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Dal combattimento giudiziale alla risoluzione del punto di onore
di Maurizio Calò Tutti gli studiosi sono concordi nel far risalire il duello ai popoli barbari come istituzione giudiziaria, una specie di prova cui si ricorreva in un procedimento civile per accertare il fatto contestato. Velleio Patercolo riferiva infatti, al tempo dell’Imperatore Tiberio, che i Germani ringraziavano Quintilio Varo: “quod lites romana justitia finiret et solita armis discerni, jure terminarentur.” Secondo il Mejer [1] l’origine del duello si rinviene nell’abitudine dei popoli barbari di cercare un presagio della vittoria in un combattimento tra due esponenti delle nazioni belligeranti. Tale opinione riecheggia quanto riportato da Tacito [2], il quale riferisce che, quando i Germani si trovavano in guerra con i popoli vicini, cercavano di rapire un guerriero nemico e lo facevano combattere con un proprio esponente per trarre auspici sulla guerra che si stava per combattere. Proprio per tale capacità attribuita al duello di risolvere importanti questioni incerte, esso aveva finito per trovare applicazione alle liti giudiziarie, probabilmente per prevenire gli abusi del giuramento. Infatti, secondo un principio di giustizia tra i più classici e generalmente ammesso, in ogni contestazione spetta all’attore provare il suo credito; il convenuto deve limitarsi a combattere le prove dedotte contro di lui cosicché, se l’attore non può provare la verità di quanto espone in giudizio, il convenuto deve essere assolto. Ma questo elementare principio di civile giustizia fu disconosciuto da molte leggi barbariche che disponevano, invece, che fosse il convenuto a giurare davanti a Dio di non possedere il bene richiesto dall’attore, ovvero di non aver commesso il fatto addebitatogli. È chiaro che il convenuto, posto nell’alternativa o di farsi condannare confessando, o di essere assolto spergiurando, non esitava nella scelta. Per supplire a questa deficienza, dapprima si richiese che un certo numero di persone attestassero la credibilità del giurante. Non era necessario che queste persone avessero conoscenza dei fatti in contestazione, ma dovevano limitarsi ad affermare, sotto loro giuramento, di credere che il giurante dicesse la verità. Queste persone erano dette conjuratores sacramentales ed il loro numero era stabilito dalla legge secondo l’importanza e la natura della causa. Anche questo mezzo istruttorio, tuttavia, manifestò presto la sua inefficacia poiché, moltiplicando i giuramenti, si moltiplicavano gli abusi. Di qui, secondo il Montesquieu [3] sarebbe nato l’istituto del combattimento giudiziario, l’uso del quale fu, per la prima volta, consacrato nella legge dei Borgognoni sotto il nome di “Lois Gombette”, dal nome di Gondebaus, suo autore. Questa istituzione si diffuse poi rapidamente e la si ritrova nelle leggi dei Franchi Ripuari, dei Germani, dei Bavaresi, dei Turingi, dei Frisoni, dei Sassoni e dei Longobardi. La veloce diffusione del duello giudiziario era favorita dal carattere combattivo di quei popoli che, peraltro, venendo in contatto con gli insegnamenti del Cristianesimo, si rafforzarono nella loro istituzione, anziché abbandonarla (Dalloz, Repertoire, voce “Duel”, n. 9). Infatti, se era vero, come ammaestrava la nuova religione, che Dio fosse la verità e la giustizia stesse, Egli non avrebbe potuto permettere che nel duello prevalesse l’ingiusto. Il combattimento giudiziario divenne, quindi, il Giudizio di Dio, come il ferro rovente, l’acqua bollente, la croce e tutte le altre prove usate in quell’epoca di barbarie. Solo la legge salica non ammise né la prova per giuramento, salvi casi rarissimi, né il combattimento giudiziario, ma tale immunità resistette poco allo sviluppo del Giudizio di Dio che aveva avuto il merito di far cessare gli abusi del giuramento cosicché, già nel IX sec., Carlo Magno, forzato a scegliere, fra due mali, il minore credette di doverlo tollerare con un’espressa disposizione: “Melius visum est ut in campo cum fustibus pariter contendant, quam periurium perpetrent in absconso” (Leges Longobardae, Lib. 2, Tit. 55, Leg. 25). La Chiesa, tuttavia, aveva cercato di resistere alla diffusione del combattimento giudiziario e non solo stigmatizzandolo per bocca dei Pontefici, ma addirittura comminando pene contro coloro che vi avessero partecipato. Così, fra gli atti del 3° Concilio di Valenza, tenuto nell’855 sotto il pontificato di Leone IV, si rinviene un canone che disponeva che colui che si fosse reso colpevole, nel combattimento giudiziario, di omicidio o lesioni gravi, fosse cacciato come perfido assassino dall’assemblea dei fedeli sino a che, come giusta penitenza, non avesse espiato il suo delitto, mentre colui che nel duello avesse perso la vita, sarebbe stato riguardato come suicida, il suo nome non sarebbe stato pronunciato nella celebrazione dei santi ministeri e il suo corpo sarebbe stato seppellito senza salmi, né preghiere. Il Clero chiedeva che il combattimento giudiziario venisse sostituito dal giuramento nelle chiese, onde spaventare gli spergiuri con la minaccia delle pene eterne, ma i Signori, dediti alle abitudini guerriere, ritenevano più nobile sostenere i propri diritti con la spada. Nel corso di tutto il X e XI sec. l’influenza pontificia non cessò di contrastare il duello riuscendo, alfine, ad eliminarlo dai tribunali ecclesiastici come mezzo di prova; ebbe tuttavia la peggio allorché Ottone II, salito al trono giovanissimo, si trovò ad affrontare le questioni ereditarie sollevate dai Signori italiani, i quali lamentavano come un qualsiasi scritto, dal quale risultasse la devoluzione del patrimonio relitto in favore di taluno, diventasse testamento autentico se se ne fosse giurata sui Vangeli l’autenticità. Il giovane imperatore, per ovviare agli abusi cui questa situazione dava luogo, stabilì che le contestazioni sulla validità degli scritti dovessero risolversi col combattimento e, allo stesso modo, stabili che venissero risolte le questioni intorno ai feudi e che anche le chiese fossero soggette a queste regole, mandando a combattere i loro campioni. Il primo atto in cui si manifesta la riscossa della Chiesa è la Carta accordata, nel 1168, dal Re Luigi il Giovane alla Città d’Orléans con la quale si stabiliva di non potersi fare combattimento fra le parti per il debito di 5 soldi o meno; ma fu San Luigi di Francia che seriamente ed efficacemente lavorò per abolire il combattimento giudiziario. Egli cominciò a compiere la riforma nei suoi diretti domini, nella speranza che l’esempio si estendesse alle baronie su cui non aveva diretta influenza e nel 1260 sostituì la prova per testimoni alla prova per combattimento, tanto in materia criminale che in materia civile. Filippo il Bello proseguì l’opera riformatrice del suo predecessore vietando, con un’ordinanza del 1296, le guerre private per il tempo in cui durava la guerra del Re. Tale proibizione era estesa ai combattimenti giudiziari disponendo che i procedimenti iniziati durante questo periodo fossero regolati con le forme ordinarie. Con altra ordinanza del 1303 (peraltro poi ritirata nel 1306) queste proibizioni vennero estese durante la guerra del Re agli omicidi, agli incendi di case e fattorie, alle aggressioni ed invasioni di domini e le violazioni punite come contravvenzione della pace pubblica. Un contributo notevolissimo all’abolizione del combattimento giudiziario fu dato però dalla fioritura dei Comuni, un fenomeno che, sebbene si verificò in prevalenza nell’Italia Centrosettentrionale tra l’XI ed il XII Secolo, si sviluppò anche in Francia, in Fiandra ed in Germania. Infatti, avendo agli abitanti dei Comuni il privilegio di disporre dei sindaci e degli scabini incaricati di amministrare giustizia, le popolazioni preferirono le vie ordinarie di competenza dei giudici che esse stesse avevano scelto, anziché il combattimento giudiziario, che rimase sempre più prerogativa della sovranità e delle baronie [4]. Sotto questa pressione il combattimento giudiziario, tuttavia, non scomparve, ma si trasformò. Ciò avvenne sul finire del XIV secolo e nel corso del successivo. Poco per volta si stabilì l’usanza di chiedere al re l’autorizzazione di combattere in campo chiuso e, quando questa era accordata, un araldo portava il cartello di sfida all’avversario di colui che l’aveva ottenuta e la sfida era fatta in nome del re che assisteva al duello e poteva farlo cessare gettando lo scettro in mezzo ai combattenti. Per tali caratteristiche il combattimento giudiziario divenne il “duello” vero e proprio, per un verso ancorato ancora alla superstizione del giudizio di Dio e, per altro verso, soluzione di guerre private (cfr. anche a pag. 68). Nel 1547 avvenne tuttavia un episodio che doveva influire notevolmente sulla storia del duello. Enrico II aveva autorizzato il duello fra due gentiluomini della sua corte; tuttavia, essendo rimasto ucciso uno dei due, che il Re amava moltissimo, giurò che mai più avrebbe autorizzato in avvenire un duello. Unica conseguenza di questo giuramento fu che i duelli si fecero più frequenti: prevedendosi che l’autorizzazione regale sarebbe stata negata, se ne faceva senza, cosicché vi si ricorreva anche per i più futili motivi e senza alcuna regolamentazione. Contro il riprendere di questi scontri insorse nuovamente la Chiesa. In un canone del 1563 del Concilio di Trento (1545-1563) si fulminano di scomunica non solo i duellanti, ma anche i padrini, cioè coloro che accompagnavano i duellanti al combattimento; i giuristi che avessero dato un parere in diritto o in fatto; gli spettatori, l’imperatore, i re, i duchi, i principi, i marchesi, i conti e qualsiasi altro signore che avesse offerto un terreno per la pugna, ordinando nel contempo che coloro che fossero morti nella singolar tenzone fossero privati degli onori della sepoltura ecclesiastica. Il potere civile, dal canto suo, non tardò a seguire la Chiesa, posto che i duelli decimavano l’aristocrazia ed indebolivano così il regno. Fu nel 1599, sotto il regno di Enrico IV, che il Parlamento promulgò il regolamento con cui si ordinava che nessuno cercasse nel duello la riparazione alle ingiurie subite e che ciascuno portasse le proprie querele davanti al giudice ordinario, sotto le pene previste per il delitto di lesa maestà. Tuttavia, fonti contemporanee e specialmente Pietro de L’Etoile riferiscono che dall’avvento al trono di Enrico IV nel 1589 sino alla fine del 1608 perirono in duello circa 7-8.000 gentiluomini. Risale al 1609 un nuovo editto di Enrico IV il quale, seguendo i suggerimenti degli autori dell’epoca [5] che, in considerazione dei risultati sopra descritti, giudicavano ormai il duello un male necessario, stabiliva che chiunque riteneva di aver subito ingiuria al proprio onore, poteva ottenere il permesso al combattimento dal Re, dal Connestabile e dai Marescialli di Francia i quali lo avrebbero autorizzato: “... secondo si creda necessario pel loro onore”. L’editto prevedeva la possibilità di negare il duello decidendo altrimenti la controversia e note di vergogna per chi l’avesse chiesto a fronte di ingiurie troppo lievi. Gravi sanzioni, quali morte e confisca dei beni, erano previste per chi avesse duellato senza autorizzazione. Questo editto produsse i migliori effetti e, secondo i contemporanei , non si cita un solo caso in cui il duello sia stato autorizzato, anzi, si ricordano diversi casi in cui l’intervento del Re favorì addirittura la riconciliazione. Alla morte del coraggioso Enrico IV, avvenuta nel 1609, poco dopo la pubblicazione dell’editto, tuttavia i duelli ripresero con furore, e così continuarono nei decenni successivi, nonostante il ripetersi di editti che prevedevano pene sempre più severe per i duellanti. Scriveva Richelieu nelle sue Memorie [6]: “I duelli erano divenuti sì comuni, che le strade servivano di campo di combattimento e come se il giorno non fosse abbastanza lungo per eccitare la loro furia, i duellanti si battevano alla luce delle stelle o delle fiaccole che tenevano luogo di sole funesto”. Nel 1647, quando la frequenza dei duelli era al massimo, il Cardinale Mazzarino promulgò un ulteriore editto, che fuse tutte le leggi precedenti sull’argomento, ma anche questo non ottenne risultati apprezzabili. Qualche risultato positivo si ebbe invece durante il lungo regno di Luigi XIV, per l’intransigenza e la fermezza con la quale questo sovrano si occupava di far rispettare le proprie disposizioni. Alla sua morte però i combattimenti ripresero come in passato, benché Luigi XV, appena compiuta la maggiore età (febbraio 1723), confermasse gli editti del padre, senza riuscire, tuttavia, a farli rispettare con la stessa energia. In ogni caso, fu sotto il suo regno che venne eseguita una delle poche condanne capitali, ai danni di un tale Signor Du Chèlas, colpevole di avere ucciso in duello un capitano. Tuttavia, dove non potevano le leggi, poté la filosofia. Nel secolo dei lumi, il pregiudizio circa il punto d’onore non poteva essere risparmiato, e fu Rousseau che più di tutti si distinse nelle sue argomentazioni contro il barbaro costume del duello. Certo, se il pregiudizio venne in tal modo fortemente scosso, non fu però estirpato; oltretutto, la cultura del duello si estese dai gentiluomini alla borghesia, inasprendosi al punto che chiunque avesse rifiutato di battersi, si considerava disonorato. Sopravvenne però la Rivoluzione francese (1789) che tutto travolse: dai Tribunali del punto d’onore alla giustizia del Parlamento, agli editti i quali, del resto, avevano conservato un’esistenza solo formale. Né si pensò di rimpiazzarli, ritenendosi che il duello, sviluppatosi per secoli all’interno dell’aristocrazia, fosse morto con questa. Si trattò, però, di un errore di prospettiva, perché il duello risorse dalle ceneri rivoluzionarie. Qualche nobile del partito della Corte lanciò provocazioni a dei membri più liberali dell’Assemblea nazionale e le singolari tenzoni ripresero. Un’attenzione discontinua a questa problematica fece sì che nel 1791 venisse promulgato un Codice Penale in cui il duello non era nominato ed altrettanto avvenne per il Codice emanato nel 1810. Se questa fu l’evoluzione in Francia, dove il pregiudizio del punto d’onore era più radicato che altrove, il Inghilterra il combattimento giudiziario ed il duello convissero a lungo: il primo come istituzione regolare e come mezzo legale di prova, il secondo come fatto illecito. Il combattimento giudiziario, infatti, sopravvisse come strumento processuale sino al secolo scorso e solo nel 1819 il Parlamento lo eliminò. Seppure è vero che esso aveva da lungo tempo cessato di essere applicato, pure, non essendo mai stato abrogato, costituiva un strumento istruttorio sempre disponibile. Fu il Blackstone che per primo ne segnalò la sopravvivenza nel suo Commentario sulle leggi inglesi [7] e tale scoperta trovò immediato riscontro nel 1817, nel procedimento Thornton, che fece molto rumore in Inghilterra. L’accusato invocò l’antica legislazione la quale, in materia criminale, permetteva ad un accusato di assassinio di giustificarsi col combattimento. E la sua istanza fu accolta. Ma il combattimento non ebbe luogo perché l’accusante, meno sicuro della sua forza che della giustizia divina, ritirò l’accusa. Fu appunto per tale vicenda, che aveva richiamato alla pubblica attenzione quest’ultimo retaggio della legislazione barbarica da tempo dimenticato, che venne presentato il bill di abrogazione. Il duello, invece, che male si accordava con la flemma britannica non ebbe in questo Paese quella frequenza che, in Francia, aveva decimato la nobiltà. La relativa legislazione è quindi poco significativa e trovò rare applicazioni: il duello era in sostanza equiparato all’omicidio ed alle lesioni personali. Solo il Codice militare contiene norme particolari e severe sulle sfide, ed è rimarchevole quella, rigorosissima, che priva della pensione la vedova di un ufficiale morto in duello. In Italia, lo spirito moderatore del Rinascimento e l’incessante intervento della Chiesa posero un freno ai combattimenti giudiziari, mentre i duelli non cessarono, anche a seguito delle invasioni degli Spagnoli che, al pari dei Francesi, sentivano particolarmente il punto d’onore. Nei diversi Stati italiani, a partire già dal 1540 nel Vicereame di Napoli - e in seguito in Piemonte, Toscana e nel Ducato di Milano - venivano adottate contro il duello sanzioni pesanti, che prevedevano la confisca dei beni e la pena capitale non solo per i combattenti, ma anche per i padrini, i valletti, e persino per chi avesse semplicemente assistito. Nella Repubblica di Venezia, al confronto, le sanzioni minacciate non erano poi molto severe. Quattro sono le leggi, o Parti [8], che si conoscono in argomento, e che prevedevano il bando per sette o dieci anni o il “confino” nell’isola di Candia, mentre solo la Parte promulgata dal Consiglio dei Dieci nel 1732 equiparava duellanti, sfidanti e padrini ai colpevoli di azioni indegne ed infami con la conseguenza che erano privati della nobiltà patrizia e venivano fatti: “... depennare dal Libro d’oro esistente all’Avogaria di Comun”. Seguiva la confisca di ogni bene ed il bando perpetuo. Se avessero rotti i confini: “... e venendo preso alcuno, sia condotto in questa città e fra le due colonne di San Marco ove per il ministro di giustizia, sopra eminente solaro gli sia tagliata la testa, sicché si separi dal busto e muoia”. I diversi Stati italiani mantennero legislazioni differenziate anche nel corso dell’Ottocento, fino a che, compiuta l’unità d’Italia, nella seduta del 26 aprile 1875, il Senato del Regno approvò una serie di norme destinate ad entrare a far parte del Codice Penale Zanardelli del 1889. Lo stesso Zanardelli, nel 1906, assunse la presidenza delle leghe antiduellistiche italiane, nate e sviluppatesi sul finire del sec. XIX, mentre persino il re Vittorio Emanuele III accettò in seguito l’alto patrocinio della lega antiduellistica, a testimonianza del mutato clima culturale nei confronti del duello. Anche l’attuale Codice Penale (R.D. 19 ottobre 1930 n. 1398) punisce i duellanti ed i portatori di sfida (artt. 394 e segg. C.P.), ma in modo piuttosto blando: chi fa uso delle armi in duello, anche se non cagiona lesioni all’avversario, è punito con la reclusione fino a sei mesi e con la multa da lire centomila a due milioni, a conferma dello scarso allarme sociale che ormai il duello suscita. E’ significativo, in modo particolare, che dal 1978 ad oggi, solo una sentenza della Corte Suprema si sia occupata del duello enunciando il seguente principio: “Non può essere equiparato a un duello una colluttazione senza armi, svincolata da qualsiasi regola, condotta senza esclusione di colpi e in modo selvaggio e bestiale. Infatti, i reati cosiddetti di duello presuppongono l’osservanza delle consuetudini cavalleresche e, pertanto, perché uno scontro tra due persone possa considerarsi duello, deve svolgersi a condizioni prestabilite, secondo le regole cavalleresche, mediante l’uso di armi determinate (spada, sciabola o pistola), alla presenza di più persone (padrini o secondi), per una riparazione d’onore” (Cassazione Penale, Sez. 5°, 24 aprile 1987).
Note [1] Mejer, Esprit, origine et
progrès des institutions judiciaires, Vol. I,
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