LAVENDITA COATTIVA DI
IMMOBILI IN COMPROPRIETA’
UN CASO PARTICOLARE
Dopo la riforma
del diritto di famiglia di cui alla legge 151/1975 che, ribaltando
la disciplina precedente, ha fissato nella comunione dei beni il regime
patrimoniale ordinario della famiglia, si è venuto a determinare
un forte incremento dei casi in cui uno solo dei coniugi debba rispondere
delle obbligazioni contratte con la sua parte dei beni. In questo caso
viene assoggettato a pignoramento il solo 50% della proprietà immobiliare
mentre l’altra metà, appartenendo al coniuge non obbligato, non
può essere aggredita.
Quale ulteriore
conseguenza di quella riforma del diritto di famiglia, è stata ritenuta
abrogata, dalla specifica giurisprudenza, anche la presunzione muciana
prevista dall’art. 70 L.F., secondo la quale si ritenevano acquistati con
denari del fallito, e, quindi, acquisiti alla massa attiva fallimentare,
i beni intestati alla moglie nei cinque anni anteriori alla dichiarazione
di fallimento (Cassazione civile sez. un., 12 giugno 1997, n. 5291; Cass.
1501/2000).
E’ evidente
che l’offerta in vendita coattiva di una sola quota di comproprietà
di un immobile, riduce di molto il mercato dei potenziali acquirenti e
tale situazione è sentita come penalizzante sia dai creditori, che
dai debitori. Per i creditori, infatti, le possibilità di realizzare
il loro credito diminuiscono notevolmente per il diradarsi del mercato
degli acquirenti; per i debitori, il pericolo consiste nell’intervento
degli speculatori che, a prezzo molto basso, si aggiudicano quote di comproprietà
che poi usano per azioni di disturbo, mirate a una rivendita allo stesso
debitore a prezzo, a volte, assai maggiorato.
Il modo legale
per superare questa situazione, è costituito dal ricorso all’art.
600 c.p.c. che prevede la possibilità, su istanza del creditore
procedente, ovvero dei comproprietari, di ottenere la separazione in natura
della quota spettante al debitore esecutato e, se ciò, non è
possibile, di promuovere il giudizio di separazione previsto dal codice
civile. Qui, agli artt. 713 e segg., ed in particolare, all’art. 720 c.c.,
si stabilisce che, se l’immobile non può essere comodamente diviso,
si procede all’incanto dell’intera proprietà affinché la
divisione possa farsi sul denaro ricavato dalla vendita.
Tra i casi
particolari recentemente sottoposti all’attenzione degli studiosi, vi è
stato quello dell’esecuzione individuale, promossa da un istituto di credito
fondiario, a carico di entrambi i coniugi comproprietari dell’immobile
esecutato e della successiva dichiarazione di fallimento del solo marito:
la curatela fallimentare intendeva procedere rapidamente alla vendita,
ma poteva disporre, legalmente, della sola metà di proprietà
del fallito, cosicché era alla ricerca di una soluzione per il migliore
e più rapido realizzo del proprio cespite.
Occorre premettere
che l’esecuzione immobiliare del credito fondiario è, attualmente,
l’unica procedura esecutiva che può procedere nonostante la dichiarazione
di fallimento del debitore quale eccezione al generale divieto sancito
dall’art. 51 L.F.. Nel consentire la convergenza delle due esecuzioni,
quella del credito fondiario e quella concorsuale, non è stata tuttavia
prevista, dal legislatore, alcuna prevalenza. Sembra che la Commissione
ministeriale attualmente all’opera per la riforma del diritto fallimentare
interverrà in argomento stabilendo la prevalenza della vendita fallimentare,
ma ancora nulla di definitivo è stato deciso ed è toccato
sin qui alla giurisprudenza disciplinare l’intreccio.
Nel caso sopra
citato, l’ostacolo alla vendita fallimentare era rappresentato dalla seguente
alternativa: vendere la sola quota di proprietà del fallito, con
grave perdita di valore rispetto alla vendita dell’intera proprietà
ad istanza del credito fondiario, ovvero intervenire nell’esecuzione del
credito fondiario, potendo realizzare un prezzo maggiore, ma in molto più
tempo?
Tutti, in
realtà, erano interessati a favorire la vendita dell’intera proprietà
da parte del fallimento perché più rapida; anche la moglie
del fallito era d’accordo, pur di favorire una veloce chiusura della procedura
fallimentare a carico del marito. Ma il giudice delegato non ha ritenuto
di poter seguire questa soluzione, e, anzi, ha disposto l’intervento della
procedura fallimentare nell’esecuzione individuale promossa dal credito
fondiario, in applicazione dell’art. 107 L.F., per i seguenti motivi.
Tutte le norme
del codice di rito prevedono un radicamento inderogabile della competenza
prevista per le procedure esecutive e, specialmente, per quelle immobiliari.
In tal senso
può citarsi l’art. 28 c.p.c. il quale consente alle parti di fissare,
d’accordo tra loro, una competenza per territorio diversa da quella stabilita
per legge, ma, tra le eccezioni a tale facoltà, vi è, appunto,
il divieto di modificare la competenza stabilita dal legislatore per le
esecuzioni forzate. Per l’individuazione del foro di queste procedure,
l’art. 26 prevede la competenza del giudice del luogo in cui gli immobili
si trovano.
Ad ulteriore
esempio, può citarsi l’art. 24 L.F. il quale stabilisce che il tribunale
che ha dichiarato il fallimento è competente a conoscere di tutte
di le azioni che ne derivano, eccettuate quelle relative agli immobili,
per le quali restano ferme le normali regole sulla competenza. Questa disposizione
è particolarmente rilevante ai fini che qui interessano perché,
ai sensi dell’art. 9 L.F., il tribunale competente a dichiarare il fallimento
non è quello in cui l’impresa insolvente abbia la sede legale, ma
quello in cui vi è la sua sede principale, cioè dove si trovi
il centro decisionale e d’indirizzo delle scelte economiche cosicché,
ben potendosi dare il caso di un’impresa con sede direttiva in Milano,
ma con proprietà immobiliari a Roma, l’eventuale azione fallimentare
riguardante tali immobili resterà radicata presso il tribunale di
Roma e non, secondo le normali regole fallimentari, presso quello di Milano.
Tali scelte
del legislatore sono dovute alla tutela dei creditori, i quali devono essere
posti nelle migliori e più sicure condizioni per conoscere le esecuzioni
che colpiscono il patrimonio del loro debitore.
Le stesse
esigenze di tutela dei creditori valgono anche ad escludere che la vendita
immobiliare di un soggetto non fallito possa avvenire da parte di un giudice
fallimentare.
Infatti, l’attribuzione
della competenza sulle esecuzioni individuali al tribunale ordinario e
di quelle di natura concorsuale al tribunale fallimentare, pur trattandosi
di sezioni di un medesimo ufficio giudiziario, risponde anch’essa a regole
funzionali inderogabili e, quindi, tali da consentire, ad un creditore,
di limitarsi a controllare il registro delle esecuzioni presso il tribunale
nella cui circoscrizione si trovano gli immobili posti a generica (art.
2740 c.c.) o particolare (art. 2808 c.c.) garanzia del suo credito per
tutelarsi rispetto ad eventuali esecuzioni promosse da altri creditori.
Se si consentisse la migrazione di un’esecuzione da un giudice ad un altro,
resterebbero frustrate queste esigenze di giustizia sostanziale fondate
sulla più agevole attività di controllo da parte dei creditori.
La conseguenza di una simile migrazione, sarebbe la nullità della
vendita coattiva posta in essere da un giudice sfornito, per legge, della
capacità di incidere sul patrimonio di un debitore sottratto alla
sua giurisdizione.