PRIMOPIANO
In famiglia
di Gabriella Belisario e Maurizio Calò


Intervista con la dottoressa Vittoria Correa che insieme a noi ripercorre alcune patologie e i rimedi del tanto discusso pianeta famiglia: le trasformazioni del ruolo dei genitori, l’incidenza del fenomeno droga, la violenza fisica, psicologica 
e morale sui bambini e infine il recupero di un sereno ambiente familiare per i minori curati dal tribunale


Mentre le cronache recenti riportano alla ribalta il tema della violenza sui minori e finalmente l’argomento accende i dibattiti alla Camera, abbiamo voluto approfondire con la lente del giurista un tema legato al complesso mondo dell’infanzia e della famiglia.
L’intervista che pubblichiamo propone un osservatorio particolare e le considerazioni di un giudice del Tribunale per i Minorenni, Vittoria Correa, che ha rivissuto con noi la sua esperienza, a volte drammatica, a volte dagli esiti felici. È comunque un osservatorio impietoso, la punta di un iceberg dal quale prendere le mosse per un’analisi distaccata della famiglia in difficoltà, non priva tuttavia di aperture alla speranza.
Vittoria Correa, giudice da dieci anni al Tribunale per i Minori di Roma, per sei anni al Civile e ora al Penale, madre di due figli, è una donna dal magnetismo vibrante: capelli cortissimi, zigomi alti, ironica, scattante, facile a rabbuiarsi e altrettanto facile ad aprirsi nel sorriso. Sembra uscita da una sceneggiatura televisiva, così efficiente e sicura, piena di energia, rassicurante nel coniugare il peso di grandi responsabilità con il coraggio di affrontarle.

Quali sono i mali della coppia e in che modo il costume e la società ne partecipano? Come si arriva alla violenza e come si rimedia? Cerchiamo in principio di capire come la famiglia si sia trasformata e perché.
La famiglia che ho sotto gli occhi, quella che è oggetto delle cure del “Tribunale per i Minorenni”, è una famiglia malata, preda di gravi disagi. Diciamolo subito, il mio è un osservatorio patologico: bambini che subiscono pesanti privazioni, quando non violenze, genitori tossicodipendenti, condizioni sociali e sanitarie estremamente carenti, ragazzi emarginati, magari perché sieropositivi, bimbi abbandonati a poche ore dalla nascita, affidamenti, adozioni...
Quando va bene, poi, ci sono le cosiddette “famiglie normali”, con le loro vicende di separazioni, liti, ragazzi contesi tra padre e madre e quindi al centro di conflitti, contrasti che sul piano psicologico non si rivelano meno gravi. 
C’è stata un’evoluzione soprattutto dopo l’introduzione del divorzio: la famiglia ha acquisito dimensioni “allargate”, fisionomie diversificate e inedite; ci sono le famiglie di fatto, quelle che rinascono dalla decomposizione delle famiglie precedenti, nuove coppie che devono convivere con i figli di lui e di lei, nuove parentele.
Alchimie diverse e a volte difficili, equilibri fragili, anche perché privi di modelli nelle precedenti generazioni. Ma non è tanto questo che ha cambiato la sostanza della vita familiare, quanto un modificato atteggiamento degli individui che hanno formato le nuove famiglie. 

Sono cioè cambiati i protagonisti della vita familiare?
È proprio così. Da una parte ci troviamo di fronte ad un eterno protrarsi del tempo dell’adolescenza e cioè ad adulti che non vogliono uscire dalla tutela paterna, si rifugiano nella droga, tardano a prendere contatto con il mondo del lavoro e non si fanno carico di nessuna responsabilità.
Ma dall’altra ci sono bambini troppo informati, troppo sollecitati dalle immagini prepotenti del video, dalle emozioni forti, dalle comunicazioni violente. E il continuo assorbimento percettivo determina un’intelligenza che si sviluppa per immagini e non per concetti, che rende più difficile distinguere la realtà dalla fantasia e allarga il confine tra l’io e l’ambiente circostante. 
L’infanzia tende a scomparire, mentre la vecchiaia è rimossa e allontanata, evitata in ogni modo e, tra le due, si dispiega una lunga adolescenza che si vorrebbe non finisse mai. I vecchi concetti di maturità e di crescita, affidati alle possibilità di correlare i fenomeni tra di loro e al principio di causa-effetto, sono in disuso; la sicurezza non è più la padronanza di sé, ma l’appoggiarsi alla soluzione sociale che bene o male, prima o poi, provvederà.

Oltre a queste trasformazioni psicologiche, negli ultimi venti anni è accaduto qualcos’altro di nuovo?
Sì, molte cose. Tra queste ha assunto grande importanza, in senso negativo, la droga.
 L’estendersi in maniera stabile dell’uso di sostanze stupefacenti a fasce di adulti in condizioni di procreare, ha colpito profondamente la famiglia. Entrare nella spirale della droga determina una fase critica, che coinvolge un segmento di persone, uomini e donne tra i 20 e i 35 anni, alla fine della quale o c’è la morte o la disintossicazione. 
E in questo lasso di tempo i figli che sono nati hanno genitori che si chiudono in loro stessi, incapaci di prendersi cura di alcunché. 
Il genitore drogato incide pesantemente sullo sviluppo del minore, non solo per motivi sociosanitari, ma anche perché rappresenta un modello di comportamento instabile, fragile e velleitario, in preda a forti crisi emotive. I ragazzi che crescono, dai più piccoli fino all’età difficile dell’adolescenza, hanno bisogno di certezze, di ambienti tranquilli e sicuri,di abitudini stabili e di limiti che non possono avere da chi non li pone a se stesso. E non sempre i nonni, gli zii, le persone vicine in qualche modo al tossicodipendente, sono in grado di offrire queste certezze. Il mix diventa esplosivo se alla droga si aggiunge l’indigenza. 
Ed è così che il giudice deve decidere se e come deve allontanare il minore dalla sua famiglia. E sono decisioni pesanti. Certo, la legge prescrive dei criteri oggettivi che vanno puntigliosamente rispettati: si cercano prima di tutto referenti nella cosiddetta “famiglia allargata”, cioè i parenti fino al 4° grado. Purtroppo, più aumentano le condizioni di povertà socioculturale e più è difficile coinvolgere il contesto. Per questo motivo, può avvenire che la stessa situazione, rapportata a classi sociali diverse, comporti da parte del giudice scelte differenti.

In quali condizioni nascono gli abusi sessuali commessi sui minori tra le mura domestiche?
Sicuramente la promiscuità è una delle cause; le altre sono la cultura della forza bruta e quella dell’impunità, l’alcolismo e l’uso di qualunque sostanza che scardini i freni inibitori. 
Purtroppo la violenza sui minori all’interno del nucleo familiare non è una novità; ad esempio, l’incesto esiste da sempre e, con tutta probabilità, non è un fenomeno in aumento. È l’intervento dei mass-media che oggi ci rende più sensibili e partecipi. La violenza maschile, spesso di nonni, zii e cugini sulle bambine è sempre esistita, senza contare quella di alcuni padri veri o acquisiti. 
Quello che è cambiato è il comportamento delle donne all’interno della famiglia: ora escono dal silenzio e dalla paura e, denunciando senza riserve, esercitano una maggiore tutela nei confronti dei figli. Questo accade anche perché le donne sono socialmente più forti e quindi hanno minore spirito di subordinazione.
Esistono in verità anche quelle che chiamiamo “madri maltrattanti”, ma sono più rare. Si rendono colpevoli soprattutto di violenza fisica e psicologica e talvolta di violenza sessuale, alle quali si aggiunge, particolarmente in ambiti territoriali più ristretti rispetto alla metropoli, quella della riprovazione sociale. Da queste esperienze il bambino o l’adolescente resterà marcato a vita. Al giudice non resta che il tentativo, se praticabile, di sradicare questi minori, strapparli da un ambiente malato e ricontestualizzarli in una nuova situazione.

Quello dello “strappo” è un momento particolarmente critico?
Certo, qualunque sia la causa che lo determina, soprattutto perché spesso si trascina nel tempo. Non sempre si possono  prendere provvedimenti immediati. Una fatica che dura certe volte anche due-tre anni, tra minacce, disperazione, pianti, promesse, quando si deve decidere sull’adottabilità, cioè togliere dalle braccia dei genitori i figli e viceversa. E non conta che queste braccia siano letali. Nella confusione di valori e di ruoli tutto acquista le fosche tinte del dramma. A volte non abbiamo dubbi, a volte la situazione è meno chiara. È un lavoro che ti fa riflettere, che non ha orari, né va-canze, né feste comandate. Lo “strappo” non è solo una metafora. Si tratta di una vera e propria lacerazione di affetti e di abitudini, alle quali il giudice è chiamato a provvedere istituzionalmente, ma il coinvolgimento personale è dei più logoranti. 

Quanto contano i desideri dei piccoli? Sono rispettati come persone?
Non sempre si può tenere conto delle loro preferenze, che talvolta si formano distorte e su presupposti sbagliati.
 D’altronde, ritengo anche che ad ogni bambino debba essere lasciata la sua infanzia e che non debba sentirsi responsabile, non debba decidere della sua vita. Anche questo, secondo la mia opinione, significa rispettarlo come persona. 
I minori non hanno la possibilità di valutare e, per di più, a volte tra genitore maltrattante e bambino maltrattato si instaura un rapporto morboso e patologico, un attaccamento viscerale. È una sindrome ben nota agli psicologi, che si protrae nel tempo. È chiaro, comunque, che le inclinazioni affettive del minore, se possibile, vengono tendenzialmente favorite.

Esiste una Carta dei diritti dei minori?
Certo, si tratta della convenzione delle Nazioni Unite sui diritti dell’infanzia ratificata dall’Italia nel 1994 e quindi divenuta legge dello Stato. Questo agevola molto i rapporti interstatuali, ma non cambia nulla nella sostanza delle nostre leggi interne, già adeguate alla Con-venzione ed anzi più avanzate di quelle degli altri paesi europei.

Passiamo dai mali dell’infanzia al difficile periodo dell’adolescenza. In quale misura se ne interessa il Tribunale per i Minori?
Vorrei dire subito che la scolarizzazione è il più forte antidoto alla delinquenza minorile. Invece, specialmente nelle fasce meno abbienti, si sottraggono i ragazzi anche alla scuola dell’obbligo, senza parlare delle scuole superiori. Questi adolescenti si riversano senza controllo sulle strade, si formano piccole bande, all’interno delle quali si sviluppa la mini-criminalità. 
La strada è “la scuola della vita” peggiore: si comincia dai piccoli reati cosiddetti “bagatellari”, per proseguire con le prevaricazioni, ed approdare al vandalismo, agli atti contro il patrimonio, al furto, alla ricettazione, al piccolo spaccio. Queste situazioni sono spesso transitorie, e trovano a volte fine in un impegno maggiore della famiglia o in una soluzione affettiva dei problemi, se ad esempio l’adolescente trova la sua anima gemella. Diventano invece situazioni permanenti se l’influenza funesta della strada prevale e la piccola banda si sostituisce alla famiglia. 
Le cose non migliorano di molto se questi giovani cercano un inserimento lavorativo: vengono spesso sfruttati per i lavori più pesanti e più sporchi, sono pagati male e non hanno gratificazioni, così smettono e ritornano in strada. Va quindi riconfermato il ruolo primario della scuola nella prevnzione.

In questa situazione generale, la problematica dei minori nomadi assume aspetti particolari?
I nomadi hanno una storia a parte, con diverse tradizioni. Molti conoscono le possibilità di aggirare la legge. Io, ad esempio, per molto tempo mi sono ritrovata davanti, arrestata, una nomade con ben 52 precedenti giudiziari, per la maggior parte furti, che continuava a dichiararsi minore di quattordici anni nonostante ci “conoscessimo” da tempo e avesse già due figli. 
Un altro problema sono gli extracomunitari clandestini; adolescenti senza nessuno che eserciti la potestà genitoriale e senza documenti, in totale abbandono e lontani da tutto. Un esercito di disperati. Abbiamo diversi casi di questi figli “senza terra” e senza nessuno che si occupi di loro, che non sono in grado di ipotizzare che potrebbero fruire degli aiuti che pure sono previsti dalla legge. Paradossalmente, l’unico momento in cui possiamo aiutarli è quando commettono reati perché vengono messi in condizioni di raccontare la propria storia. 
Spesso ritengono di essere impunibili: credono di poter fare qualunque cosa, forniscono false generalità e raccontano che un tempo avevano i documenti, ma che gli extracomunitari adulti, o più esperti,  hanno consigliato loro di buttarli, per sfuggire ad ogni controllo e per rimanere sempre in Italia. 

I 14 anni sono una barriera tra la condizione di non imputabilità e un’assunzione di maggiore responsabilità?
Sotto i 14 anni c’è la presunzione assoluta di non imputabilità; tra i 14 e i 18 anni, il giudice deve decidere caso  per caso se sussista o meno la capacità di intendere e di volere del minore.
Ad esempio un ragazzo che ha commesso circa 50 furti di motorinio e che si è fatto prendere tutte le volte per il modo in cui agiva, è stato ritenuto immaturo; come pure un altro che aveva la mania dei taxi, quelli gialli, e immancabilmente, dopo averli rubati, li posteggiava sotto casa. 
Va detto che il codice di procedura penale minorile pone l’accento sia sulla necessità di non interrompere i processi educativi in atto in favore del minore, sia sul suo reinserimento. 
Conseguentemente sono previsti alcuni istituti, quali ad esempio, il perdono giudiziale e la messa alla prova che possono essere applicati, quando ne ricorrano i presupposti, proprio per favorire il processo di crescita del ragazzo e farlo uscire dal circuito penale nel modo più indenne possibile.

Come fa un giudice del Tribunale per i Minori sia Penale che Civile ad avere la competenza e la serenità nell’affrontare casi tanto diversi?
Nel momento cardine del giudizio il giudice minorile non è mai solo in quanto le decisioni sono prese in Camera di Consiglio. A questa partecipano sempre due giudici onorari che per legge devono essere un uomo e una donna (psicologi, sociologi, o esperti della materia) i quali hanno nella decisione lo stesso “peso” dei giudici “togati” ed apportano la propria specifica competenza. Questi esperti coadiuvano il giudice anche in situazioni particolarmente delicate, ad esempio, può essere loro delegato l’interrogatorio di un bambino molto piccolo o che abbia subito un forte shock. Le difficoltà che abbiamo sono enormi, ma esiste una grande tensione e una grande ansia per non aggiungere violenza a violenza.

Esiste dunque una specie di cuscinetto, un filtro tra il giudice e la famiglia, costituito dal lavoro degli assistenti sociali? 
Il servizio sociale del Ministero, circoscrizionale o della UU.SS.LL è il grande coadiutore del giudice minorile: sono gli assistenti sociali ad esercitare il difficile compito di controllo e di sostegno nei singoli casi. Quindi la collaborazione tra giudice e servizio sociale è massima; meno facile è quella tra servizio sociale e famiglia d’origine.

Dopo aver accennato alle forze distruttive che possono operare all’interno della famiglia, passiamo alla fase della ricostruzione, funzione  non meno importante del Tribunale per i Minori. Ci sembra di capire che il ruolo del giudice si capovolga, diventando soggetto attivo nella ricerca di una soluzione. 
In cosa consiste questo tipo di attività?
Questo è il momento più delicato del nostro intervento. Infatti, come ho accennato prima, il distacco dalla famiglia d’origine comporta tempi lunghi. 
Successivamente si esaminano le caratteristiche delle coppie per scegliere il nucleo familiare più idoneo alle esigenze del bambino. Sono momenti di somma responsabilità, quelli in cui si devono “abbinare” i bambini ai nuovi genitori. È forte la paura di sbagliare, e capita di incontrare fino a 70/80 coppie per ogni caso. Tale minuzioso lavoro porta a ridurre enormemente le possibilità di errore, come deve avvenire in momenti così delicati per la vita di un individuo.
Vorrei soffermarmi a parlare dell’affido come di un istituto grandemente riparativo ai mali dell’infanzia abbandonata. Ci sono famiglie affidatarie di profonda generosità, che riescono ad essere molto serene, equilibrate e neutrali, esercitando la potestà genitoriale per un tempo definito. Queste famiglie valutano la loro opera per quella che è: offrire al ragazzo la possibilità di fare un pezzo di strada della sua vita insieme a qualcuno che gli offra disinteressatamente a-more, educazione e assistenza. Queste persone sanno di servire moltissimo, ma sanno anche che il loro coinvolgimento è a termine. 
In genere questo tipo di supporto funziona meglio con bambini non piccolissimi.  I piccolissimi ispirano tenerezza e creano legami che poi è difficile recidere. Vi è molto bisogno di queste famiglie e vorrei sollecitare coloro che hanno molta disponibilità umana e sufficienti mezzi, a valutare la possibilità di offrirsi per un atto di dedizione temporanea. Spesso è un’esperienza bellissima. Sono stati istituiti dei corsi preparatori per aiutare le persone che si vogliono impegnare in questo atto di amore che alla fine arricchisce entrambe le parti.

Ci sono più domande di adozione o di affidamento?
Molte coppie vorrebbero adottare un bambino e lo vorrebbero: neonato, biondo, bello, sano e possibilmente maschio. E la domanda è molto superiore all’offerta. Solo nel Lazio ci sono ogni anno circa 800 domande per 70 bambini dichiarati adottabili che, talvolta, sono di colore,  qualche volta sieropositivi, e, se non abbandonati alla nascita, di almeno 18 mesi di età (il tempo per determinarne l’adottabilità) e fortemente problematizzati. 
Ecco che allora il futuro genitore pensa che sia meglio rivolgersi all’adozione internazionale per pescare in un “più ampio mercato” che gli garantisca di soddisfare i suoi desideri. L’adozione internazionale presenta tuttavia problematiche particolari: infatti, i bambini che arrivano da parti lontane della terra, quali il Perù, il Brasile, l’Ecuador, l’India, hanno maggiori possibilità di integrarsi completamente solo se in età prescolare. Quando il bambino supera i 6/7 anni ha già subito un imprinting culturale, qualunque esso sia, ed è più difficile inserirlo, anche se esistono varie eccezioni. Spesso si è osservato che i ragazzi che vengono da lontano,  dimenticano la lingua d’origine, probabilmente per un fenomeno di rimozione totale del passato. 

Ci può raccontare anche storie positive, i successi, le soluzioni scelte per dare una nuova serenità a questi bambini?
Ma certamente! Questo è il lato più bello dell’incarico di un giudice minorile, quello costruttivo e riparativo: è così che ho avuto modo di conoscere le persone straordinarie che gestiscono con incredibile energia e dedizione le case-famiglia o, per esempio, la Casa della mamma (rifugio per le ragazze-madri).
Ci sono anche atti che si potrebbero definire di eroismo, come quello di una coppia che ha accolto volentieri una bambina malata di AIDS, già manifesto, solo per assisterla nella fase terminale della malattia e per farla morire serena in casa, dove infatti è venuta meno, ma dopo 2 anni di cure. 
Altri due coniugi hanno adottato un bambino sieropositivo di otto mesi, che si è negativizzato ad un anno e mezzo. Persone straordinarie, sostenute anche da una grande fede religiosa. Dopo qualche tempo, è stata affidata loro un’altra neonata sieropositiva, ed anche questa si è a sua volta negativizzata a 18 mesi. Due persone benedette, che mi hanno fatto pensare che, forse, “non bisogna credere nei miracoli, ma contarci ciecamente”. Tante storie incredibili, come quella di un’altra famiglia, molto forte e coesiva, che ha accettato di adottare quattro fratelli, dai 4 ai 9 anni, con un impegno e uno sforzo anche economico, davvero immensi.

Ci sembra di capire che tutte le persone che ruotano intorno alla maternità e alla paternità spirituale siano assolutamente fuori dal comune.
Posso raccontare ancora qualche episodio: un giorno, si è proposta come mamma adottiva una signora elegantissima: gioielli, abiti firmati, tutto molto griffato. Io, giudicandola superficialmente, le ho domandato se avesse delle preferenze. Lei mi ha risposto che avrebbe ac-colto quello che le avessi proposto, anche bambini malati, come del resto aveva già fatto. Quella signora metteva a disposizione degli altri tutto il suo tempo e le sue risorse pur non rinunciando alla sua femminilità. 
Poi mi è capitato un caso anche più significativo. Ho dato in adozione ad una coppia una bambina che credevo sana: il medico le aveva diagnosticato soltanto un leggero disturbo cardiaco, ma dopo sei mesi che la bambina stava nella nuova famiglia, i nuovi genitori si sono accorti che era tetraplegica. Mi sono sentita morire. 
Pensavo che sarebbero tornati indietro dicendomi: “Signor giudice, con tutta la buona volontà non ce la facciamo”. Invece tutti e due erano lì a tranquillizzarmi, assicurandomi che il problema non esisteva, che l’avrebbero curata come e di più che se fosse stata una figlia loro. 
Hanno cercato il miglior supporto al problema e l’hanno trovato, tra l’altro, in un’associazione specializzata. 
La bimba è tutt’ora curata benissimo ed ha fatto grandi progressi. 

Lei ci sta raccontando delle storie così toccanti che trasformano l’immagine del giudice da un amministratore di punizioni ad un “tessitore di destini”.
Dovendo intervenire in momenti cardine dell’esistenza, in un certo senso è vero che i giudici minorili dipanano la matassa del destino; a volte la responsabilità può sembrare enorme, quasi soffocante. Perciò, dopo alcuni anni ho deciso di passare dal settore civile a quello penale. Non mi occupo più di bambini piccoli, ma solo di ragazzi dai 14 ai 18 anni. A questa età, i ragazzi non sono poi così candidi e, se vogliamo continuare ad usare la metafora, qui invece che “tessere” devo “rammendare” il destino e questo, psicologicamente, è più gestibile.

La gratificazione compensa lo stress?
Non sempre. A volte c’è la coscienza dell’inadeguatezza del meccanismo istituzionale giudiziario e la tensione, professionale e morale, non basta mai. Si rischia di perdere il senso comune della vita. 
Tuttavia alcuni incontri che ho avuto, come quelli che ho prima ricordato, cambiano spiritualmente una persona.
Vedere che c’è chi riesce a concepire un amore che prescinde dal sangue, dai cromosomi e dai legami di parentela, fino a dimenticare se stesso e il proprio egoismo, fa capire che l’istinto può essere superato da un’umanità più profonda.
C’è nel nostro Paese molta più bontà di quanto si pensi. È un fenomeno sommerso, cui non mi sembra che si presti molta attenzione. Invece credo che dovrebbe essere più conosciuto e diffuso, anche per stimolare verso i problemi dell’infanzia coloro che si sentono disponibili.