IL PATTO CON IL FALLITO DI COMPRARE IL SUO IMMOBILE ALL'ASTA E RITRASFERIRGLIELO ALLA CHIUSURA DEL FALLIMENTO NON E' SCELLERATO
Il fallimento
determina spesso gravissimi problemi che si estendono all’intera famiglia
del fallito, specialmente quando, nella massa attiva fallimentare, venga
acquisita la sua casa di abitazione. Per questo immobile, invero, l’art.
47, ultimo comma, del R.D. 16 marzo 1942 n. 267 (cosiddetta Legge Fallimentare
– L.F.) prescrive che la vendita avvenga quale ultimo atto di liquidazione
del patrimonio fallimentare, ma, alla fine, anche questo bene dovrà
essere messo all’asta. Capita, talvolta, che un parente decida di intervenire
onde attenuare questa necessaria conclusione della procedura fallimentare
e si determini a partecipare all’asta pubblica indetta nel corso del fallimento,
obbligandosi, nell’ipotesi in cui risultasse aggiudicatario definitivo,
con la conseguente emissione del decreto di trasferimento ai sensi dell’art.
586 del codice procedura civile (c.p.c.), a rivendere al fallito
l’immobile così acquisito una volta chiusasi la procedura fallimentare
ed allo stesso prezzo di aggiudicazione.
Così
analizzato, l’accordo risulta qualificabile come un contratto preliminare
unilaterale (in quanto l’obbligazione di prestare il consenso al ritrasferimento
verrebbe assunta solo dal parente) di vendita immobiliare la cui efficacia
verrebbe però subordinata alla condizione (evento futuro ed incerto)
che il promittente acquisiti l’appartamento all’asta pubblica indetta nell’ambito
della procedura fallimentare in corso a danno del fallito.
Non vi sarebbe,
quindi, alcuna alea perché l’equilibrio contrattuale sarebbe determinato
e certo fin dalla conclusione dell’accordo, né si tratterebbe di
un contratto innominato, dovendosi qualificare, come detto, alla stregua
di un contratto preliminare unilaterale di vendita immobiliare.
Deve dirsi
subito che, così ricostruita la volontà delle parti, un simile
accordo dovrebbe assolutamente essere redatto per iscritto perché,
altrimenti, sarebbe radicalmente nullo. Questa è, infatti, la sanzione
che si evince dalle prescrizioni congiunte degli artt. 1350 e 1351 del
codice civile (c.c.). Secondo la prima norma appena citata, infatti, devono
redigersi per iscritto i contratti che trasferiscono la proprietà
dei beni immobili; in base alla seconda norma, invece, è nullo il
contratto preliminare se non è fatto nella stessa forma che la legge
prescrive per il contratto definitivo. In materia di diritti di proprietà
immobiliare, pertanto, sia il contratto preliminare che il contratto definitivo
devono essere redatti, necessariamente, in forma scritta.
Il contratto
preliminare così confezionato, si distinguerebbe dal patto di opzione
disciplinato dall’art. 1331 c.c. perché, pur avendo le due figure,
in comune, l’assunzione dell’obbligazione da parte di un solo contraente,
la prima costituirebbe un contratto immediatamente perfetto e vincolante
per il promittente, mentre la seconda costituirebbe soltanto uno degli
elementi della fattispecie a formazione progressiva costituita, inizialmente,
da un accordo avente ad oggetto l’irrevocabilità della proposta
da parte del promittente e, successivamente, l’accettazione da parte del
promissario che, saldandosi con la proposta, perfezionerebbe il contratto.
Tuttavia,
ai fini della conclusione di un contratto di compravendita di immobili,
tanto nel caso in cui sia stato stipulato per iscritto un contratto preliminare
unilaterale, quanto in quello in cui sia intervenuto un patto scritto di
opzione, è comunque necessario che la manifestazione di volontà
della parte non obbligata (nella specie: il fallito), diretta alla stipula
del contratto definitivo o all’accettazione della proposta irrevocabile,
abbia anch’essa la forma scritta, non potendo essere dimostrata solo per
fatti concludenti.
Con la fattispecie
del contratto preliminare unilaterale, ma anche ricorrendo al patto di
opzione, resterebbe, di fatto, superato il problema relativo alla capacità
del fallito di assumere impegni di natura contrattuale durante il fallimento
con il pericolo che, a lui, possa sostituirsi il curatore per effetto dello
spossessamento del patrimonio del fallito non solo per quanto riguarda
la sua composizione anteriore all’apertura del fallimento, ma anche per
quanto riguarda i successivi incrementi ed apporti: tanto prescrive l’art.
42 L.F..
Con l’impegno
del solo acquirente, pertanto, si ottiene l’impegno del promittente a tenere
un certo comportamento gradito al fallito per il periodo successivo alla
chiusura del fallimento, ma non si lede alcun diritto della massa dei creditori.
L’asta fallimentare,
infatti, si svolge con perfetta regolarità e si conclude con l’aggiudicazione
in favore di colui che, negli auspici del fallito, si spera sia proprio
il suo parente. Il destino che l’aggiudicatario darà all’immobile,
è del tutto indifferente per gli organi fallimentari e, anzi, il
caso al quale ci stiamo dedicando non è affatto raro proprio al
fine di conservare al fallito ed alla sua famiglia la casa di abitazione.
E’ chiaro
che la validità di questo tipo di accordi può essere riconosciuta
sin tanto che non si scalfisca minimamente la regolarità dell’asta.
I patti col fallito, infatti, non possono portare a turbare l’asta, magari
mediante l’allontanamento, prezzolato o minaccioso, degli altri concorrenti
al fine di determinare la progressiva riduzione del prezzo base della gara,
poiché un simile comportamento resterebbe, in ogni caso, penalmente
e gravemente sanzionato.
Altro aspetto,
invece, riguarda i rimedi che potrebbe invocare il fallito qualora il contratto,
così raggiunto con l’aggiudicatario, non venisse da quest’ultimo
rispettato.
Il codice
civile prevede in proposito, all’art. 2932 c.c., che il giudice, ricorrendo
taluni presupposti, possa emettere una sentenza che produca gli effetti
del contratto non concluso.
La circostanza
che si tratti, nella specie, di un contratto preliminare unilaterale, non
è di ostacolo al ricorso a questa disposizione di legge.
Infatti il
rimedio previsto dall’art. 2932 c.c. al fine di ottenere l’esecuzione specifica
dell’obbligo di concludere un contratto, deve ritenersi applicabile non
solo nelle ipotesi di contratto preliminare munito della sottoscrizione
sia del promittente che del promissario non seguito da quello definitivo,
ma anche in qualsiasi altra ipotesi dalla quale sorga l'obbligazione di
prestare il consenso per il trasferimento o la costituzione di un diritto,
sia in relazione ad un impegno unilaterale, sia in relazione ad un atto
o fatto dai quali detto obbligo possa sorgere per legge.
Per ricorrere
alle disposizioni di cui all’art. 2932 c.c. però, è necessario
che il fallito, tornato in bonis con la chiusura della procedura fallimentare,
faccia espressamente offerta di adempiere la sua parte di obbligazione,
cioè di corrispondere all’aggiudicatario il prezzo a suo tempo pagato
a seguito dell’asta ed una simile disponibilità economica potrebbe
rivelarsi difficile da raggiungere da parte di colui che poco tempo prima
era fallito.
E’ necessario,
poi, che la sentenza prevista dall’art. 2932 c.c. venga richiesta prima
che l’aggiudicatario venda a terzi l’immobile in violazione del contratto
preliminare, sia pure unilaterale.
L’obbligazione
di retrocessione assunta con il contratto preliminare unilaterale, infatti,
nel caso di vendita ad un terzo dell’immobile predetto, sorge e si esteriorizza
contemporaneamente al suo inadempimento, cosicché il promissario
non può chiederne l’adempimento in forma specifica per l’incoercibilità
di essa a seguito della vendita al terzo. In altre parole: se viene violato
l’impegno a vendere ad una certa persona perché si vende ad un’altra
persona, il primo promissario non può pretendere di conseguire coercitivamente
gli effetti della vendita perché il bene che gli interessava è
ormai passato irrimediabilmente in proprietà di altri.
In tal caso,
dunque, non resterà all’ex fallito che il diritto il risarcimento
del danno perché l’impegno alla rivendita ha carattere obbligatorio
e non ha le caratteristiche del diritto reale come il tipico diritto di
proprietà.