"L'elaborazione del fallimento
nel diritto francese medioevale"
di Guido Cutuli e
Allegra Di Cesare
Nell’attesa del congresso di Parigi del marzo
1998, si apre una prospettiva sull’origine dell’istituto
fallimentare nella Francia
medioevale
William Hogarth, dal ciclo pittorico
“Il matrimonio alla moda”,
La levée della signora (1744
- cm 68,5 x 89), National Gallery, Londra
Il fallimento si sviluppò in Italia nel
medioevo e, attraverso le differenze dei diritti statutari, l’istituto
raggiunse un alto livello di tecnicismo.[1] A confronto, il diritto consuetudinario
francese accusò grande ritardo.[2]
Nel modello del diritto statutario italiano,
all’azione che i creditori potevano esercitare individualmente contro il
debitore comune, il fallimento venne a sostituire un principio di azione
collettiva che non trovava fondamento e materiali nel diritto romano. Perciò
l’istituto italiano fu una creazione originale adattata alle condizioni
proprie delle attività commerciali delle città medioevali.
Secondo il diritto consuetudinario francese, invece, l’esecuzione si organizzava
sul sequestro dei soli elementi mobiliari del patrimonio del debitore,
che costituivano la garanzia dei creditori. Il primo creditore che avesse
agito per il sequestro, come premio della sua diligenza riceveva il privilegio
di essere soddisfatto prima di tutti gli altri creditori chirografari.[3]
L’evidente ingiustizia del sistema, particolarmente sensibile nel caso
del debitore-commerciante, suscitò la necessità di abbozzare
disegni di procedure collettive, che tuttavia non trovarono nel diritto
corporativo un supporto equivalente a quello del diritto statutario italiano.
Soltanto il Foro giurisdizionale apportò una soluzione specifica
per i mercanti; al di fuori di questo caso, si trattava di una procedura
di portata generale che si adattava all’attività mercantile: in
tal modo, il fallimento di un mercante era di competenza del giudice ordinario.
La procedura, davanti alla Corte ordinaria, seguiva la tradizionale suddivisione
tra paesi di diritto scritto e paesi di diritto consuetudinario. Nei territori
riguardanti i primi, l’influenza italiana e del diritto romano si esercitò
sin dal XII secolo[4] e l’esecuzione aveva luogo sulla persona e sui beni
del debitore insolvente. Quest’ultimo poteva essere liberato dai suoi creditori
soltanto nel caso che avesse provato che la causa del suo fallimento era
stato il caso fortuito. Il giudice ordinava al debitore di liquidare il
suo patrimonio qualora egli non avesse raggiunto un accordo con i creditori
e, per coercizione, si poteva giungere alla vendita senza un preventivo
sequestro. In caso di resistenza, il giudice faceva sequestrare e liquidare
i beni, per poi distribuire il ricavato della vendita, soddisfacendo innanzitutto
i creditori ipotecari e privilegiati. Una parte minore dei paesi di diritto
scritto, aveva ben presto applicato una procedura del tutto simile a quella
della distractio bonorum. Nei paesi di diritto consuetudinario, invece,
la comparsa di una procedura collettiva fu più tardiva.[5] Verso
la fine del XIII secolo, in alcune consuetudini, si delineò la possibilità
di opporre eccezioni al privilegio del primo creditore che avesse dato
luogo all’esecuzione sui beni mobili del debitore: tutte le opposizioni
degli altri creditori dovevano, allora, essere ammesse e così si
cominciò a ritenere che il primo creditore non agisse nel proprio
interesse, ma in nome di quello comune a tutti i creditori. All’inizio
del XIV secolo, la spartizione dei beni del debitore sembrò essere
recepita come una consuetudine notoria a Parigi[6]; tuttavia, il concetto
di fallimento era ancora assai vago e lungi dall’essere considerato nell’accezione
moderna del termine.[7] L’istituto della cessione dei beni fu recepito
nei paesi di diritto scritto a partire dal XIII secolo ed adottato, successivamente,
dagli usi dei paesi di diritto consuetudinario. La cessione permetteva
al debitore insolvente di evitare la carcerazione, ma egli rimaneva sempre
sospettato di frode e per questo, infatti, veniva ammessa, in generale,
con grandi riserve (per esempio, nel caso che fosse stato provato il caso
fortuito). Alcune coutumes del Nord la escludevano completamente ed era,
in ogni caso, ovunque introdotta da un rituale infamante, che richiamava
gli usi delle città italiane.[8] In ogni modo, la cessione non liberava
definitivamente il debitore, che era tenuto a soddisfare interamente i
suoi creditori. La cessione dei beni, inoltre, poteva essere evitata dal
debitore che avesse ottenuto dalla Cancelleria reale alcune “lettres de
répit”: queste obbligavano i creditori a sospendere la loro azione
per un periodo massimo di cinque anni. All’inizio del XIV secolo tale beneficio
era riservato ai falliti “malheureux”, ma la pratica di dilazione su richiesta
condusse ad una serie di abusi compiuti dai debitori di malafede, che costrinse
il Parlamento all’applicazione di una giurisprudenza restrittiva rigettando,
ad esempio, tutte quelle richieste effettuate da debitori che vi avevano
rinunciato precedentemente sotto giuramento. Le “lettres de répit”
quinquennali potevano essere accordate solo con il consenso della maggioranza
dei creditori, ma tale procedura non era ammessa volentieri, perché
non era accompagnata da sufficienti garanzie.
In conclusione, sino a questo momento, l’istituto
del fallimento si differenziava da luogo a luogo, era ricco di particolari
e complesso. In realtà, il diritto consuetudinario francese si trovava
a metà fra due concezioni: quella di una procedura generale applicabile
ai debitori di qualsiasi genere (déconfiture) e quella di una procedura
più specificamente commerciale, tipicamente italiana, nell’ambito
di una giurisprudenza consolare (faillite). Ma l’elaborazione dell’istituto
fallimentare strictu sensu non inizierà che a partire dal XVI secolo.
Tale periodo costituì, in effetti, una svolta, grazie alla redazione
ufficiale delle coutumes (con una migliore definizione del principio di
procedura collettiva), allo sviluppo della giurisprudenza del Foro di Lione
(costituendo infatti quest’ultimo “chaînon d’attache”[9] tra il diritto
statutario italiano ed il diritto francese, ciò dovuto soprattutto
alla presenza a Lione di un’importante colonia di mercanti italiani) ed,
infine, all’intervento crescente della legislazione reale (fonte dell’unità
del diritto). Il fallimento si organizzò, in questo modo, su basi
già acquisite: da una parte, le sanzioni attinenti alla persona
del debitore e, dall’altra, l’organizzazione collettiva ed egalitaria dei
creditori nella procedura fallimentare. L’istituto così concepito
raggiungerà infine la sua espressione più rigorosa nel Codice
napoleonico. Per quanto riguarda le sanzioni attinenti alla persona del
debitore, l’apertura del fallimento privava immediatamente il debitore
della disposizione e dell’amministrazione dei suoi beni. In mancanza di
altri testi legislativi, una dichiarazione del 1704 faceva riferimento
all’uso di permettere agli operai e ai fabbricanti di stoffe di conservare
una parte della loro attrezzatura e di continuare la loro attività
anche nel caso di fallimento. I pareri della Camera di commercio ricordavano
che i debitori non potevano agire in giudizio in nome proprio, contrarre
nuove obbligazioni, rilasciare quietanze, cedere o trasferire l’attività.
I creditori potevano far dichiarare la nullità di tutti questi atti
effettuati posteriormente al fallimento. Un’ordinanza del 1673 tacciava
di nullità tutti gli atti del fallito compiuti in frode ai creditori,
qualunque fosse stata la data del loro compimento ed il sospetto rimaneva
anche per quegli atti emessi in prossimità dell’apertura del fallimento.
In particolare, il regolamento di Lione del 1677 aveva ripreso dal diritto
statutario italiano il principio secondo il quale venivano colpiti da nullità
tutte le cessioni ed i trasferimenti dei beni del fallito, effettuati a
meno di dieci giorni dalla dichiarazione del fallimento: questa disposizione
fu estesa a tutto il regno con la dichiarazione del 1702 che eccettuava,
tuttavia, le vendite di merci e quelle sicuramente riconosciute di buona
fede.[10] Il Parlamento aveva precisato che, in ogni caso, il giudice rimaneva
libero di verificare la frode anche sugli atti anteriori a questo periodo
(compiuti, cioè, più di dieci giorni prima della dichiarazione
di fallimento). Senza dubbio, il debitore poteva accordarsi con i creditori
attraverso contratti di dilazione, contratti di remissione, abbandono volontario
o cessione dei beni. In quest’ultimo caso, il debitore lasciava i suoi
beni ai creditori sia in piena proprietà (una sorta di dazione in
pagamento), sia trasmettendone soltanto il possesso con la facoltà
di alienarli successivamente.
A questi privilegi si accompagnavano restrizioni
della capacità giuridica e diminuzioni che non potevano essere eliminate
se non attraverso la riabilitazione, accordata soltanto dopo che il debitore
aveva soddisfatto completamente i suoi creditori. Peraltro, alcuni crediti
privilegiati non erano passibili di dilazione. Il rigore delle sanzioni
riguardanti il debitore e l’aspetto penale del fallimento si aggravavano
in caso di bancarotta fraudolenta. La terminologia, per molto tempo ancora,
non fece differenza tra fallimento e bancarotta, ma con riferimento alle
cause del fallimento si operò una distinzione (sotto l’influenza
dello Stracca) tra Malchance degna di interesse e frode.
Oltre al carcere e alla gogna, il debitore non
poteva ricevere cariche pubbliche e, negli usi locali, spesso gli veniva
interdetto l’ingresso alla “loge du change” o alla borsa e all’assemblea
dei mercanti, ma non era una regola generale. Egli subiva, inoltre, sanzioni
di ordine professionale nell’ambito della corporazione di appartenenza.
Un’ordinanza del 1560 pose il principio della
pena, secondo la quale tutti i bancarottieri e i falliti fraudolenti saranno
puniti “extraordinairement et capitalment”.[11] L’Ordonnance del 1579 riprende
questa disposizione in termini meno precisi (“tromperies publiques extraordinairement
et exemplairement punies”)[12] ed infine, l’editto del maggio 1609, dando
sod-disfazione alle lamentele dei commercianti, confermò la pena
di morte, estendendola anche ai complici dei bancarottieri.[13]
Il testo del 1560, tuttavia, aveva fissato la
pena senza definire il crimine. Con le guerre di religione e lo squilibrio
economico che ne derivò, nacque l’esigenza di dare una definizione
di frode, soddisfatta da un’ordinanza del 1673 (titolo XI), che stabiliva:
“Dichiariamo bancarottieri fraudolenti coloro che avranno distratto i loro
beni in danno dei creditori o avranno dichiarato più di quello veramente
dovuto ai creditori stessi”.[14] Il non aver prodotto libri di commercio
debitamente compilati, era assimilato alla distrazione dei beni in danno
dei creditori e conduceva alle medesime conseguenze. La pena di morte era
stata confermata per il bancarottiere, mentre la complicità era
punita soltanto con pene pecuniarie.
Successivamente, a causa dello scarso rigore
con il quale venivano puniti i complici, una dichiarazione del 1716 aggiunse
alle pene pecuniarie, per gli uomini, il carcere e, per le donne, l’esilio.
L’azione per ottenere la condanna del bancarottiere fraudolento veniva
promossa dai creditori.
Il rigore di questa legislazione repressiva minò
il sistema stesso: le corti evitavano di pronunciare la pena di morte,
i debitori si davano alla fuga e abusavano del diritto di asilo, gli affari
dei falliti venivano regolati, troppo spesso, dagli stessi creditori, a
dispetto della legge attraverso accordi che passavano direttamente dai
notai, senza rispettare le forme legali. A questo punto, i cahiers del
1789 reclamarono una riforma del sistema, credendo di poter rimediare alla
sua inefficacia con un maggior rigore.
Note
[1] “G. Cutuli e A. Di Cesare “La
posizione giuridica del fallito nelle legislazioni italiane medioevali”,
in La Rivista dei curatori fallimentari”
n. 1 anno I ottobre - dicembre
1996 pag. 47.
[2] J. Hilaire, Introduction historique
au droit commercial, Parigi, 1986.
[3] P.Ourliac et J. De Malafosse,
Droit romain et ancien droit. Les obligations, col. “Themis”, Parigi, 1957.
[4] J. Hilaire, op. cit..
[5] Ibidem.
[6] P. Huvelin, Essais historiques
sur le droit des foires et des marchés, Parigi, 1897.
[7]J. Hilaire, op. cit..
[8] Ibidem: “À Lion et à
Grenoble, le débiteur faisant cession de biens était tenu
“donner et taper du cul par trois fois sur le tronc ou pierron pour cela
exprès et apposé; et dire de vive voix par trois fois qu’il
quittait ses biens”; cette formalité rappelle singulièrement
les usages des villes italiennes”; Cl. Dupouy, Le droit des faillites en
France avant le Code de Commerce, Parigi, 1960; P. Huvelin op. cit..
[9] E. Thaller, Des faillites en
droit comparé, Parigi, 1887.
[10] J. Hilaire op. cit..
[11] Ibidem.
[12] Ibidem.
[13] E.Thaller, op. cit..
[14] Ibidem. |