2. L’orientamento generale del
diritto comunitario in materia.
2.1. Impresa, fallimento e libera
prestazione dei servizi.
Come è noto, il fallimento non risulta finora
oggetto di specifiche direttive della C.E., al contrario di altre fattispecie
dinamiche dell’imprenditore, soprattutto in materia societaria.
Ciò non toglie la possibilità di ricavare
dei principi generali di diritto originario o derivato applicabili anche
al fallimento, nell’ambito dei rapporti con la procedura di attribuzione
del contratto di appalto di oo.pp. o la sua esecuzione.
I due principi fondamentali attorno ai quali si innesta
la disciplina comunitaria degli appalti pubblici sono infatti costituiti:
dalla libera prestazione dei servizi (art. 59 del Trattato), servizi definiti
dal successivo art. 60 del Trattato di Maastricht; dalle regole di concorrenza
tra le imprese (art. 85 e segg.) applicabili anche alle imprese pubbliche
nei limiti dei paragrafi 1 e 2 dell’art. 90.
Per completezza, è rilevante anche l’art. 92 del
Trattato (aiuti pubblici), perché in alcuni casi è suscettibile
di integrare la c.d. offerta anomala.
I principi fondamentali, tratti da libertà economiche
che secondo il Trattato sono anch’esse fondamentali [1]
attribuiscono quindi in modo immediato e diretto ai cittadini comunitari
“diritti soggettivi” che possono essere fatti valere nei rapporti giuridici
di tipo verticale (con i pubblici poteri) o di tipo orizzontale (con le
altre imprese pubbliche e private). Tali situazioni giuridiche soggettive
possono essere “limitate” per ragioni specifiche previste dal Trattato
medesimo (v. ad es. l’art. 36 sulle eccezioni e limitazioni al diritto
alla libera circolazione delle merci), ma l’interpretazione della portata
e del campo di applicazione della eccezione o limitazione non spetta all’autorità
nazionale competente all’emanazione del provvedimento sfavorevole, bensì
al controllo amministrativo della Commissione C.E. e a quello giurisdizionale
della Corte di Giustizia.
Da un punto di vista dogmatico, quindi, mentre esiste
un effetto giuridico di “limitazione” e al limite di “estinzione” di situazioni
giuridiche soggettive per opera del provvedimento amministrativo eccezionale,
non esiste un effetto giuridico “conformativo” proprio dello stato sociale
di diritto, ovvero dell’interventismo dirigistico e pianificatore dell’economia
privata (art. 41, 3° comma, Costituzione); e nemmeno si dà ingresso
alla c.d. degradazione o affievolimento del diritto soggettivo in interesse
legittimo. Ciò in quanto non solo il diritto comunitario non conosce
e non applica la distinzione tra diritti soggettivi ed interessi legittimi
(art. B del Trattato di Maastricht, che garantisce la protezione di diritti
ed interessi; art. 8 del Trattato modificato dal Trattato sulla U.E., secondo
cui i cittadini comunitari godono dei diritti e sono soggetti ai doveri
previsti dalle norme del Trattato medesimo); ma rifiuta la distinzione
delle norme in norme di azione e norme di relazione, ancora applicata dalla
giurisprudenza della Cassazione e del giudice amministrativo;[2] ed infine
non applica la prassi della previa intermediazione dell’annullamento dei
provvedimenti amministrativi illegittimi, che è poi alla base del
concetto di diritto patrimoniale conseguenziale presente non nella nostra
Costituzione, bensì nelle leggi sul Consiglio di Stato e sui TT.AA.RR.
Infatti, l’azione di annullamento dei provvedimenti amministrativi illegittimi
adottati dalle istituzioni comunitarie
(art. 171 del Trattato) è indipendente da quella
di responsabilità e risarcimento danni (artt. 178 e 215 del Trattato),
che si estende anche a comportamenti e ingiustificati ritardi nel-
la omissione di atti, quanto meno dovuti; mentre esiste
addirittura un’azione per valutare e sanzionare l’illegittimità
della omissione di atti da parte delle istituzioni comunitarie, e quindi
un’azione sul comportamento della p.a. e non sul provvedimento.
Questi concetti generali, che potrebbero sembrare vaghi
ed astratti, anche a causa del malvezzo italiano di considerare più
importanti gli atti derivati di diritto comunitario (regola-menti, direttive,
decisioni) e non quelli di rango costituzionale e originario (principi
del Trattato, principi non scritti
ma dichiarati con efficacia vincolante per ogni pubblico
potere di ogni Stato membro dalla Corte di Giustizia della U.E.), sono
invece essenziali per impostare correttamente il punto di vista comunitario
sul fallimento e sull’albo nazionale dei costruttori.
Quanto al primo, vi sono dei precedenti nella giurisprudenza
della Corte di Giustizia, che prendono atto della cessione d’azienda, sia
pure ai fini della applicazione di determinate disposizioni contenute nella
direttiva 77/187/CEE - concernente il ravvicinamento delle legislazioni
degli Stati membri, relative alla salvaguardia dei diritti dei lavoratori
in caso di trasferimento di imprese, di stabilimenti o di parti di stabilimenti[3].
Inoltre un accenno, sia pure indiretto, è contenuto nella legge
comunitaria 428/90, capo VII (Il lavoro), le cui disposizioni sono state
appunto emanate per recepire ed applicare con il metodo dettato dalle leggi
comunitarie generali (86/89) alcune direttive comunitarie in materia di
lavoro: in particolare l’art. 47, 6° comma: “I lavoratori che non passano
alle dipendenze dell’acquirente, dell’affittuario o del subentrante hanno
diritto di precedenza nelle assunzioni che questi ultimi effettuino entro
un anno dalla data del trasferimento, ovvero entro il periodo maggiore
stabilito dagli accordi collettivi. Nei confronti dei lavoratori predetti,
che vengano assunti dall’acquirente, dall’affittuario o dal subentrante
in un momento successivo al trasferimento d’azienda, non trova applicazione
l’articolo 2112 del codice civile”.
Si può quindi ragionevolmente affermare che l’istituto
e la procedura di fallimento (rimessi, come si vedrà subito infra,
alle legislazioni e regolamentazioni nazionali) si inquadra, anche nel
diritto comunitario, da un lato nelle sopravvenienze giuridiche, come altri
mutamenti dinamici dell’impresa, dall’altro nei fatti di interposizione
(attraverso gli organi del fallimento e le potestà ad essi attribuite);
e che, anzi, le procedure fallimentari sono considerate importanti ai fini
di garantire il rispetto della concorrenza sana ed effettiva tra le imprese
(art. 3 del Trattato di Maastricht), pur lasciandosi, in ultima analisi
la discrezionalità di scelta alle amministrazioni aggiudicatrici,
le sole entità competenti, sempre secondo la giurisprudenza della
Corte di Giustizia, a verificare in concreto i requisiti generali di partecipazione
alle gare richiesti alle imprese concorrenti). Dispone infatti la direttiva
93/37/C.E. - ma la disposizione è identica in tutte le direttive
sugli appalti pubblici -, all’art. 24: “Può essere escluso dalla
partecipazione all’appalto ogni imprenditore:
a] che sia in stato di fallimento, di liquidazione, di
cessazione d’attività, di regolamento giudiziario o di concordato
preventivo o in ogni altra analoga situazione risultante da una procedura
della stessa natura prevista dalle legislazioni o regolamentazioni nazionali;
b] relativamente al quale sia in corso una procedura
di di-chiarazione di fallimento, di amministrazione controllata, di concordato
preventivo oppure ogni altra procedura della
stessa natura prevista dalle legislazioni e regolamentazioni
nazionali”.
Tale disposizione è riportata quasi letteralmente
dal D.Lgs. 19 dicembre 1991 n. 406, di recezione della
direttiva 89/440/C.E., non essendo finora stata recepita
la direttiva 93/37/CEE sugli appalti di lavori pubblici.
È importante notare che, peraltro, la direttiva
medesima prende in considerazione non già la fattispecie del fallimento
come processo,[4] ma il procedimento preparatorio della dichiarazione di
fallimento e il provvedimento giurisdizionale di dichiarazione attraverso
gli effetti - non importa qui accertare se di tipo costitutivo o ricognitivo
- della sentenza: cioè lo stato di fallimento. Pertanto, ricostruire
il regime e le possibilità giuridiche del “fallimento” attraverso
i suoi istituti (affitto d’azienda, cessione in blocco, vendita di rami,
cessione delle iscrizioni ecc.) spetta all’interprete che, peraltro, è
obbligato ad utilizzare il criterio di interpretazione conforme al diritto
comunitario[5]. Sotto questo profilo, per quanto riguarda la partecipazione
alle gare pubbliche, il principio generale è quello della concorrenza
seria ed effettiva: pertanto l’amministrazione aggiudicatrice - a prescindere
dalle norme nazionali sulla sospensione e cancellazione dall’albo, che
peraltro non riguardano le altre imprese comunitarie, se non quelle del
Belgio - che ammetta alla partecipazione le imprese che si trovano nella
situazione di cui alle lettere a) e b) dell’art. 24 della citata direttiva,
deve applicare i principi dell’obbligo di motivazione e di proporzionalità,[6]
non assicurando altrimenti la par condicio tra le imprese concorrenti e
soprattutto la “serietà” ed “effettività” di concorrenza
nel procedimento di attribuzione dell’appalto pubblico.
Per quanto riguarda la fase di esecuzione in senso stretto
dell’opera pubblica, il diritto comunitario non interviene direttamente,
in quanto le direttive hanno di mira soprattutto l’armonizzazione procedurale:
peraltro, ciò non toglie che dall’armonizzazione procedimentale
derivi anche un effetto di armonizzazione “sostanziale” in quanto le direttive
contengono una definizione precisa del contratto di appalto e l’enucleazione
della sua natura giuridica: di conseguenza, se il diritto comunitario definisce
come contratto di appalto l’esecuzione comunque denominata di lavori pubblici
o di opera pubblica affidata da una amministrazione aggiudicatrice ad un
imprenditore, vanno poi applicati i principi generali che regolano negli
Stati membri l’esecuzione dei contratti e le vicende fisiologiche e patologiche
dei medesimi[7]. Sotto questo profilo, gli eventuali procedimenti e provvedimenti
amministrativi “autoritativi” intervenienti nella fase di esecuzione del
contratto debbono essere compatibili con la libera prestazione dei servizi,
al pari di quelli che intervengono nella fase di formazione del contratto
medesimo.
Sotto questo profilo il punto di maggior frizione tra
diritto comunitario e diritto amministrativo nazionale riguarda il c.d.
intuitus personae, cioè il carattere personale e fiduciario del
contratto di appalto[8]. Per il diritto comunitario le trasformazioni dell’impresa
che rientrano nella dinamica naturale dei fatti economici vanno riconosciute,
salvi i limiti dettati dal diritto penale e dalle norme di polizia (ordine
pubblico, ecc.): tale impostazione è alla base dell’equiparazione
dei raggruppamenti di imprenditori comunque denominati e imprenditori singoli,
ma non esaurisce i suoi effetti nella fase di attribuzione del contratto,
perché - come si vedrà subito appresso - la problematica
rifluisce anche nella fase di gestione del contratto, ad esempio attraverso
il recupero delle iscrizioni A.N.C.; ovvero le procedure di vendita d’azienda,
affitto ed esercizio provvisorio, durante il processo fallimentare.
In tale contesto, proprio la riconduzione al primato
dei principi generali del diritto comunitario originario (in particolare
la libera prestazione dei servizi, ed anche la libera circolazione delle
merci) consente di indirizzare in modo corretto e generale la soluzione
globale del problema senza doversi limitare al caso singolo, in quanto
direttamente contemplato dalle direttive sugli appalti o dalla giurisprudenza
della Corte di Giustizia (è l’esempio del consorzio “aperto” negli
appalti pubblici di servizi, avversato talvolta dalla giurisprudenza; oppure
della partecipazione di una holding operativa alla iscrizione nell’albo
e alle gare pubbliche in conto delle imprese collegate e controllate)[9].
Forse la giurisprudenza ordinaria e amministrativa sottovaluta
gli obblighi su di essa incombenti di assicurare il primato e la diretta
applicazione del diritto comunitario derivante dal principio di leale collaborazione
dell’art. 5 del Trattato; ma occorre ricordare che, dopo il gruppo di sentenze
della Corte di Giustizia del 1996[10] sulla responsabilità diretta
di tutti i pubblici poteri degli Stati membri che con le proprie azioni
od omissioni abbiano recato lesioni a situazioni giuridiche soggettive
protette direttamente dal Trattato, il quadro di riferimento giuridico
è alquanto mutato, se non altro perché il cittadino comunitario
leso nei suoi diritti ha un’azione diretta di risarcimento nei confronti
del Governo dello Stato membro inadempiente, presso il Tribunale Civile
competente. E tale azione non è soggetta ad alcuna preventiva intermediazione:
né la dichiarazione di costituzionalità della legge interna
incompatibile, né l’annullamento del provvedimento amministrativo
illegittimo secondo i parametri del diritto comunitario, né, tanto
meno, il preventivo accertamento della responsabilità civile del
giudice.
Quindi il problema va affrontato e risolto in termini
generali, prendendo atto che le modificazioni oggettive dell’impresa e
dell’azienda compatibili con il diritto comunitario e non vietate da norme
penali dell’ordinamento nazionale non possono essere ostacolate da un preteso
intuitus personae del contratto di appalto di opere pubbliche, perfettamente
comprensibile anche nell’analisi economica dell’imprenditore ottocentesco[11],
ma non rispondente alla situazione di fatto e di diritto dell’impresa nel
2000.
Occorre prendere atto che anche nella legislazione italiana
sono stati fatti notevoli passi avanti: basti ricordare gli articoli 35
e 36 della legge 109/94 e successive modificazioni ed integrazioni. Ma,
ad esempio, tutte le norme di recezione delle direttive appalti sui R.T.I.
(nello stesso D.Lgs. 406/91, nella legge 109/94, nei D.Lgs. 157 e 158/95)
sono quantomeno “carenti” rispetto agli obblighi imposti dal diritto comunitario
al proposito; e quindi, o vengono interpretate in modo conforme, in modo
da assicurare quell’effetto utile che è alla base del diritto comunitario
medesimo, oppure debbono essere disapplicate in parte qua e non solo dalla
P.A.[12], ma soprattut-
to da parte del giudice che addirit-
tura può e deve disapplicare anche
norme di diritto processuale incompatibili[13].
Del resto non mancano in giurisprudenza e nell’attività
consultiva sentenze e pareri che prendono atto con chiarezza della forza
integratrice del diritto comunitario rispetto alle discipline amministrative
nazionali. Rinviando infra l’analisi delle pronunce cautelari del TAR e
del Consiglio di Stato in merito alla possibilità di recupero di
iscrizioni da imprese dichiarate fallite, è sufficiente ricordare
la decisa presa di posizione del Consiglio di Stato, Sez. II, n. 552/97
del 12 marzo 1997, in merito alla vicenda della incorporazione della Società
Telecom nella Stet: in una fattispecie, cioè, dove l’intuitus personae
derivante dall’affidamento della concessione di pubblico servizio ai sensi
del D.P.R.. 156/1973 è indiscutibile. Premesso che la incorporazione
costituisce una forma di
realizzazione della fusione delle società (art.
2501, 1° comma, cod.civ.), essa è cioè uno strumento
per realizzare lo sviluppo delle imprese attraverso il valore aggiunto
derivante dalla concentrazione di esse, l’alto consesso, oltre ad altre
pregevoli considerazioni, pone quella secondo cui: “Una diversa conclusione,
infine, condurrebbe alla non accettabile conseguenza di impedire alla società
titolare della concessione di servizi di telecomunicazione l’utilizzazione
di uno strumento imprenditoriale quale la incorporazione in altra società;
ciò sarebbe irrazionale e contrastante con l’esercizio dei diritti
di iniziativa economica privata riconosciuti dalla Costituzione e dal Trattato
C.E.”.
Effettivamente, l’organo consultivo ha toccato il punto
centrale della questione, dal momento che anche la Costituzione, salvo
i limiti delle libertà fondamentali e dei diritti umani[14] va quantomeno
interpretata in modo conforme all’ordinamento comunitario. Da ciò
i ripetuti e recenti tentativi di configurare nell’art. 41, 1° comma,
il riconoscimento del mercato e delle sue regole (che peraltro, si osserva
incidentalmente, dovrebbero convivere con quella della programmazione dell’iniziativa
economica pubblica e privata a fini sociali e financo con quelle della
riserva ai pubblici poteri dei servizi pubblici, delle fonti d’energia
e dei monopoli, secondo la discrezionale valutazione del legislatore interno:
art. 43).
Ora, per impostare correttamente il problema nei confronti
del fallimento, occorre attenersi ad una verità elementare, riconosciuta
anche dal diritto comunitario, cioè quella secondo cui chi fallisce
è il soggetto, cioè l’imprenditore, anche se in forma societaria,
ma non l’impresa o l’azienda oggettivamente considerate (artt. 2082 e 2558
cod.civ.).
Tale constatazione, sempre maggiormente messa in evidenza
dalla dottrina del diritto commerciale e del diritto fallimentare, è
alla base di istituti quali l’affitto d’azienda, la vendita in blocco,
ecc., perché l’impresa non è solo diritto soggettivo dell’imprenditore,
non più di quanto la pubblica amministrazione sia organo esecutivo
dei programmi del potere politico. Per cui il principio della libera prestazione
dei servizi si applica anche a tale fattispecie, pur nei limiti e con le
cautele che sono dettate dal diritto nazionale. Sotto questo profilo, l’insegnamento
della Corte di Giustizia è chiaro: tranne le fattispecie attratte
dalla competenza diretta ed esclusiva del diritto comunitario (ad esempio
nella materia agricola o nella politica commerciale e doganale comune),
laddove il diritto soggettivo comunitario non può subire degradazioni
o affievolimenti di sorta ad opera del legislatore o dell’amministrazione
dello Stato membro, spetta alle competenti autorità di questo stabilire
le legislazioni e le regolamentazioni inerenti, che peraltro debbono perseguire
il principio della effettività comunitaria e cioè assicurare
la tutela efficace e rapida (compatibilmente con le esigenze dell’ordinamento
giudiziario) dei diritti soggettivi direttamente protetti dall’ordinamento
comunitario, ivi compreso quello alla libera prestazione dei servizi (art.
59 del Trattato).
Quindi, in ultima analisi, il problema della effettività
della libera prestazione dei servizi nel quadro delle procedure fallimentari,
non si pone con riferimento all’ammissibilità di istituti quali
l’affitto e la vendita d’azienda, del resto ormai esplicitamente riconosciuto
dalla legge 223/1991, ma nei rapporti di diritto pubblico incidenti sulla
libera prestazione dei servizi, ed in particolare con i provvedimenti (iscrizione,
sospensione, cancellazione, recupero di iscrizione) dell’Albo Nazionale
dei Costruttori.
Pare quindi essenziale, prima di affrontare, pure con
riferimento al diritto nazionale, le singole fattispecie, verificare anche
il parametro comunitario rispetto all’albo medesimo.
2.2 I provvedimenti dell’Albo Nazionale
dei Costruttori e il diritto alla libera prestazione dei servizi.
Molto sinteticamente, occorre ricordare che l’Albo Nazionale
dei Costruttori viene considerato dal diritto comunitario una “lista ufficiale
di imprenditori”: cioè, secondo la dogmatica del diritto amministrativo
comunitario, un provvedimento costitutivo di un procedimento dichiarativo,
nel quale non vi è spazio per la creazione di status e, meno che
mai, per la creazione o costituzione di diritti soggettivi.[15] Ciò
consente di fare a meno della complessa diatriba dottrinale interna, la
quale oscilla come il pendolo di Foucault tra la teorica della limitazione
e quella della costituzione delle situazioni giuridiche soggettive per
opera di provvedimenti della P.A. sulla base della riserva di legge (art.
41, 2° comma e 97 Costituzione). Si deve peraltro incidentalmente notare
che la tesi della creazione di status (quale onore equiparare l’appaltatore
iscritto all’albo ad una sorta di cittadino-imprenditore!) scopre un involontario
lapsus freudiano (dal momento che anche il diritto ed in particolare il
diritto pubblico, particolarmente legato ai fenomeni del potere, non sfugge
alle regole della psicanalisi), perché denota l’intento corporativo
da cui è animata la disciplina, degno di altri regimi e sistemi
economici.
Di fatto già la direttiva 71/305, pubblicata sulla
G.U.C.E. del 16/8/71, n. L 185 all’art. 28, paragrafo 1, prescriveva: “Gli
Stati membri ove esistono liste ufficiali di imprenditori devono, all’entrata
in vigore della presente direttiva, adattarle alle disposizioni dell’art.
23 lettere a),b),c),d) e g) e degli articoli 24, 25 e 26.”.
E ai seguenti paragrafi: “2. Per ogni appalto, gli imprenditori
iscritti nelle liste possono presentare all’amministrazione aggiudicatrice
un certificato d’iscrizione rilasciato dall’autorità competente.
Nel certificato sono menzionate le referenze che hanno permesso l’iscrizione
sulla lista e la relativa classifica”.
“3. L’iscrizione certificata dalle autorità competenti
in una lista ufficiale, costituisce, per le amministrazioni aggiudicatrici
degli altri Stati membri, una presunzione di idoneità dell’imprenditore
soltanto ai sensi dell’art. 23 lettere a),b),c),d), e g) degli artt. 24
e 25, lettere b) e c) e dell’art. 26 lettere b) e d), e non ai sensi dell’art.
25 lettera a) e dell’art. 26 lettere a), c) ed e) per i lavori corrispondenti
alla sua categoria”.
Al di là della interpretazione letterale delle
norme di tale direttiva, è chiaro perché nel diritto amministrativo
comunitario l’iscrizione in una lista ufficiale di imprenditori non può
mai avere effetti costitutivi di status o di situazioni giuridiche soggettive
di vantaggio. Infatti lo status preso in considerazione dal diritto comunitario
è unico ed unitario, ed è quello appunto di cittadino europeo,
da cui deriva, per il cittadino che faccia l’imprenditore o per le società
di diritto pubblico e privato equiparate a tale fine dall’art. 58 alle
persone fisiche, il godimento di tutti i diritti e la soggezione a tutti
i doveri previsti dal Trattato medesimo (art. 8), tra cui indubbiamente
il diritto alla libera prestazione dei servizi e l’assoggettamento agli
obblighi di concorrenza tra le imprese[16]. Non conoscendo il diritto comunitario
la distinzione diritto soggettivo-interesse legittimo, né la degradazione,
l’affievolimento, ecc., il diritto sorge dall’art. 59 del Trattato e quindi
può essere semplicemente “dichiarato” in funzione di scienza e di
conoscenza in un elenco o “lista”.
Se la dottrina italiana non prende in considerazione
questo dato di partenza, ogni analisi è parziale perché viene
fatta solo attraverso il parametro dell’art. 41, 1° e 2° comma,
della Costituzione, o, nella migliore delle ipotesi, ricondotta alla fattispecie
dei controlli (ma dove sono i programmi?) del 3° comma del medesimo
articolo 41.
Da un punto di vista generale occorrerebbe quindi concludere
che la normazione italiana sull’albo primaria e secondaria, almeno per
come la giurisprudenza interpreta la natura giuridica dei provvedimenti
ed in particolare di quello di iscrizione all’albo, è in contrasto
con quella comunitaria, in quanto l’affievolimento o degradazione del diritto
soggettivo d’imprenditore a mero interesse legittimo (costantemente affermata
dalla giurisprudenza amministrativa) e comunque l’impossibilità
del risarcimento del danno ex art. 28 Costituzione per omissione, ritardo
o esercizio illegittimo del potere di iscrizione, contrastano irrimediabilmente
con l’effettività specifica e risarcitoria dei diritti soggettivi
direttamente protetti dal Trattato (v. in giurisprudenza Corte di Giustizia,
sentenza del 23 maggio 1996 citata, che ha sottoposto al principio della
responsabilità civile e al conseguente risarcimento del danno proprio
un provvedimento amministrativo negativo sulla libera circolazione delle
merci, in violazione dell’art. 30 del Trattato).
Tuttavia per legittimare una persistente efficacia giuridica
dell’A.N.C., quanto meno nei confronti delle imprese italiane, si è
invocata la prassi della c.d. discriminazione alla rovescia, consistente
nella possibilità, a determinate condizioni, di sottoporre i soli
cittadini ed imprese di uno Stato membro ad un regime giuridico più
sfavorevole di quello mantenuto nei confronti degli altri cittadini ed
imprese comunitarie[17].
Tale tesi, per lo meno ad avviso personale di chi scrive,
non convince in quanto si è sviluppata su fattispecie per la massima
parte anteriori alla creazione del mercato unico (1993) e allo stesso Trattato
di Maastricht che unifica diritti e doveri comunitari, appunto, nello status
di cittadino europeo.
Sotto questo profilo, è irragionevole sostenere
che un’impresa italiana, la quale può e deve presentare le proprie
iscrizioni in una gara comunitaria (non importa se lanciata in Italia o
in un altro Stato europeo), possa essere discriminata nei confronti dei
concorrenti stranieri, a suo danno e a favore dei concorrenti; ma anche
ammettendo che ciò possa essere legittimato per la partecipazione
ai soli appalti di lavori pubblici di importo inferiore alla soglia comunitaria
(ma corre l’obbligo di avvertire che il recente Libro Verde sugli appalti
pubblici nell’Unione Europea non è certo di questo avviso, perché
anzi ritiene che le libertà garantite dal Trattato debbano esplicarsi
in tutti gli appalti anche sotto la soglia), non è certamente compatibile
con le iscrizioni e i recuperi che consentono la partecipazione agli appalti
sopra lo soglia comunitaria. Del resto un problema analogo è stato
recentemente affrontato e risolto dalla Corte di Giustizia, con la sentenza
25 aprile 1996 in causa C-87/94 (appalti pubblici - settore dei trasporti
- direttiva 90/531/CEE, Commissione c/Regno del Belgio, in Racc. 1996,
I, p. 2043 e segg.). Nella motivazione, che conviene riportare integralmente
sul punto, si afferma infatti: “Sull’applicabilità del diritto comunitario.
30. È pacifico che la SRWT é un’impresa
pubblica la quale gestisce una rete che fornisce un servizio al pubblico
nel settore dei trasporti mediante autobus, ai sensi dell’art. 2 della
direttiva, e che essa era pertanto tenuta a rispettare, a norma dell’art.
4, le norme della direttiva quando ha assegnato l’appalto di fornitura
degli otto lotti di autobus che sono all’origine del ricorso.
31. Tuttavia, poiché tutti gli offerenti erano
società belghe, il governo belga ha sostenuto che la causa riguardava
una situazione meramente interna, alla quale il diritto comunitario non
si applica.
32. Quest’argomento non può essere accolto.
33. Infatti, l’obbligo imposto agli enti aggiudicatori
dall’art. 4 n.1, della direttiva non è soggetto ad alcuna condizione
relativa alla nazionalità o al luogo di stabilimento degli offerenti.
Inoltre, come l’avvocato generale ha rilevato al paragrafo
24 delle sue conclusioni, è sempre possibile che imprese stabilite
in altri Stati membri siano riguardate, direttamente o indirettamente,
dall’assegnazione di un appalto.
La procedura prevista dall’appalto dev’essere pertanto
rispettata indipendentemente dalla nazionalità o dal luogo di stabilimento
degli offerenti”. (Raccolta 1996, pp. 2079 - 2080).
Ora, proprio in base a tale insegnamento, a fortiori,
l’accesso alle gare comunitarie sugli appalti, che costituisce il presupposto
giuridico per la realizzazione proprio del mercato unico nel settore degli
appalti medesimi, non può essere ostacolato nei confronti di alcuna
impresa a prescindere dalla nazionalità o dal luogo di stabilimento
dell’offerente: sia le amministrazioni aggiudicatrici che gli Stati membri
non solo debbono astenersi dalle misure vietate, ma debbono rimuovere quelle
esistenti che siano incompatibili. Sul punto già la direttiva 305/71
era precisa in quanto imponeva l’obbligo di adattare le liste ufficiali
di imprenditori al diritto comunitario. Ma tale obbligo è ripreso
dall’art. 29 della direttiva vigente, ove è scomparso l’inciso “all’entrata
in vigore della presente direttiva”, per la semplice ragione che la giurisprudenza
comunitaria ha nel frattempo elaborato la regola delle direttive self-executing
accettata anche dalla nostra Corte Costituzionale[18] (v. sentenza 64/90
e successive).
Pertanto lo Stato italiano e per esso il Ministero dei
Lavori pubblici presso cui è incardinato l’Albo Nazionale dei Costruttori
è soggetto ad un doppio obbligo positivo (di adattamento) e negativo
(di non mantenere le norme sull’albo che ostacolino la libera prestazione
dei servizi).
Poiché il termine per la ricezione della direttiva
93/37 coincide con quello della sua entrata in vigore (v. art. 37) all’obbligo
imposto agli Stati membri dall’art. 29 corrisponde un diritto soggettivo
dei cittadini e delle imprese direttamente e immediatamente protetto dal
Trattato, in quanto il comando impartito è chiaro, preciso e non
condizionato.
Di conseguenza, nella misura in cui il diniego di accesso
all’albo, ovvero il diniego di recupero di iscrizione od altri istituti
- che saranno infra esaminati - venga assunto in modo incompatibile con
il principio della libera prestazione dei servizi e recando una discriminazione
o un rischio di discriminazione ai cittadini ed imprenditori italiani nell’accesso
alle gare quantomeno di rilevanza comunitaria, ritengo che ogni impresa
lesa possa avere un’azione di risarcimento danni presso il Tribunale Civile
competente contro il Governo italiano in analogia con la sentenza Lomas[19].
Inoltre, la tutela specifica del diritto soggettivo comunitario
può essere assicurata (come anche la più recente giurisprudenza
amministrativa, infra, mostra di ritenere possibile), sia con provvedimenti
provvisori ed urgenti che ordinino all’albo l’iscrizione o il recupero
di iscrizione da impresa cessante, sia con provvedimenti giurisdizionali
di merito che annullino i provvedimenti ed i “comportamenti omissivi” delle
autorità dell’albo. In particolare, è anche da ritenere che
il giudice amministrativo possa e debba ammettere sia ricorsi ex art. 700
cod. proc. civ., quali ricorsi cautelari autonomi sia provvedimenti inaudita
altera parte ex art. 669 cod. proc. civ. in quanto la Corte di Giustizia
ha riconosciuto proprio in materia di appalti pubblici la necessità,
in base a quanto previsto dall’art. 2 della direttiva 665/89 (e 13/92 per
i settori esclusi) che negli Stati membri siano espressamente attribuiti
poteri giurisdizionali o equiparati che permettano: a) di prendere con
la massima sollecitudine e con procedure d’urgenza provvedimenti provvisori
intesi a riparare la violazione o impedire che altri danni siano causati
agli interessi coinvolti, compresi i provvedimenti intesi a sospendere
o a far sospendere la procedura di aggiudicazione pubblica di un appalto
o l’esecuzione di qualsiasi decisione presa dalle autorità aggiudicatrici
(per maggiore precisione occorre distinguere tra tutela cautelare specifica
nel corso di una procedura apposita di aggiudicazione di un appalto, sentenza
Corte di Giustizia 19.9.1996, in causa 236/96 Repubblica Ellenica, Racc.
1996, I, p. 4459 e segg.); anche se il provvedimento o comportamento illegittimo
della amministrazione aggiudicatrice sia direttamente o indirettamente
collegabile a questioni relative all’iscrizione all’A.N.C.; essa è
direttamente prevista dalle due direttive sopra citate; e tutela cautelare
anche atipica quale strumento per realizzare nel processo amministrativo
il principio di effettività comunitaria, ed in particolare la libera
prestazione dei servizi ex art. 59 del Trattato nei confronti di atti e
comportamenti dell’A.N.C. illegittimi dal punto di vista comunitario; in
tal caso il giudice amministrativo, mancando una fonte diretta di diritto
derivato, deve utilizzare il principio di disapplicazione anche processuale
della legge interna incompatibile, sancito dalla Corte di Giustizia nella
sentenza 19.6.1990 n. 213.89 Factortame, in Racc. 1990,
I, p. 2433 e segg. e successivamente ripreso nel caso
Peterbroek (sentenza Corte di Giustizia 12 dicembre 1995, causa C-312/93
in Raccolta 1995 I, 4599); b) annullare o
far annullare le decisioni illegittime, compresa la soppressione
delle specificazioni tecniche, economiche o finanziarie discriminatorie
figuranti nei documenti di gara, nei capitolati d’oneri o in ogni altro
documento connesso con la pro-cedura di aggiudicazione dell’appalto in
questione (ben
potendo in tal caso consistere tale documento in un provvedimento
negativo dell’Albo sulla iscrizione, recupero, ecc., come pure in un mero
comportamento omissivo).
3. Fallimento dell’imprenditore
e regime di iscrizione all’albo nazionale dei costruttori: conseguenze
sulla impresa fallita (cedente), e possibilità di recupero totale
o parziale delle iscrizioni medesime da parte di altre imprese (cessionarie);
regime della partecipazione alle gare pubbliche.
Descritto, sia pure sinteticamente, il punto di vista
del diritto comunitario, si possono prendere in rassegna i casi più
rappresentativi di diritto nazionale, iniziando appunto dalla problematica
circa la possibilità di recupero di singole iscrizioni da parte
di una impresa nel quadro di una operazione di cessione globale o parziale
delle medesime.
Le norme in proposito, contenute dagli artt. 35 e 36
della legge 109/94, non sono di grande aiuto se non nell’ambito di una
interpretazione analogica, in quanto riguardano fenomeni dinamici dell’impresa
e dell’azienda nel suo complesso, anche se indicativi della volontà
di preferire in conformità al diritto comunitario “l’utilizzazione
di strumenti di sviluppo imprenditoriale” e comunque fenomeni dinamici
fisiologici nei rapporti tra le imprese e quindi nel gioco del mercato,
anche degli appalti, rispetto alla immodificabilità soggettiva dell’appaltatore,
tanto nei rapporti con le amministrazioni aggiudicatrici, quanto con l’Albo
nazionale dei costruttori[20].
Né possono essere direttamente utilizzate le specifiche
norme contenute negli articoli 8 (qualificazione) e 9 (norme in materia
di partecipazione alle gare) della medesima legge, anche se l’obiettivo
del rispetto del diritto comunitario e della libera concorrenza tra operatori
deve essere tenuto presente sia nel regolamento di delegificazione relativo
alla qualificazione (stante il rinvio diretto contenuto all’art. 8, 1°
comma, nei confronti dell’art. 1, 1° comma della stessa legge), sia
all’art. 9, in virtù dell’inciso contenuto anch’esso al 1° comma
dell’art. 9 (“Fermo restando quanto disposto dall’art. 8”), soprattutto
in ordine ai contenuti e finalità del D.M. di “revisione dell’albo
esistente” previsto dal 3° comma dell’art. 9 e attualmente in itinere.
Occorre quindi distinguere tra effetti del fallimento
sulla iscrizione all’Albo dell’imprenditore falli-
to ed effetti su eventuali cessionari di beni che abbiano
interesse a rilevare le singole iscrizioni all’A.N.C. dell’imprenditore
fallito.
Quanto al primo la legge è molto chiara in quanto
al medesimo art. 8, 7° comma, dispone: “Fino al 31 dicembre 1999, il
Comitato Centrale dell’Albo nazionale dei costruttori dispone la sospensione
da tre mesi a sei mesi dalla partecipazione alle procedure di affidamento
di lavori pubblici nei casi previsti dall’art. 24, 1° comma, della
direttiva 93/37/CEE del Consiglio del 14.6.1993. Resta fermo quanto previsto
dalla vigente disciplina antimafia ed in materia di misure di prevenzione.
Ai fini dell’applicazione delle disposizioni del primo periodo, sono abrogate
le norme incompatibili relative alla sospensione e alla cancellazione dall’Albo
di cui alla legge 10 febbraio 1962 n. 57, e sono inefficaci i procedimenti
iniziati in base alla normativa previgente. A decorrere dal 1 gennaio 2000,
all’esclusione dalla partecipazione alle procedure di affidamento provvedono
direttamente le stazioni appaltanti sulla base dei medesimi criteri”.
Di conseguenza, “In forza della cennata abrogazione delle
norme incompatibili relative alla sospensione e alla cancellazione di cui
alla legge 57/1962, deve quindi ritenersi che un imprenditore che sia già
stato dichiarato fallito non può più essere cancellato dall’Albo,
ma solo sospeso, in quanto lo stato di fallimento o di concordato, che
era previsto nel punto 3 dell’art. 21 l.n. 57/62 come autonoma causa di
cancellazione è stato incorporato tra le cause di sospensione”[21].
Quanto ai secondi, l’applicabilità del recupero
di iscrizioni dell’impresa appartenente all’imprenditore fallito è
ammessa nell’ambito delle fattispecie descritte dagli artt. 35 e 36 della
legge 109/94 (cessioni di azienda, atti di trasformazione, fusione e scissione;
cessioni di ramo d’azienda) in virtù della “preferenza” accordata
dall’art. 35, 4° comma, della legge 109/94 alla circolare del Ministero
dei LL.PP. 2 agosto 1985 n. 382, pubblicata nella G.U. n. 190 del 13 agosto
1985 rispetto alla più restrittiva previsione contenuta nell’art.
25 del D.M. 9.3.1989 n. 172.
Ciò non solo è coerente alla capacità
giuridica e di agire degli organi del fallimento, ma a ben vedere non costituisce
altro che una interpretazione estensiva dei diritti di iniziativa economica
garantiti dall’art. 41 della Costituzione e dagli artt. 3 e 59 del Trattato
sull’Unione Europea: non si comprende infatti perché al fallimento
dovrebbe essere vietato compiere quelle operazioni (fatto salvo il limite
della tutela degli interessi cui l’intera procedura fallimentare è
preordinata e che sono oggettivati alla stregua degli interessi pubblici,
attraverso l’attribuzione dei poteri a funzionari pubblici quali il Tribunale,
il Giudice Delegato e lo stesso Curatore che è egualmente un pubblico
funzionario alla stregua della procedura fallimentare) che sono consentite,
per così dire, nelle vicende “fisiologiche” di mutamento oggettivo
dell’impresa[22]. Sul punto peraltro la giurisprudenza, per lo menoquella
a nostra conoscenza, non si è espressa con sentenze “di merito”
ma tuttavia con ordinanze cautelari motivate, sia di primo grado che di
appello.
Di particolare interesse è in proposito Cons.
Stato, Sez. IV, 1365/97 relativo alla richiesta di recupero di singole
iscrizioni corrispondenti ad alcuni rami d’azienda acquistati da un’impresa
nei confronti di altra impresa sottoposta a procedura concorsuale.
Il Consiglio di Stato ha infatti con notevole precisione
e concisione sostenuto: “che l’acquisto da parte di azienda non equivale
a subingresso di un’impresa ad altra impresa”; “che pertanto lo stesso
acquisto non può esser identificato come prosieguo dell’impresa
fallita”; “che d’altra parte la vendita di beni aziendali è possibile
nel corso delle procedure concorsuali e che tale alienazione permette il
subingresso nel rapporto contrattuale di appalto di opera pubblica, già
stipulato dall’impresa sottoposta a procedura concorsuale e già
titolare dei beni alienati” (sia pure nei limiti stabiliti dall’art. 36
delle legge 109/94); “che il recupero di iscrizione, a seguito di acquisto
di ramo d’azienda da impresa sottoposta a procedura concorsuale, non è
un modo per eludere la norma sulla sospensione dell’iscrizione (art. 8,
7° comma, l. 11 febbraio 1994 n. 109) attesa l’eterogeneità
tra l’acquisto indicato e la successione ad impresa preesistente”.
Tale essendo lo stato della giurisprudenza cautelare,
sulla fattispecie in generale è possibile citare una serie di sentenze,
tra cui si segnala per compiutezza e precisione TAR Abruzzo L’Aquila n.
563 del 25.19.1996, in Rassegna TT.AA.RR. 1996, n. 4604 e segg., la cui
massima stabilisce: “Nel caso di cessione d’azienda, è ammesso il
recupero dell’iscrizione all’A.N.C. in favore dell’impresa avente causa,
la quale nelle more dell’apposita procedura è anche legittimata
ad eseguire i contratti già stipulati sotto la condizione risolutiva
della deliberazione negativa sulla sua domanda di recupero. L’art. 2558
Cod.Civ. secondo cui l’acquirente dell’azienda subentra nei contratti stipulati
salvo recesso del terzo entro tre mesi dalla notizia di trasferimento,
è applicabile anche ai contratti d’appalto con la pubblica amministrazione”.
Molto importante è anche un punto della motivazione
in cui si ribadisce: “Fuori luogo è anche il richiamo al divieto
assoluto di cessione del contratto, contenuto nell’atto impugnato, in quanto
nella specie non si verte nell’ipotesi di cessione di un contratto, disciplinata
dall’art. 1406 cod. civ., cessione che ha effetto solo se l’altra parte
vi consente, ma si verte nella ben diversa situazione di cessione di azienda,
regolata dall’art. 2558 ricordato che comporta gli effetti che abbiamo
visto senza bisogno del consenso del terzo contraente cui è riconosciuta
la ricordata facoltà di recesso entro un termine breve e per una
giusta causa, facoltà che l’amministrazione non ha nella specie
esercitato.
“L’applicabilità dell’articolo 2558 citato anche
nei confronti della P.A., discende dal fatto che il contratto d’appalto
d’opere pubbliche, una volta stipulato, è un tipico atto di diritto
privato stipulato dall’imprenditore per l’esercizio dell’azienda, per cui,
in mancanza di una norma derogatoria, si applicano le regole proprie di
tale ramo del diritto che prevedono il subentro dell’acquirente dell’azienda
nei contratti stipulati per il suo esercizio e che non abbiano - come abbiamo
visto non ha il contratto d’appalto di opere pubbliche - carattere personale”[23].
Molto più complessa è la possibilità
di subentro in singoli contratti di appalto di opere pubbliche. Vale la
pena di ricordare i termini essenziali della questione: l’originaria formulazione
dell’art. 339 della legge sui LL.PP. vietava ogni forma di cessione o sostituzione
nell’appalto di opere pubbliche. La norma è stata peraltro sostituita
dall’art. 22 del D.L. 13 maggio 1991 n.152, convertito in l. 203/91, per
cui l’attuale formulazione è solamente la seguente: “È vietata
qualunque cessione di credito e qualunque procura, le quali non siano riconosciute”.
Sotto l’impero della norma originaria la dottrina commercialistica
si era frastagliata[24]. Ad avviso di chi scrive, e anche del Cianflone,
il fallimento determina uno scioglimento del rapporto contrattuale ex nunc
e non già un’ipotesi di impossibilità sopravvenuta
della prestazione[25]. Tuttavia poiché l’art. 81 u.c. della L.F.
dispone espressamente che “sono salve le norme relative al contratto d’appalto
per le opere pubbliche”. È in queste ultime che si deve trovare
la radice per la soluzione del problema. Al riguardo, escluso che la fattispecie
della sostituzione sia equiparabile a quella della cessione del contratto
(tuttora vietata e penalmente sanzionata dall’art. 18 della legge 55/90)
ed escluso che la mera sostituzione sia più vietata dalla legge
fondamentale dei LL.PP. il cui articolo 339 è stato, come si è
sopra visto, sostituito nel 1991, a nostro avviso la soluzione va ricercata
nella natura giuridica dell’appalto di opere pubbliche che nella fase di
esecuzione, come limpidamente ricordava il Tar Abruzzo, è un contratto
d’appalto retto in linea di principio dalle norme del diritto privato.
Non vi sono dunque motivi di ordine generale per non applicare le possibilità
previste dall’art. 81 della L.F. anche ai contratti d’appalto dell’imprenditore
fallito, ferma restando la cautela di cui l’operazione ai sensi dell’art.
81 della L.F. deve essere circondata.
Anche in tal caso, perlomeno a nostra conoscenza, non
risultano precedenti giurisprudenziali relativamente alle possibilità
di recupero delle iscrizioni: ma il problema non è correttamente
posto in termini di “recupero” e ciò deriva dal fatto che nessuna
norma di legge, salvo l’articolo 36 della legge 109/94 a proposito dell’affitto
di azienda, si occupa di questa fattispecie.
Nel fenomeno della sostituzione o subentro non vi è
trasferimento di un soggetto ad un altro come nel recupero (art. 25 D.M.
172/1989), ma semmai una particolare forma di “voltura” dell’iscrizione
in favore del fallimento medesimo: l’istituto non è previsto in
alcuna norma di legge, ma a nostro avviso è egualmente possibile
costruirlo in analogia con quanto avviene a proposito dell’esercizio provvisorio
durante il fallimento (art. 90 della L.F.). Il tema si è concretamente
posto in giurisprudenza a proposito di alcune autorizzazioni ad attività
economiche, quali l’autorizzazione amministrativa al commercio, l’autorizzazione
alle agenzie di viaggio e turismo, l’autorizzazione farmaceutica, ecc.
In realtà, le soluzioni restrittive previste dalle
leggi di settore sono giustificate dall’esigenza di proteggere utenti e
consumatori dalla ultrattività di un’impresa e di un’azienda che
continuino ad essere condotte da un imprenditore dichiarato fallito. Tuttavia,
proprio l’esistenza della legge fallimentare ed ora della legge 223/91,
che conferma l’ipotesi di affitto d’azienda da parte degli organi fallimentari
al terzo, dimostrano che tali interessi pubblici debbono essere contemperati
con gli interessi anch’essi oggettivamente pubblici ancorché neutrali
(secondo la definizione di Sandulli sulla amministrazione pubblica del
diritto privato, che definisce tali funzioni quali funzioni pubbliche neutrali),
propri del fallimento e istituzionalmente attribuiti alla cura degli organi
fallimentari ciascuno secondo le proprie competenze.
Pertanto, l’intestazione del contratto al curatore fallimentare
comporta che il possesso dell’iscrizione all’albo nella categoria e classifica
che “legittima” l’esecuzione dell’opera pubblica oggetto del contratto
medesimo deve presumersi continuare in capo al fallimento anche se l’imprenditore
originario è stato dichiarato fallito e quindi è attualmente
sospeso dall’albo. Si realizza infatti un fatto di interposizione giuridica
(come nel caso dell’esercizio della potestà dei genitori); per cui
il curatore esercita un compito oggettivamente appartenente all’imprenditore
fallito (esecuzione del contratto) per realizzare interessi alieni (tutela
del fallimento e quindi dei creditori).
Poiché è l’imprenditore ad essere dichiarato
fallito (non l’impresa o l’azienda), non sussistono ostacoli giuridici
in una mera operazione di subentro soggettivo (che può tuttalpiù
portare ad un obbligo di annotazione degli estremi del curatore fallimentare
nell’albo nazionale dei costruttori).
Viceversa non sussistono dubbi sul divieto di cessione
di contratto, pacificamente applicabile anche agli organi del fallimento,
in considerazione dei superiori interessi pubblici, anche dal punto di
vista del bene penalmente protetto dall’art. 18 della legge 55/90, ma non
del divieto di cessione di azienda.
4. Fallimento dell’imprenditore
e disciplina della cessione d’azienda in senso lato (comprensiva cioè
del c.d. affitto d’azienda): riflessi sul regime di iscrizione all’A.N.C.
e sulla partecipazione alle gare pubbliche.
L’affitto e la vendita dell’azienda nel fallimento, pur
non essendo esplicitamente previsti nella legge fallimentare, sono riconosciuti
nella normativa successiva (in particolare per l’affitto dalla legge 223/1991)
e nella legislazione di tutti gli altri paesi europei e in molti extraeuropei[26].
Dal punto di vista delle opere pubbliche, le due fattispecie sono espressamente
riconosciute dall’art. 36 della legge quadro 109/94: “Le disposizioni di
cui all’articolo 35 si applicano anche nei casi di trasferimento o di affitto
di azienda da parte degli organi della procedura concorsuale, se compiuto
a favore di cooperative costituite o da costituirsi secondo le disposizioni
della legge 31 gennaio 1992 n. 59 e successive modificazioni, e con la
partecipazione maggioritaria di almeno tre quarti dei soci cooperatori,
nei cui confronti risultino estinti, a seguito della procedura stessa,
rapporti di lavoro subordinato oppure che si trovino in regime di cassa
integrazione guadagni o in lista di mobilità di cui all’art. 6 della
legge 23 luglio 1991 n. 223”.
Poiché ad una mera analisi letterale la norma
può essere interpretata sia in senso restrittivo che estensivo,
conviene prima di tutto riportare il commento della dottrina che più
approfonditamente si è occupata della nuova fattispecie: si veda
in proposito F. Ancora, Commento agli articoli 35 e 36[27]. Scrive in proposito
l’autore: “Quanto si è detto nelle righe immediatamente precedenti
vale a chiarire l’unica difficoltà interpretativa cui si presta
l’art. 36, rappresentata dal dubbio se le operazioni di trasferimento di
azienda in favore delle cooperative che esso indica come suscettibili di
applicazione delle disposizioni del precedente art. 35 siano le uniche
ammesse ad opera degli organi delle procedure concorsuali, pur se essi
operano sotto il controllo del giudice.
Al riguardo va considerato che gli effetti in termini
di abrogazione o di deroga rispetto alle norme di divieto (rispettivamente
all’art. 10 del D.L. 31 gennaio 1994 n. 75, anteriore alla entrata in vigore
della legge e all’art.10 del D.L. 31 marzo n. 216 ad essa posteriore) si
collegano all’art. 35 solo come occasione.
Tali effetti, infatti, come avviene nella generalità
dei casi, trovano la loro causa efficiente, da un lato, nell’art. 15 delle
disposizioni preliminari al cod. civ., che stabilisce la regola della abrogazione
della norma anteriore ad opera di quella posteriore incompatibile, dall’altro
nel principio immanente all’ordinamento per cui la legge speciale preesistente
non è toccata dalla legge generale successiva (lex specialis per
generale non derogatur). E tali effetti sono scissi dalla effettiva applicazione
della norma che è stata occasione del loro verificarsi.
Pertanto, con riferimento all’art. 36, può dirsi
che esso tende a legare le disposizioni procedimentali dell’art. 35 alle
sole ipotesi del trasferimento o affitto dell’azienda a determinate figure
di cooperative. Esso, invece, lascia del tutto libera da vincoli procedimentali
le altre ipotesi di cessione d’azienda disposte dagli organi delle procedure
concorsuali, le quali, sono comunque legittime, per l’effetto di abrogazione
o di deroga che la introduzione della normativa di cui all’art. 35 (indipendente
dalla sua applicazione) ha realizzato nei confronti di quella di carattere
restrittivo sulla cessione del contratto conseguente a cessione di azienda
o a modificazioni della struttura imprenditoriale.
Va, infine, segnalato che la Direttiva del Presidente
del Consiglio dei Ministri 29 aprile 1994 in materia di appalti e forniture
pubbliche ha opportunamente puntualizzato che i contratti di appalto per
i quali opera il subentro in caso di cessione di azienda, di trasferimento,
di fusione o scissione, sono anche quelli antecedenti all’entrata in vigore
della legge 109”.
Anche se l’opinione appare condivisibile, essa da un
lato non risolve e non prende posizione sul regime del “recupero” delle
iscrizioni in caso di affitto d’azienda; dall’altro non attinge ai principi
generali che guidano la soluzione corretta.
Il problema invero si pone nella pratica perché
un’interpretazione restrittiva dell’art. 36 potrebbe a sua volta fondarsi
su un’interpretazione restrittiva dell’art. 3, 4° comma, della legge
23 luglio 1991 n. 223 che si rubrica come intervento straordinario di integrazione
salariale e procedure concorsuali. Ed in effetti la giurisprudenza civile
oscilla sul carattere automatico della prelazione dell’affittuario in caso
di vendita successiva dell’azienda ovvero sulla sua riconducibilità
alla sola fattispecie normativamente autorizzata appunto dal 4° comma
dell’art. 3 della legge 223/91.
In realtà nel caso in questione va ripresa l’argomentazione
generale più volte adottata nel corso del lavoro secondo cui alienazione
e affitto d’azienda sono fenomeni fisiologici nella dinamica delle imprese,
che non vengono meno durante il processo fallimentare, quando si dimostri
il vantaggio di tali soluzioni per la cura degli interessi oggettivamente
e “neutralmente” pubblici propri del processo di fallimento.
Mancando nella legge fallimentare norme che si oppongano
ad una interpretazione normale della fattispecie, l’ipotesi dell’art. 36
non rappresenta che una estensione applicativa (non una analogia juris)
della possibilità di affitto e alienazione d’azienda durante la
vita fisiologica delle imprese.
Conseguentemente si risolve anche il problema del recupero
di iscrizione all’A.N.C., dal momento che sia nell’affitto che nell’alienazione
dell’azienda (ed al contrario dell’esercizio provvisorio e del subentro
nei singoli contratti d’appalto di opere pubbliche) ci si trova effettivamente
di fronte ad un’impresa cedente e ad una cessionaria.
L’unica differenza è che mentre il trasferimento
di azienda durante la procedura di fallimento ha effetti permanenti come
nel normale caso di cessione di azienda o di suoi rami (art. 35 legge Merloni),
l’affitto è una fattispecie giuridica stabile ma provvisoria. Quindi
il c.d. recupero non può ottenersi a favore dell’imprenditore affittuario,
a tempo indeterminato, ma per il tempo automaticamente commisurato alla
durata del contratto di affitto: ciò non deve stupire perché
la categoria delle c.d. autorizzazioni in precario è diffusa in
tutti i provvedimenti dichiarativi e autorizzatori e a fortiori nei provvedimenti
concessori (autorizzazioni al commercio stagionali, concessioni edilizie
in precario, concessioni temporanee su beni demaniali ecc.). Ciò
a garanzia degli interessi pubblici di settore curati dall’A.N.C. per cui
il vantaggio ottenuto dall’affittuario d’azienda non può essere
“personalizzato” (a differenza della cessione definitiva della azienda
medesima, non rilevando se essa avvenga nel quadro di una procedura fallimentare
o nel corso di una normale transazione commerciale tra imprese)
5. Fallimento dell’imprenditore
e regime del c.d. esercizio provvisorio: riflessi sulla esecuzione in corso
di opere pubbliche, e sulla possibilità dell’esercizio provvisorio
di partecipazione a nuove gare.
Il tema può essere trattato molto brevemente anche
in considerazione del dato sociologico che vede ormai prevalere l’affitto
d’azienda rispetto all’esercizio provvisorio.
Come la dottrina ha notato spesso sono sorti problemi
di conflitto apparente tra la legge fallimentare e norme di settore (es.
art. 7 legge 426/71 e D.M. 14.1.1972 art. 24 che prevedono che il fallimento
dell’imprenditore commerciale comporti la cancellazione di questi dal REC
e la revoca dell’autorizzazione amministrativa rilasciata dal Sindaco).
In realtà si deve tener presente che anche al fondo dell’esercizio
provvisorio vi è la generale figura dogmatica della sostituzione
per cui avendo disposto il tribunale ai sensi dell’art. 90 della L.F. la
“continuazione temporanea dell’esercizio dell’impresa del fallito” quando
dall’interruzione improvvisa può derivare un danno grave ed irreparabile,
il curatore deve sostituire nei rapporti di diritto pubblico e privato
proprio l’imprenditore fallito. Essendo pacifico che anche al fallimento
di società commerciale può applicarsi detto esercizio provvisorio[28],
anche in tal caso il curatore fallimentare si sostituisce nella titolarità
dei rapporti di diritto pubblico all’imprenditore fallito, ivi compresi
quelli relativi all’iscrizione nell’A.N.C..
Tuttavia non trattandosi di un vero e proprio subingresso
(come nel caso di cessione di impresa commerciale mortis causa o inter
vivos ai fini della voltura delle autorizzazioni amministrative), ma di
una sostituzione, non siamo in presenza di un trasferimento del destinatario
del provvedimento amministrativo, ma di un provvedimento di annotazione
a durata automaticamente connessa a quella dell’esercizio provvisorio.
Ciò ovviamente rileva e non poco sulla possibilità per l’esercizio
provvisorio di partecipare a nuove gare, tenendo conto dell’ampia discrezionalità
riconosciuta anche dal diritto comunitario alle stazioni appaltanti e dell’obbligo
del Comitato Centrale dell’A.N.C. specificato dall’art. 8, 7° comma,
della legge 109/94. Nondimeno un interesse alla partecipazione non meramente
teorico potrebbe sorgere in capo all’esercizio provvisorio nei casi di
avvenuta aggiudicazione di appalti mediante accordo quadro, o quando in
capo all’imprenditore fallito era stata attribuita la qualifica di imprenditore
determinato ai fini del legittimo uso della trattativa privata ecc. Sono
casi che per la loro complessità non possono essere trattati in
via generale ma che richiederebbero un’analisi a parte.
6. Conseguenze giuridiche nel caso
di illegittimo diniego o ritardo nell’adozione di provvedimento da parte
dell’A.N.C.
Salvo restando quanto sopra detto a proposito della responsabilità
civile nel diritto comunitario per lesione apportata da atti o comportamenti
di ogni potere pubblico (legislativo, amministrativo, giudiziario) dello
Stato membro ai diritti direttamente protetti dal Trattato (tra cui rientra
sicuramente quello alla libera prestazione dei servizi), osserviamo che
anche in base alla normativa nazionale e ai principi generali sulla responsabilità
della P.A. per lesione di diritti soggettivi (art. 28 Costituzione; T.U.
10.1.1957 n.3 art. 22 e segg.) l’ingiustificato rifiuto di recupero, voltura
o annotazione nelle fattispecie sopra descritte, come pure il comportamento
omissivo potrebbe essere attratto dalla fattispecie di risarcimento del
danno.
Infatti anche ad ammettere che l’iscrizione all’A.N.C.
ex novo sia costitutiva di un diritto soggettivo e che quindi in caso di
diniego o ritardo il richiedente sia titolare di un mero interesse legittimo,
tale non è certamente la situazione di riferimento nel caso di “recupero”
o provvedimenti di analogo tenore e contenuto. In essi infatti il provvedimento
dell’A.N.C. è sostanzialmente un “atto dovuto” a fronte di diritti
del cessionario, subentrante o sostituto. Di conseguenza potrebbe applicarsi
per analogia la giurisprudenza costante della Corte di Cassazione in materia
di illegittimo annullamento, o revoca, di autorizzazioni commerciali, come
pure di illegittimo rifiuto o trasferimento della titolarità delle
medesime. Oltre a ciò resta la responsabilità personale del
funzionario inadempiente, soprattutto per i casi di omissione o indebito
ritardo nel procedimenti, i cui obblighi sono ormai fissati in linea generale
dagli articoli 1 e segg., e 4 e segg. della legge sul procedimento amministrativo
7.8.1990 n.241.
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