministrativa al commercio, l’autorizzazione alle agenzie di viaggio e turismo, l’autorizzazione farmaceutica, ecc.
In realtà, le soluzioni restrittive previste dalle leggi di settore sono giustificate dall’esigenza di proteggere utenti e consumatori dalla ultrattività di un’impresa e di un’azienda che continuino ad essere condotte da un imprenditore dichiarato fallito. Tuttavia, proprio l’esistenza della legge fallimentare ed ora della legge 223/91, che conferma l’ipotesi di affitto d’azienda da parte degli organi fallimentari al terzo, dimostrano che tali interessi pubblici debbono essere contemperati con gli interessi anch’essi oggettivamente pubblici ancorché neutrali (secondo la definizione di Sandulli sulla amministrazione pubblica del diritto privato, che definisce tali funzioni quali funzioni pubbliche neutrali), propri del fallimento e istituzionalmente attribuiti alla cura degli organi fallimentari ciascuno secondo le proprie competenze. 
Pertanto, l’intestazione del contratto al curatore fallimentare comporta che il possesso dell’iscrizione all’albo nella categoria e classifica che “legittima” l’esecuzione dell’opera pubblica oggetto del contratto medesimo deve presumersi continuare in capo al fallimento anche se l’imprenditore originario è stato dichiarato fallito e quindi è attualmente sospeso dall’albo. Si realizza infatti un fatto di interposizione giuridica (come nel caso dell’esercizio della potestà dei genitori); per cui il curatore esercita un compito oggettivamente appartenente all’imprenditore fallito (esecuzione del contratto) per realizzare interessi alieni (tutela del fallimento e quindi dei creditori).
Poiché è l’imprenditore ad essere dichiarato fallito (non l’impresa o l’azienda), non sussistono ostacoli giuridici in una mera operazione di subentro soggettivo (che può tuttalpiù portare ad un obbligo di annotazione degli estremi del curatore fallimentare nell’albo nazionale dei costruttori).
Viceversa non sussistono dubbi sul divieto di cessione di contratto, pacificamente applicabile anche agli organi del fallimento, in considerazione dei superiori interessi pubblici, anche dal punto di vista del bene penalmente protetto dall’art. 18 della legge 55/90, ma non del divieto di cessione di azienda.
 

4. Fallimento dell’imprenditore e disciplina della cessione d’azienda in senso lato (comprensiva cioè del c.d. affitto d’azienda): riflessi sul regime di iscrizione all’A.N.C. e sulla partecipazione alle gare pubbliche.
L’affitto e la vendita dell’azienda nel fallimento, pur non essendo esplicitamente previsti nella legge fallimentare, sono riconosciuti nella normativa successiva (in particolare per l’affitto dalla legge 223/1991) e nella legislazione di tutti gli altri paesi europei e in molti extraeuropei[26]. Dal punto di vista delle opere pubbliche, le due fattispecie sono espressamente riconosciute dall’art. 36 della legge quadro 109/94: “Le disposizioni di cui all’articolo 35 si applicano anche nei casi di trasferimento o di affitto di azienda da parte degli organi della procedura concorsuale, se compiuto a favore di cooperative costituite o da costituirsi secondo le disposizioni della legge 31 gennaio 1992 n. 59 e successive modificazioni, e con la partecipazione maggioritaria di almeno tre quarti dei soci cooperatori, nei cui confronti risultino estinti, a seguito della procedura stessa, rapporti di lavoro subordinato oppure che si trovino in regime di cassa integrazione guadagni o in lista di mobilità di cui all’art. 6 della legge 23 luglio 1991 n. 223”.
Poiché ad una mera analisi letterale la norma può essere interpretata sia in senso restrittivo che estensivo, conviene prima di tutto riportare il commento della dottrina che più approfonditamente si è occupata della nuova fattispecie: si veda in proposito F. Ancora, Commento agli articoli 35 e 36[27]. Scrive in proposito l’autore: “Quanto si è detto nelle righe immediatamente precedenti vale a chiarire l’unica difficoltà interpretativa cui si presta l’art. 36, rappresentata dal dubbio se le operazioni di trasferimento di azienda in favore delle cooperative che esso indica come suscettibili di applicazione delle disposizioni del precedente art. 35 siano le uniche ammesse ad opera degli organi delle procedure concorsuali, pur se essi operano sotto il controllo del giudice.
Al riguardo va considerato che gli effetti in termini di abrogazione o di deroga rispetto alle norme di divieto (rispettivamente all’art. 10 del D.L. 31 gennaio 1994 n. 75, anteriore alla entrata in vigore della legge e all’art.10 del D.L. 31 marzo n. 216 ad essa posteriore) si collegano all’art. 35 solo come occasione.
Tali effetti, infatti, come avviene nella generalità dei casi, trovano la loro causa efficiente, da un lato, nell’art. 15 delle disposizioni preliminari al cod. civ., che stabilisce la regola della abrogazione della norma anteriore ad opera di quella posteriore incompatibile, dall’altro nel principio immanente all’ordinamento per cui la legge speciale preesistente non è toccata dalla legge generale successiva (lex specialis per generale non derogatur). E tali effetti sono scissi dalla effettiva applicazione della norma che è stata occasione del loro verificarsi.
Pertanto, con riferimento all’art. 36, può dirsi che esso tende a legare le disposizioni procedimentali dell’art. 35 alle sole ipotesi del trasferimento o affitto dell’azienda a determinate figure di cooperative. Esso, invece, lascia del tutto libera da vincoli procedimentali le altre ipotesi di cessione d’azienda disposte dagli organi delle procedure concorsuali, le quali, sono comunque legittime, per l’effetto di abrogazione o di deroga che la introduzione della normativa di cui all’art. 35 (indipendente dalla sua applicazione) ha realizzato nei confronti di quella di carattere restrittivo sulla cessione del contratto conseguente a cessione di azienda o a modificazioni della struttura imprenditoriale.
Va, infine, segnalato che la Direttiva del Presidente del Consiglio dei Ministri 29 aprile 1994 in materia di appalti e forniture pubbliche ha opportunamente puntualizzato che i contratti di appalto per i quali opera il subentro in caso di cessione di azienda, di trasferimento, di fusione o scissione, sono anche quelli antecedenti all’entrata in vigore della legge 109”. 
Anche se l’opinione appare condivisibile, essa da un lato non risolve e non prende posizione sul regime del “recupero” delle iscrizioni in caso di affitto d’azienda; dall’altro non attinge ai principi generali che guidano la soluzione corretta.
Il problema invero si pone nella pratica perché un’interpretazione restrittiva dell’art. 36 potrebbe a sua volta fondarsi su un’interpretazione restrittiva dell’art. 3, 4° comma, della legge 23 luglio 1991 n. 223 che si rubrica come intervento straordinario di integrazione salariale e procedure concorsuali. Ed in effetti la giurisprudenza civile oscilla sul carattere automatico della prelazione dell’affittuario in caso di vendita successiva dell’azienda ovvero sulla sua riconducibilità alla sola fattispecie normativamente autorizzata appunto dal 4° comma dell’art. 3 della legge 223/91. 
In realtà nel caso in questione va ripresa l’argomentazione generale più volte adottata nel corso del lavoro secondo cui alienazione e affitto d’azienda sono fenomeni fisiologici nella dinamica delle imprese, che non vengono meno durante il processo fallimentare, quando si dimostri il vantaggio di tali soluzioni per la cura degli interessi oggettivamente e “neutralmente” pubblici propri del processo di fallimento.
Mancando nella legge fallimentare norme che si oppongano ad una interpretazione normale della fattispecie, l’ipotesi dell’art. 36 non rappresenta che una estensione applicativa (non una analogia juris) della possibilità di affitto e alienazione d’azienda durante la vita fisiologica delle imprese.
Conseguentemente si risolve anche il problema del recupero di iscrizione all’A.N.C., dal momento che sia nell’affitto che nell’alienazione dell’azienda (ed al contrario dell’esercizio provvisorio e del subentro nei singoli contratti d’appalto di opere pubbliche) ci si trova effettivamente di fronte ad un’impresa cedente e ad una cessionaria.
L’unica differenza è che mentre il trasferimento di azienda durante la procedura di fallimento ha effetti permanenti come nel normale caso di cessione di azienda o di suoi rami (art. 35 legge Merloni), l’affitto è una fattispecie giuridica stabile ma provvisoria. Quindi il c.d. recupero non può ottenersi a favore dell’imprenditore affittuario, a tempo indeterminato, ma per il tempo automaticamente commisurato alla durata del contratto di affitto: ciò non deve stupire perché la categoria delle c.d. autorizzazioni in precario è diffusa in tutti i provvedimenti dichiarativi e autorizzatori e a fortiori nei provvedimenti concessori (autorizzazioni al commercio stagionali, concessioni edilizie in precario, concessioni temporanee su beni demaniali ecc.). Ciò a garanzia degli interessi pubblici di settore curati dall’A.N.C. per cui il vantaggio ottenuto dall’affittuario d’azienda non può essere “personalizzato” (a differenza della cessione definitiva della azienda medesima, non rilevando se essa avvenga nel quadro di una procedura fallimentare o nel corso di una normale transazione commerciale tra imprese)

5. Fallimento dell’imprenditore e regime del c.d. esercizio provvisorio: riflessi sulla esecuzione in corso di opere pubbliche, e sulla possibilità dell’esercizio provvisorio di partecipazione a nuove gare.
Il tema può essere trattato molto brevemente anche in considerazione del dato sociologico che vede ormai prevalere l’affitto d’azienda rispetto all’esercizio provvisorio.
Come la dottrina ha notato spesso sono sorti problemi di conflitto apparente tra la legge fallimentare e norme di settore (es. art. 7 legge 426/71 e D.M. 14.1.1972 art. 24 che prevedono che il fallimento dell’imprenditore commerciale comporti la cancellazione di questi dal REC e la revoca dell’autorizzazione amministrativa rilasciata dal Sindaco). In realtà si deve tener presente che anche al fondo dell’esercizio provvisorio vi è la generale figura dogmatica della sostituzione per cui avendo disposto il tribunale ai sensi dell’art. 90 della L.F. la “continuazione temporanea dell’esercizio dell’impresa del fallito” quando dall’interruzione improvvisa può derivare un danno grave ed irreparabile, il curatore deve sostituire nei rapporti di diritto pubblico e privato proprio l’imprenditore fallito. Essendo pacifico che anche al fallimento di società commerciale può applicarsi detto esercizio provvisorio[28], anche in tal caso il curatore fallimentare si sostituisce nella titolarità dei rapporti di diritto pubblico all’imprenditore fallito, ivi compresi quelli relativi all’iscrizione nell’A.N.C..
Tuttavia non trattandosi di un vero e proprio subingresso (come nel caso di cessione di impresa commerciale mortis causa o inter vivos ai fini della voltura delle autorizzazioni amministrative), ma di una sostituzione, non siamo in presenza di un trasferimento del destinatario del provvedimento amministrativo, ma di un provvedimento di annotazione a durata automaticamente connessa a quella dell’esercizio provvisorio. Ciò ovviamente rileva e non poco sulla possibilità per l’esercizio provvisorio di partecipare a nuove gare, tenendo conto dell’ampia discrezionalità riconosciuta anche dal diritto comunitario alle stazioni appaltanti e dell’obbligo del Comitato Centrale dell’A.N.C. specificato dall’art. 8, 7° comma, della legge 109/94. Nondimeno un interesse alla partecipazione non meramente teorico potrebbe sorgere in capo all’esercizio provvisorio nei casi di avvenuta aggiudicazione di appalti mediante accordo quadro, o quando in capo all’imprenditore fallito era stata attribuita la qualifica di imprenditore determinato ai fini del legittimo uso della trattativa privata ecc. Sono casi che per la loro complessità non possono essere trattati in via generale ma che richiederebbero un’analisi a parte.

6. Conseguenze giuridiche nel caso di illegittimo diniego o ritardo nell’adozione di provvedimento da parte dell’A.N.C.
Salvo restando quanto sopra detto a proposito della responsabilità civile nel diritto comunitario per lesione apportata da atti o comportamenti di ogni potere pubblico (legislativo, amministrativo, giudiziario) dello Stato membro ai diritti direttamente protetti dal Trattato (tra cui rientra sicuramente quello alla libera prestazione dei servizi), osserviamo che anche in base alla normativa nazionale e ai principi generali sulla responsabilità della P.A. per lesione di diritti soggettivi (art. 28 Costituzione; T.U. 10.1.1957 n.3 art. 22 e segg.) l’ingiustificato rifiuto di recupero, voltura o annotazione nelle fattispecie sopra descritte, come pure il comportamento omissivo potrebbe essere attratto dalla fattispecie di risarcimento del danno.
Infatti anche ad ammettere che l’iscrizione all’A.N.C. ex novo sia costitutiva di un diritto soggettivo e che quindi in caso di diniego o ritardo il richiedente sia titolare di un mero interesse legittimo, tale non è certamente la situazione di riferimento nel caso di “recupero” o provvedimenti di analogo tenore e contenuto. In essi infatti il provvedimento dell’A.N.C. è sostanzialmente un “atto dovuto” a fronte di diritti del cessionario, subentrante o sostituto. Di conseguenza potrebbe applicarsi per analogia la giurisprudenza costante della Corte di Cassazione in materia di illegittimo annullamento, o revoca, di autorizzazioni commerciali, come pure di illegittimo rifiuto o trasferimento della titolarità delle medesime. Oltre a ciò resta la responsabilità personale del funzionario inadempiente, soprattutto per i casi di omissione o indebito ritardo nel procedimenti, i cui obblighi sono ormai fissati in linea generale dagli articoli 1 e segg., e 4 e segg. della legge sul procedimento amministrativo 7.8.1990 n.241.